Il bagaglio del viaggiatore
Corso di formazione alla Mondialità e Missionarietà
21 marzo 2009
IL BAGAGLIO DEL VIAGGIATORE: OCCHI , ORECCHIE E CUORE
Amedeo Cristino
Non sono un “teorico del bagaglio” quindi parlerò in maniera esperienziale riferendomi al mio bagaglio.
Quando nel 1996 sono partito per l’Africa mi sono resto conto facendo il bagaglio che questo era un atto importante perché era un momento in cui facevo un po’ il punto, era un momento estremamente centrale della mia vita perchè facevo un bilancio, perché quando Air France ti dice che che puoi portare solo 30 chili e devi ridurre tutta la tua vita a 30 chili, allora è complicato. Tutto quello che ti sembra indispensabile portare con te, lo metti sul letto e poi lo metti nella valigia che finisce per pesare 50 chili. Allora a quel punto devi decidere cosa eliminare…quali foto, quali libri, ecc..
Anche al ritorno sarà importante aprire quel bagaglio per vedere cosa c’è dentro. Poter contare ed elencare le cose che mi sono portato dietro è estremamente importante.
Nel posto in cui si va si deve arrivare con un equipaggiamento particolare. Voi viaggiate nell’era della globalizzazione, nel mondo non c’è nessun punto che non sia raggiungibile in una sola giornata. Un ragazzo scappato da Lampedusa però mi ha detto quanto è durato il suo viaggio dal Mali…per cui non è poi così vero che tutto il mondo è raggiungibile in una giornata, dipende da chi viaggia, perché i motivi del viaggiare sono molto diversi. C’è un modo di viaggiare occidentale che è molto aggressivo, molto violento, e ci sono altri stili di viaggio. Per noi viaggiare è stato sempre un punto da cui partire ed un altro punto a cui arrivare, la strada serve ad unire i due punti, quello che c’è in mezzo non ci interessa. Per un africano è diverso perché parte e non sa quando arriva, perché durante il viaggio fa una deviazione per fermarsi da qualcuno, poi riparte e poi si ferma di nuovo da un parente e così via. Per l’africano la strada non serve ad unire due punti ma è uno spazio di relazioni che vanno coltivate. Ci sono popoli che viaggiano in maniera diversa, i poveri viaggiano diversamente dai ricchi, anche se usano lo stesso mezzo non lo faranno mai insieme (prima classe, seconda, turistica, ecc), hanno luoghi, modi, strumenti e uno stile diverso nel viaggiare.
Quindi vado nel Sud del Mondo, verso luoghi di una terra che è santa. Devo entrare nella logica del pellegrinare verso qualche cosa che è santificato dal dolore, dalla sofferenza, dalla fatica, dal riposo, dalle cose quotidiane che la gente vive, per alimentare la speranza. Devo arrivare allora davvero in punta di piedi; metto in valigia come fatto importante una grande curiosità ma metto anche una grande attenzione a quel posto a quella gente a quelle persone verso le quali vado. Viaggio verso delle persone. Trovo la gente e la loro vita quotidiana e arrivo quindi con un grande rispetto. Andare in Africa è un pellegrinaggio verso quello che produciamo con il nostro stile di vita, quella povertà che trovo è una povertà strutturale perché non è possibile far sì che l’intera umanità abbia il nostro stile di vita perché non c’è energia sufficiente, né acqua, perché se tutti consumassero quello che uno statunitense consuma in acqua annualmente non basterebbero i mari, non avremmo posto per mettere l’immondizia (ci vorrebbero solo per questo 8 pianeti). La via non è portare gli altri al nostro livello ma calmarsi e rinunciare a qualche cosa e allora ce n’è anche per gli altri, allora loro si solleveranno un po’ solo se noi ci abbasseremo. Siamo disposti a farlo? No, allora dobbiamo capire che quella situazione è funzionale a tutto ciò che ritengo in questo momento per me indispensabile (che in casa mia ci siano 3 televisori, due frigoriferi, 3 macchine, ecc). Quindi quando parto non vado per fare qualcosa per i poveri, i poveri stanno già facendo tanto per noi, fanno i poveri perché noi non lo facciamo. Devo lasciare che i poveri siano utili a noi cioè ci aiutino a capire, a riflettere, a rivederci a partire da loro, partendo dalle situazioni che attraverso il filtro degli occhi mi entreranno fin dentro il cuore.
