Natale ugandese…
Mons. Giuseppe Franzelli, missionario comboniano, è vescovo della diocesi di Lira in Uganda. La diocesi di Lira è legata alla diocesi di Firenze da un progetto di cooperazione tra le chiese, che per alcuni anni ha sostenuto economicamente la popolazione, accompagnato la comunità cristiana, sostenuto i sacerdoti, organizzato esperienze di viaggi missionari per i giovani. .
Lira, 23 Dicembre 2013
Carissimi,
Eccoci ancora una volta a Natale. Un altro Natale. Quello di sempre, celebrato ogni anno da oltre due millenni, entrato ormai a far parte della storia e della tradizione di tanti popoli e paesi. Ma al tempo stesso un Natale nuovo, quello che ciascuno di noi ѐ chiamato ad accogliere e vivere oggi, in questo preciso momento e tappa della nostra vita. Ma, di fatto, cosa c’ѐ di nuovo e di attuale nel Natale che stiamo per celebrare?
Otto giorni fa, il 15 dicembre, ero a Patongo, nella diocesi di Gulu, fra gli Acholi. Con loro ho vissuto i 17 anni della mia prima esperienza missionaria in Uganda, dal 1971 al 1987. Si celebrava il cinquantesimo anniversario della parrocchia e mi hanno invitato in quanto parroco di Patongo nel periodo burrascoso dell’ avanzata delle truppe dell’attuale presidente Museveni, contrastata dalla ribellione armata dei seguaci della “profetessa” Alice Lakwena. Per vari mesi, dal settembre 1986 a fine febbraio 1987, la missione di Patongo ѐ stata al centro dei loro scontri, attacchi e contrattacchi, diventando letteralmente un campo di battaglia. Da una parte i governativi, dall’altra i ribelli e noi nel mezzo: tre padri comboniani, le suore africane e circa trecento donne, bambini e anziani rifugiati in missione dopo il saccheggio e incendio della maggior parte delle case e capanne del paese.
Prima dell’inizio della celebrazione mi aggiro da solo e in silenzio nei vari locali della missione, ora rinnovata ed ingrandita. Spontaneamente, la mente mi si riempie di ricordi, gli occhi di immagini, vivide come se non fossero trascorsi ventisette anni da allora. Entrando in quella che era la mia stanza alzo istintivamente lo sguardo al soffitto ed ѐ come se fosse tuttora sventrato dalla bomba a mano, le pareti intorno bucate come una zanzariera da decine di pallottole. Mi pare di sentire ancora la bruciatura sul piede mentre tento di spegnere coi sandali l’inizio d’incendio sul pavimento. Esco e mi affaccio alla porta dell’ufficio di P. Leone. Per terra rivedo la faccia terrorizzata della cuoca, mentre un soldato sta per sparare a lei e al bambino. Istintivamente gli strappo il kalashnikov, ricevo un pugno in faccia che mi spezza gli occhiali, ma la donna e il bambino sono salvi. Passo in cucina e mi avvicino all’angolo in cui, sotto il lavandino, ho scoperto i cadaveri ancora tiepidi e crivellati di colpi della vecchia Maria e di Lakang, la ragazza ventenne che, in seguito alla paura e alle violenze subite, ogni tanto usciva in escandescenze insultando i militari e mettendoci tutti in pericolo. Assieme a Sr. Dorothy e al catechista le abbiamo sepolte nell’orto, avvolte in un lenzuolo. Cerco invano le tracce delle tombe. Nessuno sembra ricordarsi di loro. Ma io so che, vittime innocenti di una violenza insensata, sono ora nella pace e nell’amore di Dio. Prego per loro e le ricordo con affetto, assieme agli altri civili massacrati e lasciati insepolti a marcire nei campi e nei dintorni della missione.
Mi avvio finalmente verso la chiesa. ѐ vuota. Hanno portato sedie e panche all’esterno, per la celebrazione. In quei giorni le panche le avevamo ammucchiate tutte contro le porte di legno della chiesa, nel tentativo di deviare o attutire l’impatto delle pallottole sparate dall’esterno.
Dormitorio per circa trecento persone durante la notte, la chiesa diventava di giorno rifugio nel corso degli attacchi e contrattacchi di governativi e ribelli. Il posto più ambito e sicuro era lo spazio angusto sotto l’altare. Quanti rosari e preghiere in momenti alterni di speranza e fiducia seguiti dalla paura e dall’incertezza di arrivare vivi al giorno dopo! Mi inginocchio sul gradino su cui , durante l’ultima terribile battaglia, ho chiesto a P. Alex l’assoluzione, prima di uscire dalla sacrestia per impedire ai soldati che sparavano all’impazzata di entrare in chiesa e fare un massacro. Prego in silenzio. Poi mi alzo e rifaccio il percorso di quel giorno. Uscito, passo davanti alla porta metallica lungo il muro esterno. Mi fermo. Rivedo gli occhi spiritati del soldato che, eccitato dalla battaglia e forse dalla droga, urla e minaccia di spararmi. Seguo con lo sguardo il movimento del dito che sta per premere il grilletto. Tento con un guizzo di spostarmi a destra. Una frazione di secondo, poi una raffica di sei pallottole si schianta sulla lastra metallica della porta. Ora l’hanno sostituita.
