Una scelta di vita al nord o una scelta obbligata di morte al sud
Corso di formazione alla Mondialità e Missionarietà
17 maggio 1997
Una scelta di vita al nord o una scelta obbligata di morte al sud
Iniziative e riflessioni sul vivere quotidiano per combattere ingiustizia e impoverimento
Gianni Caligaris
Buongiorno a tutti.
Spero di non aggiungere la pesantezza della mia trattazione ad un giornata già calda nella quale vi ringrazio per l’eroismo di essere qui anziché in campagna, che sarebbe stata una meta assai più desiderabile.
Investirei i primi dieci minuti per dare un fondamento, per dimostrare, come si fa con i teoremi a scuola, il titolo di oggi: “Una scelta di vita al Nord o una scelta obbligata di morte al Sud?”. Dieci minuti per un ragionamento veloce intorno a questo collegamento che noi, forse io, tanti altri, viziati da anni di interesse su queste cose diamo ormai per scontato, ma che nella cultura prevalente scontato lo è ancora molto poco, non è molto accettato e verificato. Quindi credo che sia giusto, ogni tanto, ripassare, ma facendolo proprio su una base, se mi perdonate, abbastanza tecnica, giocata con le regole del campo avverso.
Da tanti anni quando si ragiona di rapporti economici fra Nord e Sud, di divario fra Nord e Sud, di disequità sostanziale all’interno del sistema economico mondiale, di rapporti fra i popoli e le nazioni, da parte di chi analizza questi fenomeni con una certa ottica si pone regolarmente il dito su una serie di piaghe che io qui non illustrerò, perché le do per scontate e mi limito a citare per capitoli:
- la quarantennale o cinquantennale opera di spoliazione del Sud, delle proprie risorse, delle proprie materie prime, da parte dell’industria del Nord che consuma macina e rifiuta la maggior parte delle materie prime del pianeta;
- il metodo iniquo e sicuramente non liberista, non certo da libero mercato, con cui vengono formati i prezzi di queste materie prime, attraverso quella forma di oligopolio della presenza delle multinazionali che tengono estremamente compressi i guadagni e i profitti dei produttori del Sud;
- la pesantezza del debito internazionale, che schiaccia come un macigno soffocante le economie del Sud e che impedisce loro di avviarsi verso un percorso sufficientemente veloce di autodeterminazione, di autosviluppo;
- l’ingerenza tuttora forte che le politiche e gli interessi geopolitici ed economici delle potenze industrializzate giocano ancora sul campo neutro, ma sofferente, del terzo mondo, del Sud, dei paesi in via di sviluppo, provocando una serie di catastrofi che esigono oltre ad un prezzo di sangue, anche il sacrificio di economie che potrebbero sbocciare e che invece restano stritolate all’interno di forti conflitti;
- la tragedia dell’Africa, dei Grandi Laghi, che si sta consumando in questi anni e che, fra l’altro, proprio fra ieri e oggi, vede probabilmente la chiusura di uno dei suoi tanti capitoli con l’uscita di scena, speriamo definitiva, di Mobutu e con i punti interrogativi che mi permetto di continuare ad avere su Kabila, non è altro, dietro il facile stereotipo dei conflitti etnici che la nostra stampa continua ad ammannirci con la panna montata, non è altro che il risultato anche dell’ennesimo scontro tra grandi interessi geopolitici ed economici dei paesi industrializzati consistente nella difesa del predominio franco-belga su una zona nella quale invece gli Stati Uniti vorrebbero entrare e, nella quale stanno entrando, per l’appunto con la vittoria di Kabila su Mobutu.
Quindi, dicevo, questo tipo di analisi, insomma la spoliazione delle materie prime, i prezzi di formazione delle materie prime, il ruolo delle imprese multinazionali, che d’ora in poi, ricordatevelo bene, per non fare brutta figura, bisogna chiamare imprese globali, perché “multinazionali” è ormai un termine da archeologia economica, le ingerenze ancora geopolitiche dei paesi industrializzati alla ricerca della tutela dei propri interessi, sono – per grandi famiglie – quegli elementi di forte violenza economica e politica che da sempre sono stati individuati come fra i principali portatori d’acqua al divario Nord Sud e al mantenimento di questa situazione di diseguaglianza infernale.
A fronte di queste analisi altri ci hanno sempre detto che, sì, è vero, c’era tutta questa serie di cause, ma vi erano altre concause, come l’apparente incapacità di molte situazioni dei paesi in via di sviluppo di darsi ordinamenti democratici, quindi di creare i presupposti per uno sviluppo a 360° della loro società civile e quindi anche dell’economia, ma che comunque al di là delle cause e delle concause si stava lavorando solidamente per far uscire questi paesi dalle secche di situazioni economiche non vivibili attraverso una forte operazione pedagogica, didattica, consulenziale attraverso la quale il vincitore della sfida storica, che è il Nord industrializzato, doveva, con tutta la fatica e il sudore del caso, insegnare a queste culture un po’ aliene, rispetto al percorso fatto dai paesi industrializzati, a seguire lo stesso percorso e quindi ad entrare nei meccanismi dell’industrializzazione, del grande mercato internazionale, del risanamento finanziario e così via.
Questa opera di pedagogia che l’occidente si era ripromesso, fin dagli anni dell’immediato dopoguerra, di fare nei confronti dei paesi che già allora venivano definiti in via di sviluppo, si basava e si basa sostanzialmente su due grandi colonne missionarie.
Una, quella dell’industria, che prometteva di andare nei paesi in via di sviluppo con la propria tecnologia, con la propria capacità per insediarvi delle attività e per avviare, quindi, il processo di industrializzazione, e la seconda, quella della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale che, da un lato dovevano assicurare i capitali per questa forma di sviluppo e dall’altro insegnare anche a questa “banda di arretrati” come usare i capitali, quindi dare i rudimenti di un’economia nazionale e i rudimenti di tutte quelle azioni che questa economia nazionale doveva porre in atto e mantenere per potersi sviluppare.
Così è nato, negli anni subito dopo la guerra, il meccanismo dei prestiti, che poi per tutta una serie di motivi, compresi quelli legati alla questione petrolifera (ma adesso qui non ne possiamo fare la storia) è diventato un meccanismo asfissiante, che ha cominciato a generare quel famoso rapporto fra BM e FMI e paesi debitori, che viene definito con il termine di “MISURE DI AGGIUSTAMENTO STRUTTURALE”.
“Misure di aggiustamento strutturale” che cosa significa? (faccio un ripasso veloce, anche se penso siano meccanismi molto noti).
Significa che se io sono il creditore, quindi la BM e il FMI, e voi siete i debitori, quindi siete uno o più paesi che avete con me tutta una serie di debiti che fate fatica a ripagare, di cui fate fatica forse anche a pagare solamente gli interessi, probabilmente succederanno due cose nelle prossime ore: una potrà essere che alcuni di questi vostri debiti scadono e quindi dovreste rimborsarmeli, come chiunque di noi fa quando fa un mutuo per comprarsi una casa o quando firma delle cambiali, e, secondo, potrebbe anche succedere che avete bisogno, addirittura, di nuovi prestiti, di nuovi fondi, di nuovi capitali e quindi me li venite a chiedere. Allora come minimo mi chiedete di rinnovarvi un prestito e se proprio siete messi veramente male mi chiedete anche un prestito nuovo. Io a questo punto vi guardo con la facilità che ha qualunque creditore di guardare un po’ dall’alto in basso un debitore e vi dico: “Ragazzi, io ve li darei molto volentieri, però, voi capite che io non posso continuare a prestare dei soldi a chi non mi dà nessuna garanzia di restituirmeli, perché prima o poi me li dovrete restituire”. Però come qualunque capo filiale di una banca in Val Padana, in Toscana o in Lazio, se il salumiere gli va a chiedere i soldi per ampliare il negozio, prima di darglieli valuta se questo glieli restituirà e altrettanto, io che sono una BM devo fare nei confronti dei miei clienti che sono gli Stati. Quindi: “ io ve li presterei, ma voi me li restituirete? Finora non avete dato grandi prove, anzi finora me ne chiedete continuamente di nuovi, fate fatica a pagare gli interessi; io come faccio a prestarvi altri soldi e a dormire tranquillo?”. E allora voi mi fate la faccia allarmata e mi dite: “Si, in effetti non è che abbiamo dato grandi dimostrazioni, abbiate fiducia in noi, ce la faremo”. Ma con i “ce la faremo” il mondo non gira. Io, tuttavia, che sono la BM, sono il FMI, quindi sono nato dall’ideologia di qualche economista liberale che credeva veramente nella possibilità di far sviluppare i vostri paesi, uno sforzo posso ancora farlo, vi posso ancora prestare questi soldi, vi posso rinegoziare il mio debito per altri cinque anni, però voi mi dovete dimostrare che avete imparato l’ABC della finanza internazionale, che avete imparato che cosa bisogna fare. Per dimostrarmelo io vi chiedo di applicare delle misure di aggiustamento strutturale che io vi insegno. Cos’è una misura di aggiustamento strutturale? Lo stiamo imparando anche noi, visto che il governo in questo momento deve applicare, anche rispetto all’economia italiana, delle misure di aggiustamento strutturale. Sono delle misure che modificano la struttura della spesa pubblica o degli incassi pubblici, quindi della finanza pubblica, in modo da far sì che nel futuro il disavanzo tra entrate e uscite sia minore.
E struttura significa andare quindi ad incidere sui meccanismi profondi che generano le entrate e le uscite di uno stato.
Quindi vi dico: “Signori, io i soldi ve li presto o ve li ripresto, ve li rinnovo se voi applicate queste misure di aggiustamento strutturale”
E quali sono? Beh, semplicissimo: bisogna raffreddare l’inflazione che sicuramente voi avete galoppante, perché siete dei disastrati; bisogna diminuire il disavanzo pubblico (cioè la differenza fra entrata ed uscita) e procurarvi valuta pregiata, che è quella che serve poi per acquistare ciò che serve al paese e per essere positivamente all’interno dei mercati finanziari internazionali.
Allora, raffreddare l’inflazione vuol dire (noi italiani lo sappiamo da tempo) come prima cosa congelare le dinamiche salariali e raffreddare i consumi e quindi fermare gli stipendi, fermare le eventuali pensioni, se ci sono, e quant’altro.
Aumentare gli ingressi di valuta pregiata significa esportare di più; per esportare di più in tempi brevi il modo migliore è consumare di meno all’interno: se oggi produco dieci, dopodomani non riesco a produrre cento e allora l’unico modo per esportare di più è consumare di meno all’interno.