Viaggiare è una cosa antichissima che ha sempre avuto un grande fascino sull’uomo, l’uomo è un viandante, il viaggio è un istinto antichissimo. Si viaggia per vari scopi: sesso, soldi, turismo, curiosità, sport, noia, lavoro, con la speranza nel cuore o perché si è troppo disperati. Il barbone cosa fa tutto il giorno? Cammina, viaggia, ha senso solo muoversi.
Il viaggio ha un estremo fascino sull’uomo, lo prende enormemente, ed io viaggio per andare incontro ad una umanità altra, vado verso la diversità; ci vuole curiosità, rispetto e disponibilità a lasciarsi contaminare e toccare dalle situazioni. Si può viaggiare senza uscire mai dal proprio mondo. Quando ho viaggiato con la Croce Rossa ci siamo portati tutto e allora l’altro è solo uno che ha bisogno di cose che io ho ma che cosa ha da darmi lui? Cos’è che ho da scoprire in questo universo? Noi non abbiamo tutte le verità su noi stessi dentro di noi. Ho bisogno degli occhi di un altro per sapere la verità su di me. La verità che non ho su di me sono gli altri che me la devono consegnare. Noi non abbiamo tutte le verità su noi stessi e se viaggio, mi muovo e vado così lontano è perché c’è una verità su di me che è là e devo andare a trovarla, una verità su di me che l’altro ti può raccontare. Non c’è un solo modo di essere famiglia, non c’è un solo modo di abitare il tempo, non c’è un solo modo di vivere la relazione, non c’è un solo modo di accogliere o rifiutare, non c’è un solo modo per dire grazie. Ci sono tanti modi diversi di fare tutto questo. Allora vado a bere nel pozzo di un altro.
Il primo viaggio in Africa l’ho fatto come turista (sebbene avessi già maturato la volontà di partire come missionario) ma solo l’ultimo giorno ho verificato che potevo starci, ho avuto una conferma che umanamente mi ha fatto dire “voglio stare qui”. Andai a comprare oggetti artigianali per spendere gli ultimi soldi che non avrei potuto cambiare in Italia, e cominciai a parlare con il negoziante che mi fece alcune domande classiche alle quali risposi. Pagai, uscii e, fatti 10 metri, lui mi richiamò dandomi una spilletta in ebano in regalo e gli dissi “perché mi fai questo regalo?” E lui mi dette una risposta che mi ha ucciso: “ tu vieni da un paese che non ho mai visitato, non c’è speranza che io venga nel tuo paese, è la prima volta che tu vieni qui e non sai se tornerai, questa potrebbe essere la prima ed unica volta che noi, io e te, ci incontriamo ed io vorrei che tu ti ricordassi di me non come quello che ti ha venduto una serie di elefantini ma come colui che ti ha regalato una spilla e mi piacerebbe potermi ricordare di te non come quello a cui ho venduto qualche cosa, ma come quello al quale ho regalato qualche cosa”. Bere al pozzo degli altri ti restituisce un sapore che non sentivi da tanto tempo. Ho deciso di andare là. Vale la pena di muoversi con questa attenzione, ci sono delle cose buone che la gente lì può preparare per noi.
Attenzione a contaminare ed a farci contaminare ma a non inquinare. Inevitabilmente contaminiamo l’ambiente dove arriviamo con la nostra presenza ma non dobbiamo inquinarlo. Per esempio l’orologio in Africa non ha molto senso perché il tempo ha un altro valore, loro dicono: voi bianchi avete l’orologio ma non avete mai tempo, noi non abbiamo l’orologio ma abbiamo il tempo. Si tratta di entrare in questo universo dove il tempo è altro, dove le relazioni hanno un altro peso specifico, dove il modo di vivere le relazioni è altro, così come il modo di vivere la familiarità, l’accogliere, il salutare, e devo rispettare quei tempi. Il nostro modo di vivere il tempo è il migliore? Il nostro modo di educare i figli è il modo migliore? Il nostro modo di essere famiglia è l’unico? E’ il migliore? Non lo so. So che ci sono delle cose nostre che scioccano fortemente la gente di lì (per esempio le case di riposo). Ci sono cose loro che scioccano terribilmente noi (alcuni popoli considerano i bambini stregoni quelli che nascono per i piedi e l’uomo col coltello lo sgozza).