Provo una strana sensazione. Tutto ѐ così vivo e presente e al tempo stesso lontano, quasi irreale. Come una storia inverosimile, capitata ad altri. Poi durante la processione che ci conduce allo spiazzo della celebrazione, vedo davanti a me una folla enorme di fedeli, parecchi anziani che mi ricordano e riconoscono e tantissimi bambini, giovani e adulti che si uniscono in preghiera, con danze e canti a ringraziare Dio per il dono della fede ricevuta. Contenti e orgogliosi di essere cristiani, di essere Chiesa. Trattengo a stento l’emozione. Alla fine di febbraio del 1987, quando il governo ci obbligò a lasciare la missione, durante l’ultima eucaristia, salutando in chiesa la gente che piangeva, ho consegnato al catechista le chiavi del tabernacolo, dicendo: “Noi partiamo, ma non abbiate paura. Il Signore rimane con voi”. E sono partito, pregando e sperando, ma con il cuore pesante. Per due anni e mezzo a nessun sacerdote fu permesso di raggiungere Patongo. Umanamente, sembrava la fine della comunità cristiana, anni di lavoro ridotti a nulla. Ed invece, ecco oggi davanti a me migliaia e migliaia di fedeli, una Chiesa più viva che mai. Per me, la settimana scorsa, quella di Patongo ѐ stata un grande lezione, un dono prezioso. E ho pensato di condividerlo con voi.
Perdonate se, sull’onda dei ricordi, mi sono lasciato prendere la mano e non vi ho parlato di quanto succede oggi qui a Lira, della situazione della mia gente Lango e della diocesi. Non l’ho certo fatto per rifugiarmi nostalgicamente nel passato, per non vedere e affrontare la situazione e i problemi che mi circondano. Sono cosi tanti e pressanti che cercare di non pensarci o di evaderli sarebbe stupido e inutile. Come ignorare la guerra scoppiata in questi giorni poco lontano da noi, in Sud Sudan? O le beghe interne nella politica del paese, fra i due gruppi di clan della nostra gente Lango, l’altissima percentuale di violenza domestica, le tensioni in diocesi, che continuano a creare divisioni e non contribuiscono certo all’unita’ della Chiesa? Sono cose evidenti, esperienza concreta di ogni giorno. Ma aldilà e al disopra di tutto ciò emerge con estrema chiarezza un fatto: il dono della continua presenza e venuta del Signore nella vita di ciascuno di noi, nella storia delle nostre famiglie e del nostro popolo.
Quando il male sembrava trionfare, l’odio e la morte vincere, quando tutto sembrava perduto e ho dovuto lasciare la parrocchia, chi ѐ rimasto con la gente e la comunità di Patongo? E chi mi ha accompagnato per anni sulle strade del mondo, prima in Italia, poi in Messico e Sudafrica riconducendomi infine in Uganda? Lui, sempre Lui, l’Emmanuele, il Dio-con-noi, venuto a Natale non come ospite di passaggio, ma diventato uomo, fratello, uno di noi. Non solo per indicarci la strada della salvezza ma per camminare e percorrerla con noi. Con me, con te, con ciascuno di noi. Ogni giorno, in un Natale continuo. Che porta senz’altro frutto, anche se a distanza di anni.
Lo scopo di questa lettera ѐ di augurarvi un Buon Natale. Un Natale vero, quello di sempre e quello di oggi, importante e nuovo per la riscoperta riconoscente di una presenza ed un amore fedele che non ha mai cessato di esserci ed accompagnare me, allora e durante tutti questi anni. Vi ho parlato di me, ma ognuno di voi può ricordare, scrivere e celebrare la propria storia personale o di famiglia e riscoprire l’amore e la fedeltà del Signore nella sua vita. Tale riscoperta non illumina solo il passato ma si proietta come garanzia anche per il presente e il futuro.
In questa ottica e letti in una prospettiva di fede, alla luce della Sua presenza, ci stanno e si possono infatti leggere, affrontare e vivere tutti gli avvenimenti, grandi e piccoli, belli e dolorosi del cammino della nostra vita. Natale ѐ accogliere, credere e celebrare Dio con me. Con te. Dalla nostra parte, per salvarci. Celebriamolo!
Nella misura in cui ci pensiamo e crediamo, esperimenteremo anche noi, oggi, la “Gioia del Vangelo” , assieme al desiderio e all’impegno missionario di condividerla ed annunciarla agli altri. Vivissimi Auguri di Buon Natale, allora, con tanta gioia e amore da riempire tutto il Nuovo Anno!
Pregate per me. Vostro, p. Giuseppe