Missione nella debolezza o debolezza della missione?
Corso di formazione alla Mondialità e Missionarietà
29 gennaio 2000
Missione nella debolezza o debolezza della missione?
Povertà di mezzi in una prospettiva di liberazione
Ernesto Viscardi
Introduzione
Il tema di questo incontro è nato da una chiacchierata con don Sergio mentre si viaggiava sul treno fra Roma e Firenze. Lo sfondo in cui porre questa “chiacchierata” ha due colori essenziali: la missione e il mondo di oggi: un mondo sempre più hi-tech, dove il globale sembra diventare elemento egemonico. Efficientismo, tecnologia, tempo reale, mercato, finanza e quant’altro è il nuovo vocabolario ma anche la geografia dei nuovi centri di potere forti da dove si governa il mondo.
Partendo dal tema proposto la prima domanda che ci poniamo e alla quale vogliamo rispondere è sostanzialmente questa:
è possibile ricondurre la missione ad una sua essenziale originalità, evitando da una parte la tentazione di un romantico neo-pauperismo, e dall’altra proporsi come risposta plausibile e significativa a questa contemporaneità?
La seconda domanda alla quale vorremmo rispondere riguarda più i sintomi di una ipotetica salute della missione: quando cioè la missione diventa fragile, debole e per contro non ha più niente da dire e ancor meno da dare a questo nostro mondo?
Il taglio che volgiamo dare è necessariamente quello esperienziale visto che non abbiamo titoli per fare altro.
Un po’ di chiarezza
Diciamoci subito di quale missione stiamo parlando per sgomberare il campo da ogni equivoco. Usando il termine “missione” intendiamo la “MISSIO AD GENTES” (Missione a tutti i popoli) che esprime l’identità di una chiesa segno del continuo camminare di Dio con l’umanità, una chiesa per gli altri.
Intesa in questo senso la missione diventa l’identità stessa della chiesa che non può esistere se non per la missione, lei stessa generata dalla missione e dall’annuncio.
La missio ad gentes non può nascere dal basso perché è prima di tutto la missione di Dio continuata nella sua chiesa ed oltre essa.
– E’ una missione che ha un elemento di dinamicità: il procedere del Padre del Figlio e dello Spirito Santo verso il mondo.
– Un elemento di progettualità: si realizza a partire dal progetto che Dio ha sul mondo e che Gesù ha definito come il Regno di Dio ( un mondo secondo Dio): Mar 1,15 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo»)
– Un elemento di attualità proiettato però verso il futuro: appartiene al tempo e alla storia (a questo tempo e a questa storia) proiettandola però verso la sua realizzazione.
– E’ opera di Dio, prima di tutto ma si realizza attraverso l’adesione libera e cosciente di uomini e di donne che ne diventano protagonisti.
– E’ inclusiva nel senso che è il luogo per tutti senza possibili criteri discriminatori.
Il modello
C’è, per la missione, un modello di essenzialità al quale possiamo ispirarci e sul quale possiamo fondare una missione “leggera”?
E’ certamente il modello dell’incarnazione:
Giov 1,1 In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
……….
Giov 1,14 E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Il brano del vangelo di Giovanni evidenzia la “debolezza” della missione come modello nella sua attuazione storica:
q E’ il tutto che si fa frammento,
q Il tutto tempo-eternità che si fa storia, tempo.
q Il tutto “altro” che si fa uno di noi.
Per Gesù questo non è stato un esercizio ascetico ma un processo di vicinanza e di inclusione. E’ il suo mettersi dentro la ristrettezza delle vicende umane, della precarietà della storia e delle sue vicende. E’ importante dirsi questo: la missione ha come luogo la storia e le persone che compongono e costruiscono questa storia, vuol trasformare questa storia da una cronologia di eventi, ad un evento di salvezza.
Stare dentro la storia vuol dire spogliarsi dalla sicurezza di chi ha già le risposte pronte, di chi vive di certezze , di chi gestisce la verità; per mettersi nel cammino incerto degli uomini alla ricerca di verità ultima e quindi di Dio. Da qui può nascere un modello di chiesa che non è solo maestra ma anche compagna di viaggio.