Io ricordo, già almeno quindici anni fa, che quando era allora presidente della Caritas Italiana, Monsignor Nervo faceva spesso una cosa, sicuramente lo ha fatto sotto i miei occhi a Parma: mostrava ad un pubblico come questo una scatoletta di carne e diceva: “questo viene dall’Etiopia dove si muore di fame”. E perché dove si muore di fame si esporta carne? Proprio perché c’è bisogno di esportare e quindi esportare di più significa sottrarre al consumo interno. E ridurre il disavanzo pubblico, quindi il deficit fra entrate ed uscite, significa tagliare delle spese (e questo lo sappiamo anche noi italiani), significa cominciare a tagliare le spese sociali: istruzione, sanità, assistenza e quant’altro.
Allora io vi chiedo delle misure di aggiustamento strutturale che prevedono, una volta riuscite, di far delle cose magnifiche, perché allora avrete meno disavanzo pubblico, avrete una maggior riserva di valuta pregiata….
Peccato che il prezzo di questi obiettivi, di questi risultati sarà stato indubbiamente il congelamento e quindi l’impoverimento sostanziale di tutti i salariati, e quindi della fonte di reddito della maggior parte delle famiglie, sarà stato una serie di tagli più o meno duri alle spese sociali, sarà stata la sottrazione di consumo all’interno per esportarlo all’esterno.
Le tappe di questa forma di via crucis per il risanamento economico di un sistema, le stiamo sperimentando anche noi in Europa (Francia, Italia, Germania …) e si vede quanti guasti provocano, quante tensioni, quanti conflitti. Si tagliano posti letto negli ospedali, si riducono le spese, gli investimenti in cultura, si riducono le spese per l’assistenza e per il sociale. Pensate con gli occhi della mente e del cuore a proiettare tutto questo in economie che hanno già pochissimo. C’è differenza tra il farlo in economie come le nostre e farlo dove stipendi, spese sociali, strutture, ecc. non sono in grado di mantenere la propria popolazione. Però queste sono le condizioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario che dicono: “Lo sappiamo, suderete sangue per fare questo, soffrirete, però tenete duro: il risultato arriverà”.
Ci sono delle famose analisi che troppo facilmente vengono liquidate come terzo mondialiste, che dicono: “il disavanzo nel sud dipende appunto dalla rapina, dipende dai prezzi e così via”. La scuola più tecnocratica dice: “Sarà anche vero tutto, però noi stiamo lavorando, attraverso questa grande operazione di consulenza e di assistenza all’aggiustamento strutturale delle economia dei paesi in via di sviluppo, per farli uscire dalla notte e portarli verso la possibilità di svilupparsi”. In relazione a questo vi cito una frase di Latouche che spiega un po’ il senso di quello che intendo dire. Dice Latuoche esaminando le tendenze attuali dell’economia mondiale e quali sono i suoi trend, gli sviluppi futuri, ecc. “Se c’è una differenza, se c’è uno iato, se c’è un divario fra l’entità del problema e la modestia dei risultati realizzabili in questo momento, a breve termine, lo si deve soprattutto alla solidità delle credenze che fanno reggere il sistema sui suoi sostegni immaginari”. (Non ottimista, ma credo sia vicino al vero). Allora, ecco come io credo che proprio questo approccio tecnocratico, che si basa sul postulato che i paesi in via di sviluppo usciranno dalla loro situazione di sofferenza economica e sociale solo nel momento in cui avranno imparato, digerito, metabolizzato ed applicato i nostri modelli di produzione e di consumo e che questa operazione non potrà mai avvenire se non accettando la consulenza, la didattica, la pedagogia delle tecnocrazie finanziarie della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale che costituisce proprio uno di quei sostegni immaginari alla legittimità di questo sistema economico che, credo, bisogna cominciare ad erodere anche proprio in casa dell’avversario, cioè valutando la vera forza e la vera applicabilità di ciò che sta in questa teoria.
Oggi però voglio fare riferimento a dei dati che vengono da una pubblicazione tecnica neutra (cioè che non interpreta i dati che pubblica). “Lo stato del mondo”, che viene pubblicato da anni, tutti gli anni, nei paesi di lingua anglosassone e che da alcuni anni é pubblicato tradotto da il “Saggiatore”. Ecco, proprio come esempio di quanto sia immaginaria la consistenza di uno di questi sostegni ideologici del nostro sistema economico, che è la validità di questo approccio che consiste nell’esportare in questi paesi i nostri modelli pedagogici e consulenziali della banca mondiale, proprio dell’annuario dello stato della mondo del ‘97, che si rifà al ‘96, vi cito pochissime cose tratte da uno dei tanti articoli che sono dovuti ad analisti politologi ed economisti che si intitolano “Quindici anni di aggiustamenti in Africa: una valutazione”. Prende in esame la regione dell’Africa sub-sahariana che comprende 520 milioni di abitanti, 51 stati, rappresenta il 10% della popolazione del mondo ma solo il 2% del PIL mondiale e solo l’1,7% delle esportazioni mondiali.
Ecco allora che fra l’80 e l’89 in questa macroregione, in questa zona dell’Africa sono stati fortemente, pesantemente applicate le misure, le politiche di aggiustamento strutturale proposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Alla fine di questi diciotto anni i 3/4 delle condizioni imposte dal programma sono stati raggiunti: quindi un 75% di raggiungimento degli obiettivi che il Fondo Monetario e la Banca Mondiale avevano posto e quindi, direi, un buon risultato. In questi anni sono stati realizzati importanti progressi a livello degli strumenti della politica economica, come il maggior controllo dell’inflazione, la limitazione del deficit di bilancio e così via. Però poi arrivano le note dolenti. La crescita positiva del PIL (prodotti interno lordo) si è verificata solo in 6 paesi su 29 e comunque in tutti, anche in questi sei, gli indicatori relativi alla sanità e alla istruzione si sono tendenzialmente deteriorati. Questo all’interno di un sistema che questa volta prendeva in considerazione un certo numero di paesi africani, escluso il Sudafrica che ha dei parametri a sé, in cui il debito andava da 57 a 178 e il rapporto fra gli interessi del debito internazionale e le esportazioni andava dal 28,4% al 106%.
Allora credo che di fronte a questi elementi, mettendoli insieme alla valutazione dell’UNDP (agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo) che nella sua ultima analisi del ‘93 rilevava che in questi ultimi venti anni il divario fra ricchi e poveri del pianeta è passato da 1 a 20 a 1 a 80. Valutazioni di questo tipo autorizzano a concludere che tutto questo sistema di trasferimento di cultura economica occidentale nei paesi in via di sviluppo è sostanzialmente fallito. Se ha dato qualche piccolo risultato lo ha dato a fronte di sostanziale deterioramento complessivo degli scenari in cui è stato applicato e soprattutto – ed è questo il dato che raramente gli economisti ed i politici prendono in esame – all’interno di questi sistemi, comunque a prezzo delle fasce più deboli, delle fasce più povere.
Infatti, sempre lo “Stato del mondo del ‘96” in un altro saggio, in cui si prendeva invece in esame la situazione dei diritti fondamentali quindi dei diritti umani, sostiene che le dichiarazioni delle soluzioni adottate sul diritto allo sviluppo si assumono la responsabilità di garantire, almeno teoricamente i diritti economici, sociali e culturali, ma le politiche di cooperazione bilaterale regionali e universali fanno poco caso alla sorte delle popolazioni cosiddette vulnerabili (bambini, nativi, anziani, popolazioni marginali) e i piani di aiuti della Banca Mondiale, dell’UNDP e del Fondo Monetario Internazionale stabiliscono raramente come prioritario il miglioramento delle politiche sociali. Si può persino affermare che i piani di aggiustamento strutturale dell’economia sovente imposti dal Fondo Monetario ai paesi in via di sviluppo, deteriorano quasi ineluttabilmente la situazione dei più poveri.”
Quindi possiamo chiudere il cerchio intorno a questo ragionamento di analisi di fallimento di una ventina di anni, di una trentina d’anni di politiche di aggiustamento strutturale nei paesi in via di sviluppo, valutando che anche in quei casi (soprattutto nel sud-est asiatico, ma in qualche caso anche in Africa e in America Latina) in cui complessivamente l’economia di un singolo paese era migliorata, ciò era comunque avvenuto al suo interno attraverso l’ulteriore compressione delle sue fasce più deboli e delle sue fasce marginali. E quindi in un’ottica di sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini questo è sostanzialmente ancora un punto di assoluta insufficienza e di assoluto malfunzionamento. Allora voglio dire se quarant’anni di cooperazione internazionale hanno fallito – e questo lo dicevano i rapporti dell’UNDP – se quarant’anni di cooperazione internazionale rientrano ancora nella categoria dell’oblazione, degli aiuti internazionali e così via che comunque hanno fallito, se quarant’anni di rapporti, più tecnocratici (investimenti industriali, Fondo Monetario, Banca Mondiale) hanno altrettanto fallito, allora credo che la conclusione, naïf dal punto di vista della sua definizione ma anche ragionevole, è che probabilmente vi sono meccanismi originali che si scrollano dalle spalle qualunque tipo di intervento che cali da nord a sud come una forma di missionarietà laica di tipo economico e che in realtà è uno stretto legame tra le economie del sud, ma non è un legame nel quale si può intervenire con mezzi tecnici, con delle strumentazioni di tipo tecnocratico, finanziario, industriale o altro. E’ evidentemente un legame di tipo originale che risiede – e qui credo che occorra, da parte di tutti, recuperare proprio questo modello di analisi, che sembrava un po’ arcaico – che risiede proprio in un rapporto parassitario fra l’economia del nord e l’economia del sud.
Allora questo rapporto parassitario si risostanzia in quei frammenti che citavo all’inizio e cioè nel drenaggio continuo di risorse, di materie prime che vengono prodotte, scavate o quant’altro al sud e vengono consumate dal nostro sistema produttivo che ha un bisogno di risorse che supera di gran lunga la possibilità di utilizzare risorse proprie e nel fatto che la redditività, la profittabilità del nostro sistema produttivo (quando dico nostro evidentemente mi riferisco all’insieme dei paesi industrializzati) poggia pesantemente sul fatto che queste risorse sono mal pagate, sono pagate a prezzi che non ripagano la fatica e il sudore dell’economia che le produce.