Abbiamo sempre misurato il mondo partendo da noi tirando conclusioni assurde. Quando siamo arrivati in Africa e li abbiamo visti tutti nudi abbiamo detto che non avevano senso del pudore, noi invece sì perché ci copriamo, ma il problema è nostro, nella nostra realtà. Ci sono dei pregiudizi che andando lì verranno fuori e allora in valigia, oltre alla curiosità, oltre a questa voglia di incontrare e di assaggiare qualcosa che è diverso devo anche mettere la disponibilità a confrontarmi con i miei pregiudizi. Io mi sono accorto che ancora avevo questi pregiudizi quando ho avuto la prima malaria perché mi hanno portato in ospedale e, in una situazione estrema come questa, ci sono degli avanzi di un atteggiamento nei confronti dell’altro che emergono inevitabilmente. Emergono paure e ansie che in una situazione non protetta non riesco più a controllare. Il viaggio in quelle condizioni ci pone in una situazione estrema, la nostra umanità raggiunge le sue frontiere e lì si manifestano ansie, angosce, ecc. Attenti quando tornate: Veltroni è stato in Africa 20 giorni e ha scritto due volumi, meno tempo stiamo in Africa e più sappiamo! Io dopo nove anni so che l’Africa è una cipolla e mentre la sbucci non puoi impedirti di piangere. Mentre senti racconti di gente che dopo poco torna e dice di aver visto solo bambini felici…ma io sono lo straniero in una cultura dove l’ospite è sacro, è Dio che è venuto a trovarmi, e si offre il miglior viso che si ha, ma del dramma che si vive non viene detto nulla, perché non è all’ospite che si deve dire questo. Bisogna fare attenzione perché nei nostri racconti confermiamo dei pregiudizi. La povertà fa cose tremende, non devo dire i poveri sono più felici, hanno più fede. I genitori a volte vendono i figli per miseria a chi se li prende per farli lavorare. Nei locali dove vanno gli europei si vede cosa fa fare la miseria. La povertà scelta, voluta, rende migliori, quella subita no, quella lascia solo un sentimento di rabbia dentro. Attenti quando raccontate, tornando dobbiamo dare voce ai poveri che le parole le hanno, li manca la possibilità di farsi sentire. Ciò che il povero mi ha raccontato devo solo vestirlo di voce ma le parole sono sue e così devo raccontare come vive, come ama, come vuole bene, ecc. Questa del pregiudizio è una cosa importante, decisiva, attenti. Noi diciamo di avere l’arte e loro diciamo che hanno l’artigianato: Picasso è Picasso perché ha incontrato l’arte makonde africana! Parliamo di etnie quando si tratta di popolazioni numerosissime. Il primo storico africano, Ki-Zerbo, disse che lui aveva deciso di diventare storico il primo giorno in cui ha fatto storia a scuola perché aprendo il testo di storia la prima frase diceva: “i nostri antenati, i galli”. Lui diceva: “sono stanco di prendere a prestito la storia degli altri”. Interrogando un vescovo africano chiesi cosa dovevo dire di importante ai missionari che preparo a venire in Africa e lui mi disse: “digli per favore che non vengano ad umiliarci con i loro potenti mezzi della carità, perché aprite strutture che noi non possiamo portare avanti perché non abbiamo mezzi”.
INTERVENTI
Domanda: Che cosa ci insegna la missione nei confronti del povero che avanza verso di noi, cosa possiamo dare?