E’ opportuno richiamare un inno presente nella liturgia delle prime comunità cristiane e che S. Paolo utilizza come una “predica” sull’umiltà per i suoi cristiani di Filippi:
Fili 2,6 il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,
Fili 2,7 ma spogliò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;
Fili 2,8 trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Quel “spogliò se stesso” nella forma originale greca è “svuotò se stesso”. Si può pensare in questo senso a una missione svuotata di attributi “forti” che non gli appartengono immediatamente (cultura, origine, organizzazione, mezzi…) per essere riempita di storia, di vita di un popolo, di una nazione di un continente? A una missione che si fa carne senza annullare l’esistente che incontra? Una missione che si fa altro (africana in Africa, Asiatica in Asia….) fedele all’unica cosa preziosa che le appartiene: la parola di Dio? Sono domande che continuamente dobbiamo porci per liberarci da tanti equivoci che ci portiamo dietro da una tradizione antica o recente.
Questo modello “debole”, perché assume e fa proprie le debolezze della storia dell’umanità, ci dice che uno degli elementi essenziali alla prassi missionaria è la categoria di “vicinanza-compagnia” che ha come modello la “vicinanza compagnia di Dio all’uomo”.
Affermare questo implica delle necessarie conversioni e prese di posizione.
q Ci obbliga a rimettere al centro l’uomo e a delegittimare tutto quelle teorie o prassi che ne possano sminuire la centralità. (I dogmi del neoliberismo; i fondamentalismi religiosi di ogni specie…).
q “Vicinanza-compagnia” postula inoltre un rapporto paritario fra persone e popoli diversi e quel necessario interscambio che è ricchezza per tutti (convivialità delle differenze). La cultura, l’economia, la stessa religione sono stati e sono in molti casi origine di forti discriminazioni. Il rapporto paritario si costruisce demolendo pre-giudizi, attraverso contatti e conoscenza, il dialogo, la coscienza di una dignità e di un destino condiviso. C’è una cultura nuova (cultura della mondialità, dell’Uomo Planetario – E. Balducci) che va fatta crescere in questo senso.
q Indica quindi la necessità di creare una obiezione di coscienza collettiva che sappia delegittimare la cultura dell’opposizione e quindi della violenza in tutte le sue molteplici espressioni: logica dell’amico-nemico; bianco-nero; nord-sud; ricco-povero, ponendo le basi per una cultura della pace per tutti.
Quanto detto fonda la prassi di una missione “leggera” e ricca di umanità perché capace di incarnarsi, una missione che pur avendo origine dall’alto da Dio, si innesta nella storia a partire dal basso, dal vissuto di persone e popoli immedesimandosi in esse per essere lievito e sale ma per quel tanto che è necessario per non rendere la pasta troppo salata e quindi non più mangiabile e per farla fermentare al punto giusto.
Il contenuto
1Co 1,22 I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza,
ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia;
ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio;
1Co 1,25 poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.
Paolo fa dell’annuncio della croce il contenuto della sua evangelizzazione, del suo sforzo missionario. E croce, dal punto di vista strettamente umano, indica morte violenta per condanna e quindi fallimento. Tale appare la vicenda di Gesù agli occhi dei possibili storici del tempo.
Ebbene Paolo ne fa il frontespizio della sua predicazione, del suo annuncio appunto perché non si potrebbe capire Gesù senza la croce. La croce diventa il segno della sua obbedienza al Padre e allo stesso tempo di un amore sproporzionato per l’uomo.
Ai tanti poteri forti (organizzazione, mercato, finanza, micro e macro economia….) la missione non può contrapporre che questo semplice ma continuamente sconvolgente atteggiamento: amare.
In questo senso la missione presuppone gente sempre disposta a lasciarsi “crocifiggere” per l’uomo e la sua vicenda storica. E’ questa “gratuita passione” per l’uomo che sostiene la missione, la caratterizza per la sua carica di grande umanità e la rende spazio condiviso per chi in qualsiasi parte della terra e in qualsiasi religione ne condivide la tensione.
Non solo ma la missione ha la capacità di riconoscere in tutti i “dannati e condannati” della storia contemporanea, il volto del suo Signore obbligandoci a schierarci al loro fianco con la stessa “normalità” con cui ci possiamo schierare dalla parte del Signore.
Ma non basterebbe se questo non ci impegnasse con precise responsabilità e azioni a fare in modo che non ci possano più essere le ragioni per “nuovi crocifissi”. (E dobbiamo un po’ cessare di far rifluire tutto in un pietismo piuttosto malsano che affida solo alla preghiera la soluzione di tutto) .