Ora questo problema lo possiamo sezionare artificialmente in due: da una parte, evidentemente questo problema è costituito da grandi meccanismi, da grandi fenomeni, da grandi comportamenti, che sono ad esempio quello delle imprese multinazionali che controllano il mercato delle materie prime, che è fatto dalle camere di compensazione fra le valute nel momento in cui si devono scambiare merci o prodotti finiti fra i paesi del mondo da cui derivano tutta una serie di meccanismi e di regole del gioco che indubbiamente sfuggono alla nostra percezione e anche al nostro livello di intervento: voglio dire, che livello di intervento abbiamo noi sui meccanismi, per esempio, attraverso i quali la borsa merci di New York fissa il prezzo delle banane? Evidentemente nessuno.
Questa è la parte più complessa dei meccanismi che incidono negativamente sull’economia del sud.
Però tutti questi fenomeni possiamo esaminarli anche da un altro punto di vista e cioè che alla fine tutto questo enorme frullatore, questo enorme tritasassi, produce beni e servizi e li produce per noi. In realtà tutti i meccanismi più o meno diabolici che noi possiamo individuare non sono mai meccanismi fini e se stessi, sono meccanismi che poi funzionano in quanto riversano prodotti, beni finiti, servizi, ecc., su un loro mercato di riferimento.
Perché la multinazionale compra le banane a cinque dollari al casco anziché a quindici? Perché ha il potere di farlo. Ma la domanda originale è: perché compra banane? Compra banane perché io le mangio. Questo è un dato evidente. Allora è vero, esistono meccanismi che funzionano in un certo modo piuttosto che in un altro, esistono meccanismi di vessazione, esistono meccanismi di violenza economica, ma nessuno li ha messi in piedi perché essi sono fini a se stessi, perché esistono e basta: esistono in quanto alle spalle c’è un mercato di riferimento che richiede, che consuma questi prodotti che sono il risultato di una lunga catena di tipo economico e produttivo.
Allora, mettendo, a questo punto, sullo sfondo i meccanismi, le dinamiche, i grandi attori internazionali, le grandi conglomerazioni, il ruolo dei governi, ecc., scendiamo per l’appunto sul mercato, sul mondo di un libero mercato e quindi evidentemente possiamo cercare di mettere da parte le sovrastrutture e per vedere qual è il rapporto fondamentale che lega i singoli mercati, facendo magari lo sforzo di dignità di mettere da parte il concetto di mercato e di risalire ai rapporti che legano invece le comunità, i popoli, le persone.
Se riusciamo a fare questa opera di astrazione riusciamo a vedere con gli occhi della mente, da una parte un piantatore o un raccoglitore di caffè e dall’altra me stesso che bevo una tazzina di caffè. Tutto quello che c’è in mezzo, di buono o di cattivo che sia, esiste comunque in quanto io bevo quella tazzina di caffè, perché nel momento in cui io non la bevessi più questo meccanismo si interromperebbe.
Quest’esempio, probabilmente alquanto sciocco, credo però che possa permettere una serie di approfondimenti e di stimoli per valutare il legame che esiste fra i nostri comportamenti – e quando dico “nostri”, a questo punto, non tiro più in ballo il Comune, la Provincia, la Regione, la Banca Mondiale, il Parlamento, il Governo, l’Unione Europea, ma intendo dire le persone, i cittadini del mondo – e i risultati, gli effetti, che questi comportamenti hanno in scenari lontani. Vedere quindi se esiste un rapporto e nel momento in cui esiste vedere in che misura è modificabile, in che misura è accettabile, come un’eredità di cui non si può fare a meno. Allora il postulato che si deve assumere è il seguente: se esiste un sistema che produce qualcosa, questo esiste in quanto c’è un mercato che lo richiede e che è disponibile ad utilizzarlo. Questo ci porta a chiederci se è vero, come finora si è sempre tramandato di padre in figlio nella nostra cultura, che i comportamenti di scelta in tema economico, tutte quelle microscelte quotidiane che noi facciano in quanto ineluttabilmente personalità anche economiche, sono inevitabili, neutri, fini a se stessi, oppure se sono valutabili attraverso una griglia di analisi che tiene conto anche dei loro effetti lontani e dello loro ricadute. Per parlare di questo io terrò come filo conduttore la campagna “Bilanci di Giustizia”, che forse molti di voi conoscono già, nel senso che credo che questa ipotesi, che è stata lanciata alcuni anni fa qui in Italia, sia una proposta possibile in mezzo a tante. Credo che sia quella che ha il valore di essere il miglior percorso logico, il miglior riassunto possibile di cosa può significare assumere la responsabilità di compiere un esame critico del proprio modello di vita e di consumo rispetto alle ricadute che questo modello di vita e di consumo ha in altre economie, su altri popoli e, alla fine dei conti, su altre persone.
Venti, trenta anni fa quando si teorizzava il consumismo si teorizzava anche la critica al consumismo secondo una semplificazione che sostanzialmente diceva: “noi consumiamo troppo, dobbiamo consumare meno, perché il consumismo è un disvalore che ci spersonalizza che ci mercifica, e così via.”
Questa è un’analisi che ha ancora dentro di sé un sacco di fascino e di verità, ma che non è più esaustiva: cioè il consumare meno e basta non è per forza di cose, un dato di salvezza, un dato di più consapevole cittadinanza mondiale. Perché io posso benissimo consumare la metà di quello che consumo oggi, ma farlo da cani, cioè consumare in maniera assolutamente sbagliata da tutta una serie di punti di vista, che invece è il caso di rivalutare proprio nel momento in cui non valutiamo il consumismo solo come un problema di modello di vita personale, ma lo valutiamo come un paradigma di comportamenti errati che hanno conseguenze pesanti su altre persone, su altre economie su altre situazioni.
I Bilanci di Giustizia sono nati tre o quattro anni fa da un’idea di Arena 5 dove si parlò di economia ed il titolo era “Quando l’economia uccide bisogna cambiare”. Fu una proposta che – al di là del fatto che aderire proprio alla campagna sia una cosa un po’ macchinosa – mi sembra suggestiva e che consiste nel riesaminare, con una chiave di lettura critica, il proprio modello di consumi, di comportamento economico anche se noi professionalmente non siamo né degli economisti né degli operatori dell’economia, ma siamo dei maestri, dei disoccupati, dei salumieri, ecc. e valutare le ricadute mediate e lontane di questo nostro modello di consumo alla luce di una serie di sensibilità, che possono partire anche dalla più egoistica che è “quanto questo mio modello di consumo e di vita per esempio mi danneggia personalmente a livello di salute” per poi allargarsi ad una serie di responsabilità collettive “quanto questo modello di consumo e di vita impatta negativamente sull’ambiente?” oppure allargandolo ancora attraverso la planimetria della mondialità o comunque dell’attenzione alle realtà lontane “quanto questa mio modello di consumo e di vita impatta negativamente sulle altre economie?”. E quindi il Bilancio di Giustizia dice: “O.K. voi guadagnate 100 lire, mediamente consumate 80, oppure siete più fortunati della media e guadagnate 200 e quindi consumate 160 o 170, oppure, fate parte del terzo dei 3/3 e quindi guadagnate 50 e consumate 49; non ha importanza il vostro livello di reddito e di consumo. Vi invitiamo comunque a riflettere sulle scelte di consumo”
Quando parlo di questa riflessione critica sulle scelte di consumo e sulle sue ricadute uso sempre l’hamburger come esempio uno e trino, geniale, magnifico delle possibilità di rivedere criticamente il proprio modello di consumo.
Allora l’hamburger visto da una delle tre possibili angolazioni è la metafora di un modello alimentare sbagliato che è il nostro occidentale, basata sulla carne e quant’altro. E quindi l’hamburger in sè contiene le contraddizioni di un sistema così geniale per cui, mentre da una parte si muore di fame, dall’altra si muore di colesterolo.
Quindi l’hamburger è simbolo di uno stile di consumo sbagliato nei confronti, anche solamente egoistici, della mia salute.
Voi sapete che l’hamburger, soprattutto il Mc Donald è diffuso in tutto il mondo al punto che il prezzo del “big mac” viene utilizzato ormai per sapere se una valuta è supervalutata o sottovalutata rispetto al dollaro. Il “big mac” sono le due fette di pane con hamburger, insalata e pomodoro in mezzo ed ha un prezzo diverso in ogni nazione. E’ diffuso in quasi tutte le nazioni del mondo e quindi a seconda del rapporto fra prezzo del “big mac” in dollari USA e il prezzo in valuta locale, si considera nel trend 6/9 mesi, se quella valuta si sta apprezzando o si sta sottovalutando rispetto al dollaro: questo sistema lo usano gli analisti finanziari di Wall Street.
L’hamburger, peraltro, è anche il risultato di una impostazione produttiva in cui la maggior parte delle carni usate, soprattutto dalle grandi catene Burgy e Mc Donald, viene da allevamenti intensivi in America Latina, per ottenere i quali sono stati allontanati i contadini delle terre, sono state disboscate quote di foresta, è stata eliminata l’agricoltura di sostentamento a favore di questi allevamenti estensivi. Quindi l’hamburger non è solo il mio modello alimentare sbagliato, che mi toglierà cinque anni di vita a causa del colesterolo, ma è anche la metafora di una aggressione produttivistica di sostentamento che in molti paesi del Sud ha provocato una serie di guasti, come l’urbanizzazione selvaggia, la creazione delle grandi megalopoli con le favelas, lo spossessamento delle terre, l’impoverimento dei contadini, l’abbandono delle colture tradizionali e così via, e quindi, di seguito, anche lo sradicamento delle culture native. Contemporaneamente, sempre lo stesso hamburger, sempre in virtù di questi allevamenti estensivi, ha impattato pesantemente l’ambiente per l’appunto abbattendo forestazioni e quant’altro e con i suoi enormi giacimenti di deiezioni animali produce anidride carbonica che aumenta l’effetto serra e quindi l’hamburger è anche metafora dell’aggressione all’ambiente portata avanti da questi processi produttivi assolutamente dissennati. Allora nel momento in cui io mi interrogo sull’hamburger, su cosa significhi per me mangiare tre hamburger alla settimana, significa partecipare coscientemente, e approvare quindi, un sistema che minaccia le mie arterie, minaccia l’economia nativa e minaccia l’ambiente. E allora posso dire che forse, se anziché l’hamburger, a parità di spesa, mangio dell’altro, esco da questo circuito, mi sottraggo a questa forma di complicità, di approvazione, di convivenza con questo sistema a favore di possibilità alternative, che potranno essere: al posto del primo una bella insalata di verdura raccolta nell’orto, al posto del secondo un pecorino di Pienza, come quello che mi è stato offerto oggi a pranzo e al posto del terzo qualcos’altro, e quindi il risultato finale è che io ho mangiato diversamente, ma che comunque sono uscito da un circuito che rappresenta un modello di economia che impatta tutto quello che dicevo prima.