Risposta: E’ vero i poveri avanzano perché vengono verso, ma per le nostre comunità cristiane a volte i poveri avanzano nel senso di quello che resta, che non conta. Noi abbiamo aperto delle rotte. Tutto il mondo era molto ordinato, c’erano i paesi di antica tradizione cristiana e quando si diceva missione si pensava all’Africa, all’America Latina, all’Asia, quindi i nostri erano tutti viaggi che partivano dai nostri porti e andavano verso quei paesi. I poveri hanno cominciato a fare lo stesso viaggio al contrario utilizzando le stesse rotte usate per portare pane e Vangelo. Quale immagine di Occidente abbiamo dato a questi paesi? Siamo arrivati con la nostra efficienza, i soldi, ecc., raccontando del nostro mondo e a loro è venuta voglia di venire a vedere questo mondo da favola e di cercarsi la speranza qua. Noi abbiamo tutti studiato ma siamo di una vulnerabilità enorme rispetto all’informazione, siamo tutti convinti che c’è questa specie di arrembaggio dei poveri sulle carrette del mare che sbarcano a Lampedusa. Il 17% dei clandestini in Italia viene dal mare, il resto arriva alla Stazione Termini, a Fiumicino, in aereo con un normale visto turistico di tre mesi al termine del quale si imbosca. La carretta del mare la guida quello che ha già avuto il foglio di via, è già stato espulso dall’Italia e che non ha nessuna possibilità di ripresentarsi. E nelle nostre comunità questi poveri stanno alla porta della Caritas. Sono musulmani, cattolici, cristiani, protestanti che nelle nostre comunità non trovano la possibilità di inserirsi. Stiamo tutti aspettando che la Cina apra le sue frontiere per mandare missionari, ma a Prato ce ne sono già 40.000 di cinesi, cosa aspettiamo ad andare in missione a Prato? La Chiesa deve farsi carico non delegando ma deve far sì che ognuno sia attento a queste situazioni. L’emigrazione è un fenomeno sociale, è un fatto politico, economico ma è anche un’opportunità ecclesiale, è per noi il tempo di vivere una missione internamente. Se vado nel Sud del mondo questa estate è perché mi si affini lo sguardo rispetto a queste situazioni qui che sono quotidiane. La prima cosa essenziale che dobbiamo fare è circondare di umanità queste persone, rispettando i loro nomi facendo la fatica di impararli. E’ uno spazio di missione, di annuncio. Gli immigrati ci stanno pagando le pensioni con i contributi che stanno versando che forse non riavranno perché se ne andranno. Si tratta di cominciare a parlarne e insieme trovare una via, uno stile di rapportarsi.
Domanda: Con quale spirito vengono qua i preti dal sud del mondo?
Risposta: Secondo me in qualche modo stiamo tamponando delle situazioni con personale preso in quei paesi che hanno un’abbondanza di vocazioni. Questo non può essere il rimandare a prendere delle decisioni serie sulla pastorale, sul modo di organizzare la vita delle parrocchie. Ma ci dovrebbe essere davvero un discorso di scambio, di cooperazione, di dono reciproco fra chiese avvertendo la necessità di dire che qualcuno che viene da fuori è in grado di regalarci uno sguardo su di noi differente, e allora ciò diventerebbe una ricchezza. Ma in molte situazioni non è con questo spirito che vengono fatte le cose. Riguardo al numero delle vocazioni dobbiamo ragionare in percentuale sul numero di giovani presenti nei vari paesi e vedremo che dal 1968 (punta di crisi nelle vocazioni) la situazione non è cambiata di molto. Questo con fenomeni diversi in Italia nel nord e nel sud, e per esempio in Toscana dove c’è stata una forte discesa anche per l’assenza in molte zone di pastorale vocazionale. Deve essere strutturato un discorso vocazionale, la realtà della povertà fa sì che nell’immagine del prete e del suo ruolo sociale e nelle possibilità che gli vengono offerte c’è anche la ricerca di un riscatto sociale per cui una parte di seminaristi sarà lì anche per questo ma è l’attenzione dei superiori a cercare di capire chi ha sufficienti motivazioni e chi no. Là i seminari sono pieni e qui no e da noi anche gli istituti missionari sono in crisi vocazionale, gli europei che vogliono fare i missionari comboniani sono pochissimi mentre i non europei sono tantissimi. Alcune congregazioni sono destinate a diventare solo estere.
Domanda: Fino a che punto quando andate in missione distinguete la promozione umana e l’evangelizzazione?
Risposta: L’equilibrio fra pane e parola è difficile. Questa fatica l’ha sostenuta anche Gesù Cristo, la prima tentazione è stata il pane e lui dice che il senso della Sua venuta è la parola non il pane. Io sono parola che diventa pane. Il pane può oscurare la parola per cui ogni volta che Lui moltiplica il pane scappa. Gesù questo pane moltiplicato lo fa dare dai discepoli Lui lo spezza e basta ma chi lo deve distribuire sono loro e lo dà creando piccole comunità (gruppi di 50 e di 100); è una bella immagine di promozione umana: il pane che viene dato alla gente è lo stesso dato dalla gente. Gesù lo divide, divide ciò che la gente stessa gli ha dato. Lui fa crescere questo pane ma non è più protagonista della distribuzione perché lo è la comunità, lo sono i discepoli. Comunità protagonista della carità. Il fine di questa distribuzione è organizzare queste piccole comunità. Saputo questo poi lo cercheranno per farlo re ma Lui scappa. Ad Emmaus invece il pane apre gli occhi, ma è quello consumato la sera dopo un’intera giornata di cammino in cui è stata mangiata solo parola. Lo straniero che si è accostato ai discepoli ha riletto il loro dolore in tutta la Parola. E la sera quando spezza il pane si aprono loro gli occhi e lo riconoscono. Allora il pane può diventare annuncio stesso. Dov’è la frontiera? E’ l’annuncio stesso. Quel pane spezzato (che può essere un ospedale, una scuola, un dispensario, ecc.) può aprire gli occhi sulla realtà di Gesù Cristo nella misura in cui c’è una reale condivisione di vita, un cammino fatto insieme nutrito di parola (Emmaus). L’equilibrio in tutto questo è una continua ricerca. Il senso della Chiesa è forse essere un’enorme ong dello sviluppo? Certo è che se non fa sviluppo non lo fa nessun altro. Come fare perché non si dimentichi qual è il senso del mio venire nel sud del mondo?