Non stupisce quindi la lunga lista di martiri missionari che ha caratterizzato le cronache di questi anni (31 nel 1999) e potrebbe essere interessante definirne alcune caratteristiche comuni:
q Non più martiri della fede, come nei primi secoli della chiesa ma martiri della carità, della giustizia, dei diritti e dell’impegno sociale.
q Abbracciano tutti gli stati di vita: laici, consacrati, uomini, donne, credenti o meno. Anche la nazionalità e variegata (ogni continente ha i suoi).
q Ai tanti resi più famosi dai media si affiancano decine di persone anonime uccise nella maniera più diversa per la stessa ragione: davano fastidio ai potenti di turno.
Eppure, l’amore per l’uomo ci spinge ad affermare che bisogna fare in modo che nel mondo non ci sia più bisogno di martiri perché martirio è sempre frutto di violenza.
E’ facile intuire come sia necessario prendere le distanze da un certo trionfalismo religioso che vorrebbe quantificare tutto (come si fa per le pianificazioni di mercato: tanto investo, tanto ne ricavo e tanto posso reinvestire). E’ facile quantificare la realizzazione di una struttura, di un progetto di sviluppo, difficile dire del cammino di un gruppo sociale o di un popolo soggetto a evoluzioni interne e a molte pressioni esterne che sovente non può gestire.
Il luogo
Aggiungo ancora una ulteriore considerazione. Cercare di osservare il mondo stando dentro un pozzo se ne può ricavare una certa immagine, osservarlo dalla cima di una montagna può apparire molto diverso. Anche il luogo da dove pensare, pregare, stare e riflettere, fare missione non è indifferente.
Lu 4,16 Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere.
Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui.
Lu 4,21 Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi».
Gesù fa dell’annuncio del vangelo ai poveri il segno evidente dell’attualità del regno di Dio e li definisce “beati” termine che significa “benedetti, amati da Dio” e a quelli che lo seguivano dice:
Lc 6,20 «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Sono i poveri il luogo ermeneutico nuovo per interpretare il mondo e la chiesa e vivere la fede. La chiesa Latino Americana ne ha fatto una delle sue scelte prioritarie:
” I poveri meritano un’attenzione preferenziale, qualunque sia la condizione morale o personale, in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, questa immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò Dio prende le loro difese e li ama. Ne consegue che i primi destinatari della missione sono i poveri, e la loro evangelizzazione è per eccellenza segno e prova della missione di Gesù” (Puebla 1979, 3757 (1142) ). Dieci anni prima nella Seconda Conferenza Generale (Medellin 1968) la chiesa si era data questa linea di programma:
“In tale Contesto una Chiesa povera:
– Denuncia l’ingiusta carenza dei beni di questo mondo e il peccato che ne è la causa.
– Predica e vive la povertà spirituale come atteggiamento di infanzia spirituale e apertura al Signore.
– – S’impegna essa medesima nella povertà materiale. La povertà della Chiesa è , in effetti, una costante della Storia della Salvezza.” (Medellin 498)
Dall’America Latina questo è rifluito in tanti altri documenti (Redemptoris Missio n.60). Anche la chiesa Italiana nel documento di Palermo “Con il dono della carità dentro la storia” ne fa una delle scelte di azione (Inviati ad evangelizzare i poveri: 34-35).
C’è tuttavia attorno a questo tema molta retorica al punto che si rischia di farne uno slogan svuotandolo del suo contenuto più essenziale.
A noi questo impone di mettersi nel luogo degli esclusi per rileggere la complessa realtà del mondo Possiamo immaginare la differenza sostanziale che ci può essere quando si parla di povertà a partire dalla stanza dei bottoni di Washington, della Banca Mondiale, o di Seattle (o di Milano, o anche di qualche curia arcivescovile) e quando si parla dello stesso argomento stando dentro le periferia di qualche grande città del terzo mondo (Korogocho – Nayrobi; S. Paulo…). Là sono statistiche, analisi, valutazioni di investimenti, perdite e profitti, panificazioni; qui sono drammi di vite che hanno volti e nomi specifici, spente prima del tempo, di violenza, di ragazzi di strada, di prostituzione minorile, di una morte sociale evidente.
q Bisogna imparare a leggere la complessità a partire dalla periferia per non correre il rischio solo di parlare dei poveri o ai poveri e per intuire tutta la drammaticità e l’urgenza di chi vive uno stato di perpetua emarginazione. In certe circostanze i giorni e le ore decidono dei destini di centinaia di persone.