E come l’hamburger, di scelte, da questo punto di vista, la nostra esistenza quotidiana, la nostra economia quotidiana, ne conosce una serie. Potrei fare tutta una serie di esempi rivolti all’ambiente, che sembrano apparentemente collaterali rispetto al ragionamento di oggi che parla soprattutto di Sud, ma che lo sono fin lì, perché se voi pensate ad esempio a ciò che sta succedendo a tutto il Sud, a causa dell’eccesso e dell’incapacità di smaltimento dei rifiuti europei (ad esempio) voi capite che ragionare più seriamente, più consapevolmente sulla gestione dei rifiuti italiani non è assolutamente una cosa estranea al problema dei rapporti Nord-Sud, perché se l’Europa – e l’Italia fa parte dell’Europa – non riuscirà a risolvere nei prossimi anni il suo problema di sovrapproduzione e di incapacità di smaltimento decente dei propri rifiuti, l’Africa diventerà una discarica, come è già cominciata a diventare, perché esporteremo oltre alla Coca Cola, anche rifiuti che faranno gola a tutti perché, in questo caso, pagheremo molto bene, ma che però avranno un impatto sulle economie e sull’ambiente del Sud assolutamente devastante.
Parlare del nostro modello di consumo e di vita rispetto ai problemi ambientali non è un discorso svincolato dal Sud. Oggi come oggi al Sud si muore principalmente di fame, si muore di malattia, si muore di guerra o quant’altro, ma rebus ne santibus se continua questo modello di rapporto malato con l’ambiente si comincerà a morire di inquinamento anche al Sud, cosa che magari accade nelle grandi metro megalopoli, nelle grandi concentrazioni urbane. Voi capite che se cominciamo a riempire le discariche di scorie radioattive, di rifiuti tossici, inquinanti e nocivi, ben presto questo tipo di problema salirà sul palcoscenico anche delle regioni del Sud. Ragionare sul proprio modello di consumo potrebbe sembrare, in prima istanza, un ragionamento quasi intimistico, quasi che si tratti della ricerca esasperata e faticosa di un percorso di salvezza personale, attraverso il quale, pur senza fare scelte maniacali o comunque di estraneazione dalla realtà, ognuno di noi trova la sua nicchia di santità.
Allora, tutto sommato, voi direte tu cosa mi stai chiedendo? Mi stai chiedendo di ragionare su quello che compro, che consumo, che mangio, su come mi sposto e così via. Dopodiché, con un po’ di fatica, organizzi una serie di alternative e anziché l’hamburger mangi la lattuga, anziché in macchina vai in giro in bicicletta (se non abiti in una città fatta di salite) e anziché comprare i jeans di Armani compri i jeans del commercio equo e solidale.
Ma tutto sommato che rapporto di causa effetto reale c’è fra la mia scelta di consumo e i meccanismi che prima citavo?
Allora, se noi ci fermassimo a questa prima stazione, penso che questo tipo di critica sarebbe giusta. Cioè io posso ritagliare il mio modellino di vita, ritengo di essere a posto con la mia coscienza perché non compio più nessun consumo irresponsabile, e poi alla fine, però, non risolvo più di tanto.
Allora io credo che occorra anche qui fare uno sforzo di riflessione in più e pensare cosa significa compiutamente e complessivamente compiere una scelta di consumo alternativo, una scelta di consumo critico, una scelta di risparmio critico.
E quindi significa ricominciare a ragionare – scusate se faccio un salto di tempo e di spazio – sui rapporti fra ognuno di noi ed il potere e sul vantaggio e sullo svantaggio di essere persone che vivono da cinquant’anni in un sistema democratico.
Io sono nato poco dopo la fine della guerra, nel ‘50 e quindi, insieme al latte materno, ho introiettato la convinzione, la consapevolezza di essere nato, di crescere e di vivere in un regime democartico.
E un regime democratico è quello in cui ci sono libere elezioni, in cui ci si organizza in partiti, in cui c’è libertà di pensiero, di opinione, di religione, in cui si possono scrivere sui giornali le proprie opinioni, purché all’interno di certe regole, in cui nessuno mi impone il Sindaco ma lo eleggo io, nessuno mi impone il Parlamento me lo eleggo io, nessuno mi vieta di candidarmi (tant’è vero che faccio anche il consigliere comunale).
Ecco, io credo che probabilmente in questi anni io sono sempre stato convinto di vivere in democrazia, perché nessuno mi ha mai ricordato altro, o perché io stesso mi ci sono racchiuso, alla fine mi trovo ad avere della democrazia questo concetto un po’ asfittico, cioè che la democrazia sia semplicemente la possibilità di eleggere e di essere eletti, di esprimere le proprie opinioni, di fondare dei gruppi, dei partiti, delle associazioni e che, quindi, il problema dei rapporti di potere fra una persona qualsiasi e i sistemi di potere ed il problema di considerarsi all’interno di un sistema democratico si limiti unicamente ai meccanismi di rappresentatività.
In realtà, credo, che democrazia nel suo complesso sia qualcosa di molto più vasto e anche qualcosa, per certi versi, di inevitabile. L’aspetto più triste di ogni meccanismo democratico è quando la democrazia cala, non perché qualcuno ce la tolga, ma quando siamo noi che vi rinunciamo; perché se qualcuno mi toglie un pezzo di democrazia io sono capace di arrabbiarmi e di battermi perché mi sia restituita, ma nel momento in cui vi rinuncio io, nessuno me la potrà mai restituire se non sarò io stesso a riappropriarmene.
Allora quando ragioniamo di rivedere per esempio, i modelli di consumo possiamo fare un salto in più e vederla non solamente come una scelta molto personale se domani sera a cena mangio l’hamburger o mangio la verdura, ma vedere se all’interno di questa mia scelta, di questa mia fatica di produrre delle scelte, non c’è anche, riconoscibile, un momento in cui io mi riapproprio di una forma fondamentalmente democratica che avevo lasciato seccare, che avevo lasciato intristire come una pianta non annaffiata. Perché, in realtà, l’unica cosa che in effetti il libero mercato dice giustamente di se’, è che è un libero mercato: e un libero mercato significa che è un mercato che mi propone tante possibilità all’interno delle quali io scelgo e se mi perdonate il paragone irriverente – quando io scelgo sul bancone del supermercato non compio un’operazione molto diversa di quando io vado a votare per il Sindaco o per il Parlamento – perché in realtà il meccanismo è lo stesso: democrazia e pluralità di scelte. Tanto è vero che se noi avessimo un partito unico voteremmo ugualmente, ma non saremmo in democrazia, come insegnano le esperienze albanesi, bulgare e così via. Allora democrazia significa pluralità di scelte. Il libero mercato, lo scaffale del supermercato è uno strumento di grande democrazia perché mi fa scegliere.
Certo se io scelgo a occhi chiusi ho abdicato a questa forma di possibile democrazia esattamente come se, quando vado a votare per il Parlamento o per il Sindaco, votassi sulla scheda ad occhi chiusi: uno vale l’altro e allora simbolo rosso, simbolo verde, simbolo blu, simbolo bianco è lo stesso.
Chiunque mi direbbe: “Cretino, si va votare a ‘sto modo?”
Beh, se io vado al supermercato e mi trovo davanti una serie di prodotti e dico “Bah, uno vale l’altro” ho operato con la stessa cecità e con la stessa abdicazione di democrazia che se nella cabina elettorale votassi a caso.
Vi faccio anche qui un esempio fulminante nella sua brevità: oggi ancora esistono scaffali di supermercato così, però già ci siamo vicini; se in uno scaffale di supermercato, nel quale mi sono precipitato in preda ad una delle mie ricorrenti crisi affettive da cui, so benissimo, si può uscire solamente attraverso un robusto consumo di cioccolato e quindi corro lì a consolarmi e mi trovo davanti a tre cioccolate, tutte e tre nella carta dorata, ed una di queste è una cioccolata Ferrero, un’altra è una cioccolata Nestlè e la terza è una cioccolata Mascao e dico, per l’appunto, “cioccolate sono e cioccolate restano, in questo momento me ne devo mangiare un etto, non perché sia un estimatore di cioccolata, ma solamente perché devo curare la mia carenza affettiva, cosa posso fare? Mah, prendo quella che ha la confezione più bella, oppure prendo quella che costa cento lire in meno, tanto cioccolato è cioccolato resta”.
E io, appunto, lì ho votato alla cieca perché in realtà se compro la cioccolata Ferrero voto evidentemente la Ferrero, boccio le altre. Qui è senza appello la cosa: un sistema tradizionale in cui il cacao viene seminato da ignoti piantatori, viene acquistato ad un prezzo da strozzini da altrettanto ignoti acquirenti e poi viene passato, attraverso i soliti meccanismi, ad una azienda italiana che con la tecnologia usuale lo trasforma e me lo vende.
Se acquisto cioccolata Nestlé voto, accetto, sancisco, ratifico un sistema un po’ diverso dove tecnologicamente avvengono le stesse cose, culturalmente questo è un sistema di mercato in cui è accettabile che bambini centrafricani muoiono, vadano incontro a tutta una serie di problemi sanitari perché io, per vendere di più incoraggio slealmente l’utilizzo del latte in polvere in paesi ad alta epidemiologia. E quindi, acquistando Nestlé e bocciando gli altri due, io ho votato un sistema un filino più assassino di quello di prima.
Se poi acquisto, il cioccolato Mascao e quindi boccio gli altri due, voto un altro sindaco-cioccolato: il cioccolato del commercio equo-solidale, cioè di un sistema di commercio alternativo che intende, invece, portare qua lo stesso cacao, però, ad un prezzo, e soprattutto dà una modalità di rapporto con il produttore molto diverso e fortemente antagonista al mercato classico.
Allora, la mia carenza affettiva è sempre quella, il cioccolato che mastico ha sempre più o meno lo stesso sapore, lo stesso contenuto di burro di cacao, la spesa che sopporto è più o meno la stessa …
In realtà, a seconda della scelta che ho fatto, ho votato uno fra tre sistemi profondamente diversi fra di loro e quindi, da questo punto di vista, la mia scelta di consumo in questo caso, il mio sforzo di sapere cosa c’è dietro a questi tre cioccolati apparentemente uguali e il mio sforzo di sceglierne uno bocciando, eliminando altri due, da un lato è un’operazione di consapevolezza, dall’altro è un’operazione di riservizio, di rivitalizzazione di un meccanismo di scelta democratica, dal terzo è un voto, appunto, e come voto è destinato ad influenzare quello scaffale.