Domanda: Io penso che molti di noi non potranno viaggiare da nessuna parte ma sarebbe interessante fare il viaggio all’interno della nostra stessa società. Ci sono situazioni di povertà che in passato venivano considerate un’ingiustizia e adesso no. Cosa si può fare per cambiare le cose viaggiando nella nostra società?
Risposta: O che si vada in giro per il mondo o che si resti qui la cosa determinante è che il cuore stia dove stanno i piedi. Esserci fino in fondo, esserci pienamente, con consapevolezza. Che il sentimento e la nostra presenza coincidano.
Domanda: L’atteggiamento missionario verso l’altro potrebbe essere definito come benevolenza, nel senso di volere il bene dell’altro?
Risposta: Sì certo possiamo intenderlo così. C’è un proverbio africano che gli anziani insegnano ai bambini: la felicità è un seme strano, diverso dagli altri, diventerà albero nel tuo campo se lo semini in quello di un altro. Volere il bene dell’altro significa volere anche il proprio bene. Se rendi felice qualcuno sarai felice anche tu.
Domanda: Vorrei che ci dicesse qualcosa sul bagaglio del ritorno, su come cambia lo sguardo sulla realtà da cui si era partiti.
Risposta: La valigia del ritorno è una sorpresa, perché dipende tanto dall’esperienza personale di ognuno. E’ chiaro che la troverò ricca di cose nella misura in cui la mia esperienza è davvero un’immersione voluta, cosciente, serena nella realtà che ho di fronte. E troverò cose che non sospettavo di aver messo in valigia. Voglio osare viaggiare e andare incontro all’altro in libertà, accoglierlo per quello che è, gustare la sua accoglienza. Stare con l’altro, respirare il suo odore, sentire il gusto della sua vita e provare a vedermi coi suoi occhi per trovarmi diverso. Non cambierà nulla per l’Africa se non cambiamo noi. Il viaggio serve per capire che cos’è che stiamo fabbricando e se resto con i piedi qui resto con la convinzione che stiamo costruendo il migliore dei mondi possibili. I nostri stupori sono confinati solo nella tecnologia. Sono stupori aridi che non ci rendono capaci di preghiera, di contemplazione per giungere all’intuizione dell’oltre. Devo capire che ho bisogno di mettere in discussione le certezze della mia vita; i pali fermi che mi sembrano intoccabili vanno assolutamente ridiscussi e ridiscussi in comunità, per fare gruppo intorno a persone, per coagulare la sensibilità intorno a queste cose perché si diffonda uno stile diverso del consumare, del comperare, del nutrirsi, dell’essere insieme con gli altri, della responsabilità.
Domanda: Uno di noi che tipo di viaggio può fare? Con quale organizzatore?
Risposta: Fare un viaggio che veramente lo faccia entrare in relazione con le persone e le situazioni, con la gente e il suo vissuto quotidiano. Se andate nel sud dell’Etiopia, sul fiume, c’è una tribù, quella dei dischi sulle labbra, ecco, quella tribù è spappolata dal punto di vista culturale, in realtà non esiste più, perché chi va in Etiopia va lì, allora loro si abbigliano per il turista, trattano il prezzo e cominciano a farsi fotografare. Dal punto di vista culturale (riti di iniziazione, i vari significati) sono stati distrutti perché sono diventati ad uso e consumo del turista e si mantengono così. E’ inevitabile che noi contaminiamo e quindi abbiamo una responsabilità. Dobbiamo stare attenti e nelle missioni prima di fare qualcosa è bene chiedere ai missionari. Nei villaggi africani che sono stati da noi contaminati la gente chiede soldi, laddove non c’è stata contaminazione c’è una vera accoglienza e sono loro a dare, a regalare e non si va via a mani vuote!