(“Mentre la produzione mondiale dei prodotti alimentari di base rappresenta più del 110% del fabbisogno, ogni anno 30 milioni di persone muoiono di fame, e il numero dei sottoalimentati supera gli 800 milioni. Se nel 1960 il 20% più ricco della popolazione mondiale disponeva di un reddito trenta volte maggiore di quello del 20% più povero, oggi il reddito dei più ricchi è maggiore di 82 volte! Sui 6 miliardi di abitanti del pianeta, solo 500 milioni vivono nel benessere, mentre i bisognosi sono 5,5 miliardi. Un mondo rovesciato” Ignacio Ramonet in Le Monde Diplomatique, Dic. 1999. Ci si può dare ragione di queste situazioni?)
q Questo obbliga noi e la chiesa a precise scelte di campo, a situarci senza ambiguità dalla parte dei deboli. Alle volte per ottenere privilegi, spazi per operare, visibilità sociale si è sovente scesi a paurosi compromessi, ingiustificati silenzi. Penso ai “desaparecidos” dell’Argentina ma anche di altri stati sudamericani, il tanto verbalismo delle nostre chiese Africane che non è mai sbocciato in chiare prese di posizione davanti ai governi (cfr ex Zaire); le complicità mai chiarite negli scontri etnici. Ma anche le connivenze con il potere delle nostre chiese, nel tentativo di avere spazio politico e visibilità sociale a scapito a volte di una posizione più profetica e critica. Queste scelte di campo, che non sono solo geografiche (con questa o quella regione del pianeta), ma ideologiche e di fede ci obbligano a una profonda coerenza nel nostro modo di agire nella giungla dei nuovi luoghi di potere (Non si può condannare teorie neo-liberiste e poi utilizzare allegramente della logica del suo apparato).
q C’è anche il rischio di stare con i poveri da ricchi o di starci in modo funzionale alla propria immagine. Allora bisogna imparare a coniugare l’annuncio del vangelo ai poveri con l’annuncio povero del vangelo. I poveri sono la misura dell’essere e dell’avere per la chiesa. (Sono sovente impressionato dal flusso di soldi che attraverso l’8 per mille arriva alla chiesa, ho quasi il dubbio che questo possa assopire un certo slancio e intaccare un certo stile e trasformarci da appassionati annunciatori a pacifici gestori del sacro!). Siamo tutti d’accordo nel dire che una certa sobrietà non ci farebbe male: sobrietà di soldi, di mezzi, di immagine (e qualcuno aggiunge anche di parole e di documenti….).
q Guardare dall’angolatura dei poveri vuol dire anche non accontentarsi solo del gesto puntuale ma far crescere una gestualità che incida sulle cause della povertà e non si fermi a curare i sintomi. Se oggi la divisione del mondo non passa più fra stati ricchi e poveri (Nord-sud; primo e terzo mondo) ma fra persone (gruppi sociali) incluse o escluse è necessario fare in modo che le regole di questo “gioco perverso” siano cambiate. Non si può più fare della solidarietà una questione di elemosina. Nell’attuale contesto mondiale, dove il “globale” pare sia l’elemento dominante (mercato globale, comunicazione globale, villaggio globale…) è essenziale che anche la solidarietà sia giocata su parametri globali e ancora non solo in termini di una militanza contro (contro il neo-liberismo; contro il mercato globale; contro le trans-nazionali, la marginalizzazione della politica rispetto alla finanza e all’economia) ma in termini di proposte alternative praticabili. Pur non negando il valore delle tante iniziative che vanno sotto il titolo dei “nuovi modelli di vita” (Commercio Equo e solidale, Banca Etica, Consumo critico…) che hanno dalla loro parte la capacità di creare una coscienza di base, bisogna puntare anche a qualche proposta più globale (Tobin tax; riforma del sistema economico mondiale, cancellazione del debito; riforma dell’ONU….). Il salto di qualità degli interventi (anche della cooperazione o delle teorie di sviluppo) in questo senso è obbligatorio. Bisogna fare della carità una virtù politica ed economica. Ci sono alcuni obblighi che non si possono dilazionare: conoscenza delle cause anche le più remote, necessità di collaborazioni locali e reti di intervento internazionale (cfr. la contestazione in occasione del WTO a Seattle – Dicembre 1999), monitoraggi continui di politiche nazionali e di accordi internazionali.