Un anno fa dei ragazzi di Fano, parlando di questioni più legate all’ambiente, mi dicevano: “Dalle nostre parti non si trova più l’acqua minerale in vetro: si trova solo in plastica”.
Per forza, si vede che per un anno o due voi “elettori” di Fano avete votato l’acqua in plastica e avete bocciato l’acqua in vetro: dopo tre mesi che il negoziante si trova gli scaffali pieni dell’acqua in vetro e vuoti quelli dell’acqua in plastica, è chiaro che quella in vetro non la espone neanche più e quindi non la prende più.
Quindi non è la cattiveria del negoziante o la pervicacia del produttore dell’acqua minerale o il malaffare del grossista di bibite quello che fa sì che dopo due anni non troviate più acqua in vetro, ma è semplicemente il voto democraticamente, ancorché inconsapevolmente, espresso da tutti i consumatori di Fano che ha fatto sì che l’acqua in vetro fosse inesorabilmente bocciata, e quindi scacciata dal mercato, e che invece l’acqua in plastica venisse eletta a furor di popolo e quindi unica e incontrastata protagonista degli scaffali.
Allora nel memento in cui io fra tre cioccolate ne scelgo una, esprimo un voto e questo voto segue la sorte di qualunque altro voto: non è né più pesante né più leggero di quando voto per il parlamentare o per il sindaco.
Mi potreste chiedere: “Ma tu cosa conti rispetto al fatturato della Nestlé?” Conto tanto quanto rispetto al quorum del mio candidato progressista del collegio di Parma città 1 su 50.000, 1 su 150.000.
Allora per questo non vado a votare?
A Parma il Sindaco siamo in 120.000 ad eleggerlo. Cosa fa il mio voto? E’ un centoventimillesimo. E allora non vado a votare? No, certamente ci vado.
E allora cosa fa il mio acquisto per la Nestlé? Fa tanto come per il deputato: è uno fra «n» migliaia, però io voto per il Sindaco, voto per il Parlamento, perché non devo votare per il cioccolato giusto contro quello iniquo?
Di cioccolato in cioccolato andiamo al caffè, andiamo a tutta una serie di consumi nei quali il mercato, proprio perché libero, non può evitare di essere democratico.
E proprio perché libero e democratico, il mercato non darà mai nulla che io non voglia e non mi negherà mai nulla di ciò che voglio e che chiedo e che accetto.
Allora in questa logica, il senso della fatica di acquisire le informazioni necessarie per crearsi uno schema di consumo critico e quel po’ di fatica anche fisica, che consiste nel cercare, nel trovare le alternative di consumo a quegli aspetti del mio modello di consumo che ritengo non più accettabili, non è solamente una scelta di percorso personale, individualistico, intimista, di estraniazione dalla realtà, ma diventa invece un’operazione politica all’interno di un sistema di mercato.
Dopodiché, rispetto a queste operazioni di voto e a queste operazioni politiche, come del resto succede anche per gli esempi tipicamente politici e amministrativi che facevo, io posso fare due scelte: posso limitarmi a votare, così come quando voto il sindaco mi limito a votare, oppure non mi limito solo a votare ma posso cominciare a fare propaganda. Non è detto che debba essere iscritto ad un partito, però ho un candidato che stimo e quindi cerco di convincere altre persone, i miei amici, i miei parenti, i miei colleghi a votare per quel candidato. Oppure, al contrario, ho delle informazioni veramente pesanti su un altro candidato e allora metto in guardia contro di lui le persone che conosco.
E altrettanto possiamo fare noi quando votiamo al supermercato: non ci limitiamo a votare attraverso il nostro voto personale, ma cominciamo a ragionarci, a parlarne con altri, a diffondere questa cultura di consapevolezza all’interno del nostro modello di consumi.
In questo modo, allora, magari la prima settimana manca una tavoletta di Nestlé all’appello, la mia; forse dopo due settimane mancano all’appello tre tavolette di Nestlé, la mia, la tua e la sua; forse dopo cinque mancano undici tavolette di Nestlé all’appello.
Forse quando mancano un milione di tavolette di Nestlé, la Nestlé comincia a dire: “Cavolo, perché? Come mai?”
Forse quest’anno mancheranno due paia di scarpette Nike, quelle dei miei due figli, magari l’anno prossimo mancheranno dieci paia di scarpette Nike o venti paia, forse l’anno prossimo arriveranno alla Nike cinquecento lettere in cui si chiede: “Perché voi fate cucire i palloni e le scarpette dai bambini del Pakistan?”
E la Nike risponde, sapete?
A tutti quelli che scrivono la Nike risponde. Il che significa che quando noi votiamo in questo modo nessuno ci deride, nessuno dice: “Ma che me ne frega se tu non compri le scarpette”. No. Una classe di Cluso di Bergamo ha scritto alla Nike ponendo varie domande e la Nike ha risposto non solo ai bambini, ma anche all’insegnante e al preside.
Allora, la scelta di consumi, la revisione del proprio modello di consumo diventa per certi anche la possibilità di una forma di militanza, di una forma di ragionamento sociale collettivo che in alcuni casi – come sta succedendo in Italia rispetto all’esempio che ho fatto Nestlé, Nike, Reebok, Adidas e così via – assume anche le forme della campagna militante, della campagna di pressione, della campagna di boicottaggio dove quelle che prima erano tante piccole scelte individuali di scarto di un prodotto per questioni etiche, disapprovazione della logica, della metodologia, dei comportamenti delle aziende che facevano questo prodotto, è diventato patrimonio di una riflessione collettiva, attraverso appunto le campagne di educazione al consumo critico, le campagne di boicottaggio, le campagne di pressione alle quali il sistema della produzione, il sistema delle aziende dimostra di essere estremamente sensibile, proprio perché nulla è peggio di una pubblicità negativa e perché nessuno si ostina ad essere presente sul mercato con un prodotto che le persone non vogliono e nessuno accetta di essere sul mercato con un’immagine negativa di sé che le persone possono vedere di malocchio.
Chiudo, chiedendovi uno sforzo per fare un ulteriore salto di qualità rispetto a questo ragionamento di revisione di un nostro modello di consumo e di vita alla luce di tutte le ricadute che questo modello può avere sull’economia del Sud o comunque sull’economia di realtà diverse da noi.
Il primo livello è quello della scelta propria, che ha comunque un suo significato anche se visto di per se’ resta all’interno di un percorso testimoniale individuale; vi ho invitato ad esaminarlo invece come possibilità di maggiore rango sociale e culturale nel momento in cui noi vediamo questa revisione di scelte come un’operazione di riappropriazione di una capacità, di un diritto di scelta, e quindi di un voto, in un sistema che presenta delle alternative, come questo può diventare parte di un fenomeno collettivo, globale e quindi sociale, e come, nel momento in cui diventa un fenomeno collettivo, è un fenomeno che mettendo insieme tutta una serie di debolezze, le fa diventare una forza ed ha interlocuzione, ha ascolto e quindi è in grado di modificare comportamenti.
Tutto questo io credo che sia alla base per porsi un traguardo ulteriore in cui io credo e che, volendomi riallacciare all’inizio di quello che vi ho detto oggi, sia anche l’unica via di uscita probabilmente, non certo vicina, comunque sia l’unica di via di uscita reale da un sistema che sembra ormai chiuso in un cerchio della morte.
E per far questo mi riallaccio ad alcune battute iniziali in cui dicevo che, comunque, questo sistema di rapporti Nord-Sud, che al di là del fatto di rappresentare una forma di sfruttamento e di iniquità è comunque il sintomo ormai inconciliabile, irreversibile di un’economia mondiale malata, patologizzata che si avvia al futuro con una serie di problemi verso i quali non scorge molte soluzioni, prefiguro uno scenario in cui quel sistema di imprese – io non ce l’ho con una singola, ma con un sistema di imprese che, una volta si chiamavano multinazionali, oggi si definiscono esse stesse imprese globali – si qualifica rispetto al passato, non tanto e non solo, per la potenza finanziaria che ha alle spalle, per il fatturato che rappresenta, per il numero di persone che occupa e quindi per i rapporti di potere brutale che può instaurare con i Governi, con i sistemi sociali e altro, ma si qualifica perché queste imprese si stanno sempre più sradicando dai loro territori d’origine.
E quindi si sta configurando questa impresa globale come un qualcosa di sostanzialmente extraterritoriale: mentre, era comunque un’impresa che rappresentava interessi e reinvestimenti di un paese, oggi queste cosiddette imprese globali si stanno extraterritorializzando e redigono, con sempre maggior entusiasmo, i loro legami di fedeltà, di rapporto, rispetto alle singole economie nazionali.
In questa prospettiva coloro che apparentemente hanno il potere – i Governi – coloro che hanno l’amministrazione della cosa pubblica, coloro che hanno il monopolio della violenza autorizzata, coloro che hanno il potere così come lo abbiamo sempre concepito, in realtà stanno rischiando di avvitarsi su se stessi, di arrivare sempre di più a governare il nulla, soprattutto dal punto di vista economico, proprio perché queste imprese globali sono sempre più estranee, tangenti rispetto ai classici sistemi di potere nazionale.
Allora, in questa logica, ritenere che sia possibile modificare il sistema dell’economia mondiale, e quindi tutte le sue iniquità, tutte le sue disparità all’interno, attraverso un’azione puramente politica, chiedendo che vengano rivisti i trattati internazionali, che cadano i protezionismi, che si mettano dei freni o dei controlli all’operato delle aziende multinazionali, chiedendo insomma che i Governi intervengano per risanare un sistema economico che si basa su meccanismi malati, sta diventando patetico perché è la richiesta a qualcuno di esercitare un potere che non possiede più.
Qui abbiamo di fronte due strade: o ritenere che nei fatti l’economia del libero mercato sta avviandosi verso la sua apoteosi finale, generando veramente il super uomo, in questo caso la super-impresa, superiore rispetto ai normali poteri che vengono distribuiti attraverso i meccanismi democratici; oppure dobbiamo ritenere che esista uno strumento attraverso il quale viene frenata la nascita ributtante di questa super-impresa e che quindi venga ricondotta ad un possibile controllo che, però, tecnicamente non potrà più essere il controllo dei Governi, il controllo degli Stati. Allora quale può essere l’unica soluzione a questo scenario?