Quando andrò via dovrò lasciare qualcosa di buono, qualcosa di valido.
Domanda: Cosa si deve fare per non innalzare più muri (es. muro di Padova, muro di Zapatero)?
Risposta: Questo è un discorso molto articolato. Nel 1966 quando sono arrivato a Firenze con la mia famiglia dalla Puglia, ho iniziato con un mese di ritardo la scuola perché nella scuola non mi volevano mettere in classe coi fiorentini perché ero meridionale. Tutti i giorni mia madre mi portava a scuola e tutti i giorni mi riportava a casa. Dopo una grande discussione giunsero alla conclusione di farmi sostenere un esame di italiano, io che andavo a scuola per imparare l’italiano dovevo sostenere un esame di italiano parlato per vedere se ero in grado di iniziare la prima elementare in una scuola di Firenze. Ci sono riuscito. Io questo lo chiamo razzismo, lo giudico estremamente umiliante, mi ha fatto un grande favore perché mi sono detto “li devo distruggere e in quel posto lì devo essere il migliore in assoluto”, quindi mi ha dato questa determinazione, però vi dico che è un percorso estremamente umiliante e rivestito di abiti belli. Lucio Battisti diceva “come può uno scoglio arginare il mare”, costruiamoli i muri….Noi siamo una minoranza di vecchi e lì c’è una maggioranza di giovani, ci distruggeranno, butteranno a terra quei muri. Chi attraversa l’Africa, il deserto ecc. per sbarcare a Lampedusa non lo ferma più nessuno, e tornerà, perché la disperazione porta a questo, la disperazione è il sapere che da una certa situazione non uscirò mai. Non riusciremo a fermarli. Lo spostamento di popoli crea sempre problemi. L’atteggiamento attuale non risolve il problema, abbiamo una politica più dura riguardo agli ingressi però i clandestini sono aumentati, quindi non è efficace e crea i presupposti per un odio.
Domanda: La non conoscenza della lingua crea problemi tra noi e chi si va a incontrare?
Risposta: Dalla mia esperienza dico che la parola è uno straordinario mezzo di comunicazione, il non conoscere la lingua toglie a noi l’arroganza delle troppe parole. Noi abbiamo 10.000 parole, alcune popolazioni solo 100 alla fine parliamo solo noi. Quindi esprimersi con i gesti è inusuale e a volte ambiguo. Anche se c’è una mediazione senza la lingua si parte da una posizione di inferiorità, di povertà che poi in fondo non è così negativa.
Domanda: E’ lecito aspettarsi che queste persone allo stesso modo provino a integrarsi nella nostra cultura?
Risposta: E’ solo negli ultimi dieci anni che parliamo di inculturazione ma è dal 1500 che viaggiamo e che abbiamo fatto di tutto (conquistadores). Non siamo stati così rispettosi. La nostra non è una tolleranza antica. I più fondamentalisti sono quelli che non mettono piede in una chiesa da tempo. Noi stiamo spiegando poco di quel che siamo all’altra gente: il senso della croce, il senso del presepio. Sappiamo davvero dire qual è la mia identità di italiano? Alla fine difendiamo delle cose che così identitarie non sono. L’identità è fatta di cose sostanziali. Allora la nostra identità cos’è? E’ un aiuto quello che possono darci gli stranieri per capire cosa c’è nella mia identità. L’Europa ha detto che la cristianità non è la sua identità. Questo ci deve porre un problema perché è stato detto non da musulmani ma da Giscard D’Estaing e compagnia. La mia identità di pugliese, e si capisce da tante parole, è fatta di normanni, di spagnoli, il patrono S. Nicola era un vescovo che veniva dalla Grecia.
Le cose sull’identità di ognuno sono molto complesse.
La santeria e il candomblé sono il risultato degli schiavi africani che come religione tradizionale avevano il vudù e, non potendo esercitarla perché il padrone cattolicissimo non voleva (quegli idoli erano il demonio), allora loro andarono a cercarsi nell’universo del padrone ciò che somigliava all’immagine della propria divinità. Così il padrone era pure contento. E questa è una forma di resistenza, è l’uomo che non si lascia schiacciare mai fino in fondo. Dopo che ero stato in Benin è stato impressionante trovare i riti vudù a Salvador Bahia e vedere delle cose straordinarie. Nascono così anche le lingue degli schiavi (creoli).
(Testo non rivisto dall’autore)