Gli strumenti
Anche gli strumenti, i mezzi non sono indifferenti ad un agire missionario che si vuole “leggero” ed essenziale.
La storia di questo secolo è stata sovente testimone di prassi missionarie all’insegna dei “mezzi forti”.
q Il vangelo è stato sovente sostenuto da una forte cultura “eurocentrica”: forte dal punto di vista organizzativo (colonialismo e neo colonialismo), forte nei mezzi (mass media, struttura economica e produttiva, struttura politica…). Al seme del vangelo si è sostituito l’albero della nostra identità. Bisogna allora compiere una coraggiosa opera di liberazione della Parola perché sia detta con tutta la sua verità e la sua forza La chiesa non ha sue “parole” da annunciare ma l’unica parola che è il vangelo del Signore, non si affida né ai segni né alla sapienza, ma alla Parola della croce. Nasce da qui la povertà di cultura della chiesa. Una chiesa che non appartiene a una cultura non riduce il vangelo a una cultura, non lo imprigiona in mediazioni, non si sostituisce ad esso. Solo così la chiesa può aprirsi effettivamente, in una prospettiva di vero universalismo cristiano, a tutte le culture, portando in esse l’urto della parola del Signore, riconoscendo i semi di verità in esse operanti.
q Massimo Toschi in un articolo (Servitium 53/54 pag 113-133) scrive così: ” La chiesa potrebbe essere tentata, per una sorta di contagio, di spirito di concorrenza e di ricerca di efficacia, di adottare uno stile di organizzazione e di utilizzazione dei mezzi, che rischiano di conferire alla chiesa un carattere di installazione e di potenza terrestre, contrari alla sua finalità spirituale.”. Efficacia, concorrenzialità, anche noi tentati e contagiati dalle logiche di mercato. Non è facile toglierci dalla tentazione della visibilità e della potenza delle opere. Ma non sta in questo la forza della chiesa, come non sta nell’essere credibile secondo una logica di mondo, dei potenti. Non è che andiamo bene perché tutti ci battono le mani e c’è un consenso sociale per quanto si sta facendo anzi sovente questo e segno di un forte appiattimento, di non rilevanza profetica.
Parte II
Debolezze della missione
Se da una parte la missione è chiamata a una continua autocritica nella fedeltà al modello missionario per eccellenza che è il Signore bisogna anche affermare che in qualche caso la missione rischia di essere intaccata da elementi che possono alterare la sua identità, la sua vicinanza al modello cristologico e per conseguenza svuotarla di contenuto e renderla insignificante per se e per gli altri. Alcuni aspetti li abbiamo già evidenziati nel percorso appena tracciato.
Tutto sommato alcuni di questi aspetti riattualizzano una pagina del vangelo, le tentazioni di Gesù (Lc 4,1-13) che possiamo riassumere in tre filoni essenziali:
q La tentazione del potere, o almeno di appoggiarsi o utilizzare il potere (Politico, economico, culturale, religioso….)
q La tentazione delle opere: il ridurre tutto ad una grande operazione umanitaria, necessaria ma non monopolizzante per la missione.
q La tentazione di sostituirsi a Dio nell’agire autoreferenziato (una chiesa, una comunità non più segno di Dio ma di se stessa).
Queste sono le tentazioni di sempre ma oggi alcune si evidenziano in modo particolare.
Debole profilo culturale
Per chi in qualche maniera ha una certa famigliarità con gli ambienti missionari sa quanto entusiasmo ci sia dietro alle tante iniziative che vengono elaborate. E’ un mondo in gran parte sommerso e allo stesso tempo molto dinamico, largamente presente nel tessuto sociale ed ecclesiale.
Di fatto, e ne abbiamo già accennato nel corso di questa trattazione, oggi la realtà del mondo è altamente complessa e pone degli interrogative ai quali il semplice entusiasmo, pur valido e coinvolgente non può più essere l’unica risposta.
Ci sono degli interrogativi teologici (Chi salva che cosa? Dialogo inter-religioso o missione?…) che richiedono risposte adeguate. Ma lo stesso contesto globale dentro il quale la missione si evolve non è fra i più semplici da decifrare. (Mercati globali, nuove povertà, nuovi equilibri geo-politici; cultura del post-moderno…). Sovente ci si è chiesti, forse con qualche eccezione in questi ultimi anni, come mai la missione sia sovente assente dai luoghi di elaborazione e di decisione.