L’unica soluzione è ricordare ancora una volta che l’impresa non è un robot venuto da Marte, l’impresa non è un’astrazione concretizzatasi attraverso l’atto demiurgico di qualcuno, l’impresa è comunque una struttura fatta di uomini, di persone che non sono ancora il clone dell’impresa modello. Come diceva una vecchissima poesia di Neruda “il vostro carro mio generale è potente ma ha bisogno di un pilota”. L’uomo ha il vizio di pensare e allora anche l’impresa globale, sofisticata, internazionale, telematica finché volete, è comunque fatta di uomini e gli uomini sono comunque all’interno delle loro società.
Quindi l’impresa può definirsi extraterritoriale rispetto ai poteri, ai Governi, alle amministrazioni, ma non può mai riuscire a definirsi extraterritoriale rispetto alle società.
E allora chiedo che l’unico percorso reale sia che le società rinegozino il patto fondamentale che finora ha regolato i rapporti tra società ed il suo sottosistema economico.
Dall’industrialismo ad oggi il patto fondamentale che legava una società al suo sottosistema economico, qual’era?
“Vai, produci, guadagna e fai ricadere sulla collettività il più possibile dei benefici della tua azione. In cambio di questo chiuderemo molti occhi”.
Già negli anni 70 alcuni di questi occhi si sono riaperti e questo patto sociale è stato modificato nel momento in cui ad esempio l’Europa ha cominciato a dire alle proprie aziende “tu non puoi continuare ad inquinare come hai inquinato finora, perché qualcosa non funziona più”. Allora il nuovo patto sociale è “vai, produci, guadagna, fai ricadere i tuoi profitti e reinvesti su di me, però non inquinare più, perché la stessa aria che infesti, la stessa acqua che rovini io me la respiro e me la bevo”.
Quindi la nostra cultura conosce già un meccanismo di revisione di questo patto fondamentale e sociale fra se stessa e il proprio sottosistema economico.
Per il futuro, se vogliamo un mondo che sopravviva occorre che questo patto sociale sia rinnovato in termini molto più profondi, non solamente in alcuni comma che riguardano l’impatto ambientale piuttosto che la salvaguardia dei livelli di occupazione, ma complessivamente. E’ un’operazione non certo a breve termine, che potrà maturare solo nel tempo, ma è un’operazione che non sarà possibile fino a quando ( molti più di quanti sono fino ad oggi) tutti coloro che comunque di un sistema fanno parte come operatori, come consumatori, come utenti, come risparmiatori, non acquisiscano proprio un modello di consumo critico, che li porti a riappropriarsi del loro poter negoziale collettivo nei confronti del sistema delle imprese e che non riconducano quindi questo sistema delle imprese ad una serie di comportamenti più responsabili e più coerenti con gli obiettivi di lungo periodo e soprattutto con gli obiettivi di uno sviluppo globale che, torno a dire, deve comprendere, deve salvare, all’interno del suo percorso, tutto l’uomo e tutti gli uomini e non solo la parte più mercantile o la parte più evoluta delle nostre società avanzate.
DOMANDE
1) Mi ha colpito il paragone che è stato fatto tra l’elezione di un candidato e la scelta libera, democratica di un prodotto.
L’unica cosa che mi stride un po’ in questo paragone è questo: mentre il candidato che io scelgo è un candidato che potenzialmente ha le stesse potenzialità di un altro candidato, perché si presenta all’elettorato con strumenti talvolta differenziati, ma sostanzialmente abbastanza equilibrati, il candidato “prodotto” spesso e volentieri non ha gli stessi strumenti di altri prodotti, per cui, siccome è stato portato il paragone della Nestlé, della Ferrero e del Mascao, penso che le capacità di propaganda che hanno i primi due prodotti rispetto al terzo siano decisamente superiori.
Questo è il primo aspetto.
Il secondo aspetto secondo me è che il tipo di lotta che deve essere fatta deve essere anche una lotta contro una mentalità e la mentalità che viene portata avanti dai primi due prodotti è una mentalità di consumo diffuso, sfrenato, quindi una politica sfrenata del consumo.
Arrivo alla mia considerazione finale che è questa: bisognerebbe vedere, secondo me, oltre un problema di coscientizzazione che evidentemente è importante perché noi stiamo parlando non solo per conoscere i problemi ma anche per interiorizzarli e per coscientizzarsi sempre di più, ma per trovare anche dei sistemi per portare all’attenzione della maggior parte della gente questi problemi, perché sicuramente nell’opinione pubblica, il fatto di dire che si coltivano banane e dove si coltivano, che si coltiva il cacao e dove si coltiva è un qualcosa che eleva il tenore di vita delle popolazioni del terzo mondo perché più si produce e più ricchezza circola nel paese.
Ecco è un po’ anche questa mentalità.
2) E’ stato fatto, ad un certo punto, un paragone tra noi che beviamo il caffè, ed il produttore del caffè.
Dal momento in cui io non bevo più il caffè, come educare il produttore di caffè a produrre altro o comunque a gestire la sua produzione in maniera diversa?
RISPOSTA
Andrò in ordine perché sono tre argomenti che si inanellano bene così come sono stati presentati. Non c’è par condicio fra i “candidati-prodotti” però anche qui esiste comunque una possibilità forte di entrare in questi meccanismi al di là di quello che può apparire.
Tanto per mettere subito un puntello io credo che in questi ultimi cinque anni il fatturato del Mascao sia aumentato in percentuale molto più del Ferrero e del Nestlé.
Questo perché? Perché il Mascao è partito da zero: quando è cominciato il commercio equo e solidale all’inizio c’erano dieci botteghe, poi sono diventate trenta, poi sono diventate cento. Ovvero il Mascao non ha mai potuto andare a fare pubblicità sull’Espresso, come fa la Nestlè o la Ferrero, ma ha potuto comunque contare su una struttura, su un meccanismo di diffusione, di conoscenza, di promozione di se’ che ha funzionato, perché il fatturato del commercio equo solidale in Italia sta continuando a crescere, come in Europa perché anche i dati dell’ EFTA lo dimostrano.
A Parma c’è un’azienda che si chiama Battistero che fa panettoni ed è la terza, credo, o la quarta, per fatturato fra tutte quelle che fanno panettoni. Però la Battistero voi non l’avrete mai vista nella pubblicità. La Battistero ha scelto una politica di marketing diversa in cui non spende una lira in pubblicità, però è la terza per fatturato.
Questo per dire che è vero che per certi versi la democrazia dello scaffale non è una democrazia compiuta, perché alcuni dei prodotti dello scaffale godono di un sistema di promozione, che la pubblicità, ad esempio, o quant’altro, che fanno da forte cassa di risonanza di se’ però è anche vero che quelli non sono gli unici sistemi attraverso i quali un prodotto si promuove. Come va sfatato il concetto che le mode o la fortuna dei prodotti vengono unicamente dalla possibilità di essere presenti ossessivamente sui media o sulla pubblicità.
E qui torna il discorso che facevo prima: quando io posso essere un elettore attivo nel momento in cui faccio una scelta e la faccio consapevole, posso essere un elettore iperattivo nel momento in cui, oltre che fare una scelta, propagando questa scelta e faccio di me un tamburo ripetto a questo …
Un grande analista, un guru del marketing, alcuni anni fa aveva pubblicato un libro che si chiamava “Uscita, lealtà e voce”: era l’analisi dei mutamenti dei comportamenti del consumatore negli ultimi anni, un’analisi molto nordamericana che però ultimamente è applicabile all’Europa e diceva: “Fino a poco tempo fa un’azienda aveva di fronte un mercato, una clientela che rispondeva in due modi: o mantendosi fedele come cliente, perché era contento del prodotto, oppure uscendo dalla clientela, perché ne era scontento e diventava cliente di qualcun altro.
In questi ultimi anni si è sviluppata una terza modalità: cioè vi sono i clienti leali, vi sono clienti che si limitano ad uscire, ma ci sono i clienti che usano la voce, che nel momento in cui escono, strillano cioè dicono perché”.
Questo è stato molto legato, ad esempio, nel Nordamerica al movimento dei consumatori e consumieristi. Per cui uno non si limita più a non comprare l’orzo Orzoro, ma dice “Non compro più l’orzo Orzoro perché è del gruppo Nestlé e nel gruppo Nestlé ci sono quei cagnacci che fanno tutte quelle porcate in Africa”. E questo lo dice al cugino, allo zio, al cognato, lo scrive nel giornale locale ecc.
E questa è la modalità attraverso la quale si genera quel circuito vizioso che le aziende temono come la “peste nera”, cioè il riverbero, il rimbombo dello scontento di un solo cliente.
Allora un buon cliente ne porta altri dieci, un cliente scontento ne porta via altri nove. Questo significa che anche senza la padronanza dei grandi strumenti di comunicazione, solamente il minimo coinvolgimento di un consumatore critico nell’essere (negli ambiti in cui può: educativi, sociali, amicali e quant’altro) mezzo di trasmissione di queste scelte, di questo nuovo approccio allo stile di consumo e quindi anche alle possibilità alternative rispetto al consumo, può diventare una forma di diffusione molto forte.
Nel mio piccolo io svolgo questo tipo di attività per cui vado in giro e parlo. Oltre a questo scrivo su Alfazeta e questa è un’altra modalità specifica, però a parte queste cose sono un cittadino come gli altri e da cittadino come gli altri un giorno ho dato a mio figlio l’opuscoletto sui misfatti della Nestlé e lui con il fascicoletto se n’è andato a scuola, l’ha fatto vedere alla maestra e la maestra interessatissima me ne ha chieste dieci copie. E questo l’ho fatto non come Alfazeta o come uno che va in giro, ma come padre di un bambino che va a scuola e che nel suo ambito ha cercato un canale, e l’ha trovato, dove ha destato interesse. Quindi è vero che il sistema non è un sistema in cui tutte le possibilità, le alternative, i prodotti hanno la stessa possibilità di farsi conoscere automaticamente, ma è un sistema nel quale, comunque, gli strumenti per diffondere queste cose sono tanti.
Certo, richiedono la nostra applicazione, la nostra mobilitazione, la nostra militanza, se mi fate passare il termine un po’ vecchio …
Ecco, per quello che riguarda gli altri due problemi si può cominciare col dire che i cordoli del problema sono due (e questa è una delle lame più affilate su cui si muove la sfida ad uno sviluppo reale o meno). Da un lato abbiamo questa consapevolezza: che, ad esempio, a volte questi “più” sono degli autogoal a medio termine: le colture intensive rispetto alle colture di sussistenza, certi tipi di produzione rispetto ad altri, il fatto che un paese diventi mono-prodotto e che quindi resti appeso alle fortune di quel prodotto che se per qualche anno non interessa più il mercato si deprime tutto il paese. Ma non solo, pensiamo al caso della Nike, dell’Adidas e così via, pensiamo a quei meccanismi di sfruttamento, direi di più, proprio di schiavitù reale che in molti paesi emergenti e soprattutto nel sud-est asiatico stanno alle spalle della loro capacità concorrenziale: allora i tappeti cuciti dai bambini, i palloni cuciti dai bambini, i giocattolini fatti nelle fabbriche dove donne e bambini lavorano 18 ore in condizioni di assoluta insicurezza, la fabbrica che brucia e arde entro di se’ trecento donne e bambini in Thailandia, assoluta carenza di qualunque garanzia di tutela del lavoro delle fasce minorili, del lavoro femminile e quant’altro.
E quindi questo dilemma è forte: ad esempio non è infrequente trovare nella pubblicistica, nei giornali di quei paesi, delle reazioni anche molto infastidite alle lotte europee per la tutela dei diritti.
Ho letto l’articolo di un giornalista pakistano che accusava scopertamente l’Europa dicendo che le campagne contro l’utilizzo dei bambini nell’industria in realtà erano campagne protezionistiche. Per cui diceva: “l’Europa si fa scudo dei diritti umani per impedire ai nostri prodotti di far loro concorrenza”.
Anche in questi paesi la valutazione di questi problemi è molto ambigua. Se poi noi inseriamo questo in quelli che oggi sono i cosiddetti processi di globalizzazione (che poi è la scoperta dell’acqua calda perché la globalizzazione c’è da cent’anni solo che adesso è più veloce) scopriamo che c’è un rapporto stretto anche con quello che accade qui da noi.
Ad esempio, un aspetto tipico dell’accelerazione dei processi di globalizzazione che ci coinvolge da vicino è che molte produzioni si spostano da casa nostra a casa altrui e quindi intere linee produttive vengono chiuse in Italia e vengono aperte in altri paesi.
La Lotto a Treviso non fa neanche più una scarpetta, anche se mantiene il marchio e cose del genere.
Allora cosa succede? Succede che in virtù degli obiettivi di profitto un’azienda che è piazzata da qualche parte, questa economia di partenza, ci impoverisca perché perdiamo trecento posti di lavoro.
Nelle economie di arrivo c’è un apparente arricchimento, perché si creano posti di lavoro, però a prezzo di una serie di sacrifici di altro genere a cominciare dai diritti elementari dei lavoratori e così via.
D’altro canto se noi diciamo: “No, questo non è giusto” sembra veramente che stiamo difendendo i nostri posti di lavoro qui a danno di quelli là che allora, a questo punto, non si svilupperanno mai.
Allora qual è il punto di incrocio dialettico fra questi due aspetti di un problema che sembrano insanabili? Il punto credo che ci debba far riscoprire ancora una volta il vecchio Gandhi con la sua intuizione sul fatto che fra i mezzi e i fini c’è lo stesso rapporto che c’è fra l’albero e i frutti, non si può sperare che da mezzi iniqui escano fini nobili, come non si può sperare che da un albero ignobile escano dei frutti preziosi.
Allora, la logica in base alla quale io creo un’economia globale nella quale impoverisco un settore di partenza, perché tolgo dei posti di lavoro e non ne creo di nuovi o altro, e ne sviluppo un altro a prezzo però di una forte compressioni di diritti, può anche essere vero che da qui a trent’anni avrà riequilibrato in termini più equi queste due economie oggi sbilanciate, però l’ha fatto a prezzo di una serie di microviolenze forti, perché ha prodotto violenza sia nell’economia di origine, dove ho brutalmente tolto delle possibilità di lavoro, di sviluppo alle persone e ho portato un falso sviluppo, uno sviluppo ammalato in un’altra economia nella quale ho creato della ricchezza, ma attraverso lo sfruttamento di altre persone.
Credo che un sistema che lavora attraverso, una catena infinita di microviolenze, difficilmente alla fine porterà ad un risultato positivo più di tanto, sarà magari tecnicamente positivo ma, se ci pensate, a prezzo di una compressione dei diritti e della democrazia in entrambi gli scenari, perché di qua avrò sempre di più il ricatto occupazionale e dall’altra parte avrò sempre più la forza e il ricatto di chi, portando qualcosa, è in grado di imporre.
Occorre probabilmente avere il coraggio di concepire dei percorsi, magari anche più lunghi, ma che invece partano da una serie di microsviluppi e non di microviolenze.
Su questo mi è sembrato illuminante un’intuizione, che in Europa ancora non è approdata, che è quella dei sindacati e delle unioni dei consumatori negli Stati Uniti: anche lì alcuni di questi fenomeni di globalizzazione si sono mostrati, nella loro velocità, nella loro forza con un po’ di anticipo e allora, prima ancora che in Europa, è cominciata la tendenza per cui molte aziende esternalizzavano la loro produzione soprattutto nell’America centrale oppure nel sud-est asiatico. Questo ai sindacati portava ovviamente il problema di una caduta drastica dei livelli di occupazione locale, ai consumatori portava il problema di un diverso livello di verifica della qualità del prodotto perché qui era soprattutto questione di prodotti alimentari e cose del genere. Allora, le due organizzazioni insieme che cosa hanno fatto? Anziché fare la classica rivendicazione dicendo: “Tu qui non devi licenziare” oppure “Tu qui devi fare altre cose”, hanno avviato una forte campagna di conflitto con queste aziende, di rivendicazione, di boicottaggio addirittura, ma dove la posta in gioco, la richiesta non era non tagliare i posti di lavoro qui oppure far pagare il pollo fritto cinque dollari in meno, ma era: “Noi ti chiediamo di assumere dei protocolli di salvaguardia dei diritti dei lavoratori che tu impieghi fuori dagli Stati Uniti. Quindi se tu hai uno stabilimento in Nicaragua, uno in Guatemala e uno in Thailandia, noi premiamo su di te affinché tu adotti dei protocolli di salvaguardia dei diritti di quei lavoratori che noi non vogliamo siano sfruttati solo per favorire il nostro mercato interno”. Quindi questa concezione che la tutela del medio termine dei propri diritti, dei propri interessi debba passare attraverso la tutela dei diritti di quei lavoratori che oggi ci appaiono come concorrenti, come pericolosi.
Allora il discorso è: “No, io so che alla fine difenderò anche i miei interessi nel momento in cui per prima cosa mi batterò per gli interessi di questi lavoratori che oggi sono sfruttati e che proprio grazie al loro sfruttamento diventano pericolosi per me”.
E’ un meccanismo di aggiustamento evidentemente più lungo nel tempo ma che però fa sì che se si parla di sviluppo si parla di sviluppo reale.
Domanda
Torno sul consumo critico, sulle scelte: in particolare mi è piaciuto l’esempio dello scaffale con tutte le cioccolate.
Se ho una crisi d’affetto e voglio comprare la cioccolata purtroppo non trovo al supermercato il prodotto del commercio equo e solidale, il MASCAO, perché è vero che stanno aumentando eccetera, però spesso e volentieri bisogna fare chilometri per trovarli, quindi rimangono le altre due possibilità, la Ferrero e la Nestlé. In un certo senso sono due mali: scelgo il male minore, che in questo caso è la Ferrero.
Questo per la cioccolata, ma si può dire per tanti altri prodotti. Però mi sembra che ci sia una complicazione negli ultimi tempi: queste grandi imprese sempre più si stanno diversificando, cioè sono delle piovre, si inseriscono in prodotti molto diversi da quelli che sono i loro prodotti originali.
Faccio un esempio basandomi sulla mia esperienza personale: io lavoro in uno stabilimento farmaceutico e ho scoperto che per un periodo abbiamo fatto un prodotto nutrizionale che veniva distribuito in base ad un accordo con la Nestlé ed era un prodotto veramente necessario, cioè lo usavano per dei bambini che non potevano farne a meno. Quindi questa mi sembra una complicazione.
Risposta
Intanto il rischio da cui difendersi è il delirio di onnipotenza e la paranoia. Quindi non è che noi improvvisamente, da oggi a domani, riassettiamo tutto e dal cotton fiock fino alla locomotiva pretendiamo di sapere vita, morte e miracoli di tutti quelli che fanno i batuffoli e di sapere quindi quale scegliere.
In molti settori di molti articoli non ci saranno all’inizio informazioni sufficienti, però almeno rispetto alle cose che già si sanno e agli strumenti che si possiedono, si comincia. C’è, ormai, una serie di strumenti, fra cui la celeberrima “Guida al consumo critico” (£. 25.000) è uno strumento che, non dico debba stare nello scaffale di tutte le case, ma che però debba stare in tutti i posti in cui uno, soprattutto quando si trova di fronte ad un consumo particolare, possa andare a vedere di cosa si tratta per scegliere meglio, male che vada, il meno peggio.
Siccome è una delle poche volte in cui apprezzo la logica del mercato come tale, perché è una logica non mercantile ma è una logica proprio di incontro di domanda e di offerta dove non esiste offerta se non c’è una domanda, allora anche questo tipo di strumentalizzazione arriverà, migliorerà e diventerà più sofisticato via via che la nostra società civile ne esprimerà il bisogno.
In Inghilterra c’è il “Concilio per l’etica negli affari” che è un organismo nazionale riconosciuto e stimato, formato da rappresentanti delle Chiese protestanti, dai sindacati, dalle associazioni ambientaliste e altri, che tutti gli anni pubblica una classifica etica delle aziende inglesi, giustificando il fatto che la tale azienda che l’anno scorso era al quinto posto nel suo settore quest’anno è precipitata al decimo perché si è scoperto che ha fatto la tale fesseria oppure, viceversa, che la tale azienda, che era settima, è passata al secondo perché ha eliminato una serie di comportamenti che le venivano addebitati.
In Inghilterra le aziende stanno molto attente a questa classifica, perché ormai esiste da anni e anni e hanno visto che fra il grafico delle vendite e la posizione in classifica c’è una stretta correlazione e se un’azienda scende, perché è peggiorata, il grafico delle vendite scende e se un’azienda cresce, perché si è purificata in qualche comportamento, il grafico sale.
Questo per dire che in paesi in cui c’è una tradizione più vecchia di questo rapporto critico e di sano conflitto creativo col sistema delle aziende che consiste nel tradurre in una pressione significativa la richiesta di moralità complessiva da parte della società, si producono anche quegli strumenti, che diventano attendibili e autorevoli, affinché la gente abbia un controllo maggiore dei propri comportamenti di consumo.