Una delle ragioni potrebbe essere il suo apparire con un basso profilo culturale. Abbiamo delegato troppo al fare senza dare un fondamento di pensiero. Sembriamo inoltre latitanti sul fronte delle macro analisi e delle possibili proposte in questo senso. In fondo, dobbiamo confessare, che ci stiamo muovendo dentro modelli di missione che appartengono ormai al passato e che non rispondono alla realtà di oggi. Qualche esempio: i modelli di sviluppo; eurocentrismo; missione a senso unico…
Riflessione, ricerca, capacità di elaborazione teologica e culturale e di proposta operativa devono essere considerati i luoghi per un rinnovamento della prassi missionaria
Personalizzazione della missione
Nel nostro mondo occidentale è in atto un’evoluzione culturale molto interessante, quello che viene definito come il passaggio dalla modernità alla post-modernità caratterizzato da pensiero debole (Vattimo) fine delle grandi narrazioni (Lyotard) e conseguente poca significanza delle ideologie di grande respiro (politiche, esistenziali, religiose…). Un elemento unificatore di questa nuova cultura è certamente la centralità dell’individuo come elemento interpretativo della realtà. Tutto è misurabile sull’individuo: morale, etica, interpretazione e ricerca della verità. Questa tendenza culturale ha “invaso” anche la missione dando origine a nuove situazioni:
a) La personalizzazione dell’esperienza della missione.
E’ questo un fenomeno piuttosto recente che sposta il necessario legame esistente fra chiesa -missione-mondo-storia per ricentrarlo su persona-missione. La missione della chiesa rischia di diventa allora “la mia missione” o la “mia esperienza missionaria”. La valenza personalistica della missione può introdurre elementi che non si accordano con la sua natura:
– la temporaneità (vale per un certo tempo della mia vita e non diventa uno stile di vita)
– Il modello, la prassi, non può essere ispirata dall’esterno ma è confezionato a misura dell’individuo. (Si ingenera alle volte un modello estremamente “estetico”: mi piace e lo assumo, non mi piace e lo lascio).
– Ma quello che sembra essere più grave è che la misura, il fine, la tensione della missione diventa un sentirmi bene in quello che faccio piuttosto che “c’è un mondo da salvare, da liberare” indipendentemente da quello che posso provare io. Adattare la missione alla misura del pensiero dominante oggi significa svuotarla di significato e di quella carica di entusiasmo, di generosità e di gratuità che gli è proprio.
La missione è carità al mondo, e non a me stesso.
E’ evidente che non si voglia con questo negare che la persona si senta anche realizzata con quello che sta facendo , ma guai se questo ne diventasse la ragione e la misura.
b) Quanto abbiamo appena detto è la premessa ad un altro fenomeno interessante che sta caratterizzando il mondo missionario di questi anni. L’allargamento della sua base. Penso che tutti possiamo essere d’accordo nel dire che mai come in questi tempi si siano moltiplicati i soggetti che direttamente o indirettamente operano nella o per la missione con alcune novità interessanti.
-Il laicato missionario. I laici hanno sempre partecipato alla missione ma sempre dentro un modello altamente clericale che li confinava in ruoli di secondo piano. E’ venuto il tempo di una loro partecipazione da soggetti paritari con altri e con la valorizzazione di un loro contributo specifico.
– I movimenti ecclesiali. (Neo-catecumenali, Focolarini, Rinnovamento…). La missione è sempre stata monopolio di congregazioni religiose (Domenicani, Francescani, Gesuiti, Istituti Missionari) o di strutture ecclesiastiche (Centri missionari….) . In questi ultimi decenni anche i vari movimenti hanno sviluppato una loro partecipazione diretta alla missione e alla volte con paradigmi missionari interessanti.
A questi dobbiamo aggiungere un numero abbastanza rilevante di gruppi istituzionali o meno, molto variegati e differenziati fra loro che comunque operano secondo modelli di missionarietà propri.
Tutte queste realtà che compongono il colorito “arcipelago” o “popolo della missione” è allo stesso tempo una grande ricchezza e un elemento di debolezza.
Ricchezza perché ha ampliato la base di partecipazione diretta creando spazi per nuove soggettività e debolezza perché crea una grande frammentazione che rischia di avere poca incidenza sulla realtà. Un esempio per tutti: pensate a quanti aiuti vengono inviati e quanto poco risultato rispetto allo sforzo sostenuto.