Oggi in Italia questo organismo non c’è, però se questi movimenti che tendono a portare il consumo critico all’attenzione del comportamento consapevole delle persone acquisiscono forza e dimensione, forse tra qualche anno avremo anche noi un’autority che ha la possibilità di classificare le aziende per sanità o insanità dei comportamenti e quindi riuscire a produrre una forma di informazione che diventa anche molto divulgabile e molto credibile.
Quindi, anche qui, credo che il meccanismo virtuoso che da cosa nasce cosa e che più si riesce a diffondere questo meccanismo di coscientizzazione, più c’è la possibilità di avere strumenti migliori per assettare anche i nostri modelli di consumo, credo che sia perseguibile.
Poi è vero che oggi il Mascao non c’è negli scaffali, però negli scaffali della Coop Nord-Emilia c’è il caffè solidarietà.
Dieci anni fa Grazia Nozioni cercò di vendere alla Coop un caffè brasiliano che arrivava per canali più equi e la Coop allora, non dico che gli rise in faccia, però gli disse che non gli interessava.
A quindici anni di distanza dalla nascita delle botteghe “Terzo mondo”, CTM, Commercio Alternativo, RAM ha dimostrato che il mercato esiste, che la domanda c’è e la Coop adesso ce l’ha; non ha il MASCAO, ma ha il caffè Solidarieta’, quindi nel caffè alla Coop questo scaffale immaginario è reale: uno trova il LAVAZZA, il BOURBON e il SOLIDARIETA’. E questo caffè SOLIDARIETA’ che fine farà a fine anno nel fatturato della COOP?
Se tenderà a zero sparirà da quello scaffale, ma se sarà appena decente ci resterà e magari autorizzerà un secondo prodotto e questo probabilmente porterà a far sì che i nostri scaffali siano anche gli scaffali più democratici da questo punto di vista. La strada si è già aperta se funziona ci sarà il tè l’anno prossimo.
Domanda
Che cosa ha risposto la NIKE alla lettera spedita dalla classe di bambini di Bergamo?
Risposta
La NIKE sostanzialmente ha detto che innanzi tutto si complimenta con chi ha scritto, perché è molto contenta che i propri clienti siano attenti a queste problematiche; in secondo luogo, comunque già per conto suo, ma a maggior ragione in virtù di questa sensibilità dimostrata dal suo mercato, la NIKE in questo momento ha 600 ispettori in giro per il mondo, in tutti i paesi in cui ha degli stabilimenti, per verificare questi aspetti delle sue produzioni; in terzo luogo la NIKE comunque sostiene che molto spesso i fenomeni che le vengono imputati riguardano non lei ma i suoi appaltati.
Mi sembra che questi siano i tre punti principali della risposta.
Domanda
Io conosco da poco questa realtà del commercio equo e solidale, però devo dire che lo guardo con molto interesse perché mi sembra un’alternativa valida.
Però c’è una cosa di fondo che ancora non ho capito ancora bene, perché mi sembra che a volte si rischia di creare un po’ di confusione anche a livello di opinione pubblica. Per esempio questa settimana “Famiglia Cristiana” vede in copertina un bambino, credo che sia latinoamericano, e il titolo è “chiavi del mercato” (o qualcosa del genere). Ecco, io penso che si rischi di creare confusione, perché secondo me, il problema non è tanto quello di impostare nuovamente il discorso su un’alternativa fra mercato e qualcosa di alternativo al mercato; cioè, perlomeno, questo commercio equo e solidale io lo vedo come qualcosa che non esce dal mercato ma che, pur rimanendone all’interno, cerca un mercato diverso, che riesca a correggere quelle che sono le deviazioni, le storture.
Ecco, quindi, quello che vorrei da lei è una conferma, cioè se la filosofia di fondo che resta è sempre quella del mercato, che finalmente respinge questa dicotomia ormai superata tra pianificazione statale e concorrenza del mercato, e se alla base anche del commercio equo e solidale vi è questa filosofia, cercando ovviamente di correggerne tutte le deviazioni, tutte le storture di cui lei ci ha, con molta chiarezza, parlato.
Risposta
La domanda è estremamente interessante e richiederebbe una risposta molto articolata.
Provo solo a lanciare due o tre battute seguendo questo ragionamento.
Il mercato di per sé non vuol dire niente, perché il mercato è anche il mercato di paese che c’era e c’è tuttora nei nostri paesi.
Il mercato è il luogo in cui si scambiano dei beni e quindi può essere anche un luogo di grande creatività.
Bisogna vedere cosa si intente per mercato.
Se il mercato è lo scambio, è il meccanismo attraverso il quale storicamente ci si scambia beni, servizi e quant’altro, è insito nella realtà, nella natura delle comunità umane.
Se per mercato intendiamo un impianto teorico in base al quale solamente il libero mercato, senza condizionamenti, senza regolamentazioni, in virtù della famosa mano invisibile è l’unico sistema attraverso il quale si possono raggiungere il benessere collettivo in virtù della misteriosa confusione di tanti egoismi individuali, qui non siamo più nell’analisi di una situazione, di un fenomeno, ma siamo in un’ideologia, in una teorizzazione.
Come il concetto di globalizzazione. Globalizzazione cosa vuol dire? Vuol dire sul pianeta merci, capitali, impianti produttivi e quant’altro si spostano a velocità crescente: però la globalizzazione come fenomeno la descriveva già Marx nel “Manifesto del Partito Comunista”.
La globalizzazione è nata nel momento in cui l’impresa ha cominciato a spostarsi al di là dei confini nazionali e questo è il fenomeno, che poi è diventato sempre più veloce.
Se, però, per globalizzazione intendo la concezione in base alla quale l’unico strumento per sviluppare coerentemente l’economia globale è concepire queste imprese globali che si disancorano dal controllo dei governi e che agiscono in base ad una deontologia che esse stesse definiscono fine a se’ stessa, non descrivo un fatto, descrivo un’ideologia, una teoria e quindi posso discutere.
E questo è il famoso neoliberismo. Quindi, credo che quando “Famiglia Cristiana”, e io per lei, diciamo che quel bambino è schiavo del mercato, non intendiamo dire che sarebbe meno schiavo in un’economia pianificata o che comunque è il meccanismo degli scambi che è un sistema insostenibile di per sé, parliamo del mercato come concezione igienica del mondo, come impianto teorico di un certo libero mercato.
Poi è chiaro che nel momento invece, in cui parlo del mercato come piazza del mercato, che essa sia la piazza di Scandicci o che sia la piazza del Mondo in cui vengono scambiate le merci, quello è un dato di fatto, è un fenomeno.
E allora in questo il commercio equo e solidale è dentro quel mercato; non è dentro quell’altro mercato, non è dentro il mercato teorico, non è dentro la teoria del libero mercato dove il mercato è regolatore di sé e igiene di sé: é sulla piazza del mercato e con il suo modello di scambio di mercato antagonista all’altro cerca di modificarlo. E quindi poetando, il caffè solidarietà sullo scaffale insieme al caffè Burbon crea un modello antagonista di scambio di caffè all’interno della stessa piazza del mercato, però fuori dalla logica di quel mercato con la M maiuscola che finora ha giustificato e tende a giustificare il modo in cui il caffè Lavazza arriva a noi.
Domanda
Fino ad ora abbiamo parlato di scelta individuale del consumatore. Si può nel futuro prevedere una scelta collettiva cioè è pensabile che ci possa essere un governo italiano o, meglio ancora, la comunità Europea che dica in futuro: “NO, il prodotto sui nostri scaffali non arriva se non ci sono determinate condizioni?”
Questa è una domanda.
E poi, dal punto di vista del boicottaggio, spesso la preoccupazione è per chi lavora alla Nestlè che di fatto non c’entra niente.
Ecco, magari ora il problema della riconversione oppure di destinare ad altri usi i prodotti penso che sia molto lungo, però viene analizzato anche questo fattore?
Risposta
Anche qui due flash.
Per quanto riguarda la prima domanda teoricamente sarebbe possibile tutto, però io non lo auspico perché questo vorrebbe dire tornare ancora ad una mentalità dirigistica della politica e quando la politica è troppo dirigistica abbassa comunque il livello di democrazia. Io in questo ci credo anche a costo di difendere il prodotto iniquo.
Il prodotto iniquo deve uscire dallo scaffale perché la gente non lo compra più.
Cioè è questa la vera logica, perché altrimenti non se ne salta fuori. Perché se oggi lo proibisco, cosa faccio torno al proibizionismo?
Oggi lo proibisco e domani smetto di proibirlo e non ho modificato la mentalità della gente, non ho modificato la cultura, non ho creato una cultura diversa.
Né credo peraltro che mai succederà una cosa del genere.
Può succedere, e questo va auspicato, il contrario e cioè come ha già fatto in alcuni momenti anche l’Unione Europea, che proprio in virtù del fatto di cogliere il valore di questi modelli di cultura antagonista, questi governi o queste entità intero-sopragovernative incoraggino, magari, la diffusione. Allora il Parlamento Europeo ha preso delle risoluzioni di apprezzamento, di incoraggiamento del commercio equo e solidale invitando i governi a loro volta a prendere misure per diffondere questa cosa.
Quindi io ci sto a pensare all’intervento collettivo, pubblico dell’autorità in senso di sviluppo propositivo rispetto a queste forme antagoniste, piuttosto che in chiave repressiva rispetto alle produzioni inique o ai comportamenti scorretti delle aziende.
Passando alla seconda domanda, il boicottaggio, intanto ben difficilmente può avere il potere di mettere in crisi un’azienda e quindi di mettere in crisi i posti di lavoro o altro, perché nel momento in cui il boicottaggio teoricamente comincia ad interessare il 3-4% del fatturato ha già fatto andare in fibrillazione tutta l’azienda, ma certo non siamo ancora al dissesto; quindi un 5% di flessione di un fatturato per l’azienda è già una spinta più che sufficiente a modificare i propri comportamenti mantenendo inalterato tutto il resto. Cioè non esiste che se io boicotto la Nestlè quella fallisce: il problema non si pone, perché ben prima di avere un’incisione forte sulla propria esistenza, qualunque azienda cambia i propri comportamenti, insomma, questo è un meccanismo assolutamente automatico, anche perché l’azienda lavora in termini, giustamente di prospettiva. Dice: “Se io oggi ho perso l’1%, rischio che l’anno prossimo sia il due poi il tre poi il cinque oppure il dieci”. Quando diventa il venti vado veramente a catafascio e prima di allora probabilmente mi conviene cambiare i comportamenti.
(Testo non rivisto dall’autore)