Uno spiritualismo disincarnato
Un ulteriore fenomeno religioso di questo nostro tempo è certamente il ritorno del sacro. Lo descriveva già Gilles Keppel qualche anno fa in un suo libro intitolato: La rivincita di Dio (Rizzoli 1991). Questo ha dato origine ad un arcobaleno di forme di spiritualità (anche all’interno della chiesa stessa) dalle più tradizionali, a quelle più sincretiche (New age…).
Trasportato nel contesto della missione, sulla spinta delle nuove emergenze culturali, si ha quasi l’impressione dell’emergere di una spiritualità “debole” che risponde si ai bisogni dei soggetti ma non pretende di salvare il mondo. C’è il rischio di spiritualizzare un po’ tutto e di affievolire quel necessario confronto fra storia e regno di Dio che fonda atteggiamenti essenziali e prassi operative per lottare contro ciò che è anti-regno. In questo senso bisogna recuperare la dimensione politica ed economica della missione come elementi essenziali al suo agire. Spiritualità si, ma nel segno dell’incarnazione, che ci ancori alla storia e agli impegni per trasformare questa storia in regno di Dio. (La Redemptoris Missio sintetizza bene questo equilibrio nell’espressione: contemplativi in azione. n. 91).
Una forte sproporzione fra mezzi e persone
Ne abbiamo già parlato all’inizio e lo vogliamo riprendere in questa sede ponendoci la domanda: ma siamo sicuri che il denaro abbondantemente offerto ai missionari aiuti veramente le missioni? Domanda imbarazzante che si va male a porla perché da una parte sappiamo da dove vengono gran parte delle offerte: gente semplice, che in trasparente spirito evangelico condivide il proprio denaro con i poveri della terra e i loro evangelizzatori; famiglie che si autotassano. Giovani che con entusiasmo danno del loro tempo per aiutare un progetto o l’altro.
Dall’altra per esperienza sappiamo quanto grande è la sofferenza ingiusta dei poveri della terra, le emergenze quotidiane a cui fare fronte.
Nonostante questo dobbiamo continuamente riaffermare due principi di fondo.
– Ritornare all’annuncio “povero del vangelo” perché l’aiuto non esaurisca le nostre responsabilità, scaricando sui “missionari” tutto il resto e perchè si evitino legami di dipendenza e di passività in chi riceve (assistenzialismo).
– Riaffermare che la missione in primo luogo più che di mezzi ha bisogno di persone. A fronte di un aumento di aiuti verso le missioni (il flusso di aiuti è valutato attorno ai 1000 miliardi per anno) c’è una forte diminuzione di persone che partono. La missione senza missionari rischia di vuotarsi.
Conclusione
Abbiamo cercato di fare un percorso che ci portasse dentro la missione per esplorarne alcuni aspetti che ci sembrava importante evidenziare ai fini del nostro discorso. E’ chiaro che la missione è una realtà vasta e variegata di cui noi abbiamo esplorato solo alcuni aspetti.
Quello che è importante rilevare è che la missione sta vivendo una sua evoluzione. Cambiano i modelli, si evolve una riflessione teologica, emergono prassi missionarie nuove. E questo è necessario perché la missione oltre che essere di Dio appartiene alla storia e alla dinamicità del suo evolversi.
Se mi resta una parola personale da dire è riportare una semplice parola di chi ha fondato la mia famiglia religiosa dei missionari della Consolata, il Beato Giuseppe Allamano:
“Ci vuole fuoco per essere missionari” e lo auguro a me, alla chiesa e a voi.
Bibliografia
Dire Dio al tramonto; T. Tosolini; EMI 1999
La parola si fa carne; B. Maggioni, EMI 1996
Evangelizzare nella post-modernità; G. Savagnone; LDC 1997
Il fuoco della missione; EMI 1999
Dynamique de la missione chrétienne; Haho-Karthala-Labor et Fides 1995
Redemptoris missio EMI 1991
Documenti della chiesa Latinoamericana; EMI 1995
Con il dono della carità dentro la storia; EDB 1996
La beatitudine dei poveri; AA. Servitium , Settembre-Dicembre 1987
P. Ernesto Viscardi
Missionari della Consolata
23884 Bevera di Castello B.za Lecco