lettera di Pasqua di don Gherardo (N’Djamena)
Carissimi/e,
Come di consueto, approfitto di qualche momento di calma durante il periodo quaresimale per farvi giungere mie notizie da N’Djamena, insieme agli auguri di Pasqua.
Dall’ultima volta che ci siamo sentiti, un ricordo molto bello che conservo nel cuore, è quello legato alla partecipazione al pranzo di Natale organizzato dalla comunità di Sant Egidio. Nel mese di dicembre, Amour, uno dei giovani fondatori della comunità a N’Djamena, è venuto in parrocchia per presentare alla fine della Messa, l’iniziativa del pranzo di Natale. Ha precisato che l’invito era rivolto non tanto ai bambini di strada, come siamo soliti definirli, ma ai bambini che sono nella strada. Parlare di bambini che sono “nella strada” ci aiuta a ricordare che la loro triste situazione non è il risultato di una scelta, ma la conseguenza di un male della società che ci interpella tutti. Papa Francesco lo descrive molto bene nella sua esortazione apostolica, quando dice: “La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo” (Evangelii Gaudium 54). I giovani dei vari gruppi e dei movimenti ecclesiali della parrocchia (Scout, Guide, Azione Cattolica, carismatici), che si sono ritrovati la sera dell’ultima domenica di Avvento per la preghiera del Rosario, hanno voluto fare una colletta per sostenere l’iniziativa del pranzo. Durante la festa ho avuto la possibilità di conoscere meglio altri membri della comunità di Sant Egidio e mi sono reso conto che il loro impegno nei confronti dei bambini va ben al di là dell’organizzazione del pranzo di Natale. Ci tengono in particolare a raccontarmi la storia di un bambino che, dopo esser caduto e aver battuto la testa, era in fin di vita. Venuti a conoscenza dell’incidente, due giovani di Sant Egidio, sono riusciti a salvarlo grazie a un difficile intervento chirurgico di un medico che ha accettato di operarlo gratuitamente. Ogni sabato mattina, inoltre, con quel poco che riescono a mettere da parte durante la settimana, incontrano i bambini accanto al mercato per offrire loro un po’ di tè, dei biscotti e per ascoltarli soprattutto, cercando delle notizie sulle loro famiglie di origine e per informarsi sulle reali possibilità di trovare, almeno per qualcuno, l’accoglienza in una casa.
Un altro momento molto forte, nel mese di gennaio, è stato l’accompagnamento spirituale di un malato della parrocchia. Il responsabile di una delle nostre più grandi comunità di base, un giorno dopo la Messa del mattino, mi chiede di accompagnarlo per pregare con una persona gravemente malata, si chiama Fidèle e vive con la moglie e sei figli. Fa freddo, siamo sui 10 gradi che per gli abitanti di N’Djamena significa il gelo del polo nord. Quando arriviamo alla casa bussiamo e dall’interno escono prima le figlie più grandi, poi i più piccoli e infine la mamma con un neonato in collo. Sento che le loro mani sono calde e immagino che nella loro unica e piccola stanza che condividono con il babbo dormono vicini l’uno all’altro per difendersi dal freddo. Ci accostiamo così a Fidèle che, disteso per terra su una stuoia, mi ringrazia per la visita e mi chiede di fare la confessione. Non si esprime bene in francese e gli domando se preferisce comunque restare solo con me e fare la confessione nella sua lingua. Mi fa capire che con la moglie e i figli non ci sono segreti e che non ha alcuna difficoltà a fare una confessione pubblica. Dopo l’assoluzione e l’unzione dei malati, ci diamo la mano e restiamo in silenzio per un tempo piuttosto prolungato all’interno della stanza, in cui iniziano a filtrare le prime luci del mattino. Si sentono soltanto due rumori: quello del vento all’esterno e quello dei respiri profondi del bambino più piccolo che succhia il latte al seno della mamma, all’interno. Mi viene in mente quel testo molto bello della Bibbia in cui Elia sull’Oreb esce per incontrare il Signore e scopre la sua presenza, non nel vento impetuoso, non nel terremoto o nel fuoco, ma nella voce di un silenzio sottile (1 Re 19,12). Qui a N’Djamena siamo sul limite del deserto e un proverbio arabo dice che nella steppa il vento emette come un gemito: è il deserto che piange perché vorrebbe essere prateria. Il vento per noi, è ancora segno dello Spirito e, nella luce della fede, il Signore ci dona di intravedere la sua azione che trasforma le sofferenze della terra, nelle doglie del parto di un mondo nuovo. Un passaggio dell’enciclica Lumen Fidei mi ha fatto molto riflettere in tal senso. Dice papa Francesco: “La luce della fede non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo. Per quanti uomini e donne di fede i sofferenti sono stati mediatori di luce! Così per san Francesco d’Assisi il lebbroso, o per la Beata Madre Teresa di Calcutta i suoi poveri. Hanno capito il mistero che c’è in loro. Avvicinandosi ad essi non hanno certo cancellato tutte le loro sofferenze, né hanno potuto spiegare ogni male. La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino. All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (n. 57). Qualche giorno dopo la nostra visita, Fidèle è morto e la storia di bene che si è unita a quella della sua sofferenza si è resa visibile ancora nell’attenzione da parte dei membri della comunità di base per l’organizzazione del suo funerale. Con i soldi della loro colletta hanno potuto sostenere le spese della famiglia per le esequie e si sono impegnati anche a aiutare la moglie e i figli per il pagamento di due mesi d’affitto della loro casa.
All’inizio di gennaio ho cominciato il sabato mattina a celebrare la Messa nel carcere di Am-sinéné, che si trova nella zona nord della città. Fino all’anno scorso, il servizio liturgico era assicurato dai padri comboniani, ma dopo l’apertura di una nuova comunità nell’est del Ciad, i religiosi di N’Djamena sono rimasti pochi e le due suore impegnate nella pastorale della prigione, mi hanno chiesto se potevo dare loro una mano. Ho accettato volentieri il loro invito, sapendo soprattutto di poter contare sul loro aiuto. Le due suore, una ciadiana e una spagnola, sono molto in gamba, due donne con grandissime capacità di adattamento alle situazioni difficili e con tanta voglia di annunciare il Vangelo. Entrare nella loro equipe era un po’ come poter giocare nella stessa squadra insieme a Cristiano Ronaldo e Messi. Ho pensato che in questa situazione fortunata, anche un semi-professionista alla Riganò come me, poteva fare qualcosa di buono. L’impatto con la prigione, all’inizio in effetti, è un po’ duro. Quando si entra, ci si trova dentro una grande corte con pochissimi spazi coperti dal sole, dove i prigionieri sono obbligati a passare gran parte della giornata. Dal tramonto fino al mattino vengono rinchiusi, a gruppi di 70-80 persone, in delle celle di quattro metri per quattro nelle quali si dorme distesi per terra, quando va bene. Lo scorso anno, nei mesi più caldi, diversi detenuti sono morti asfissiati. Al centro della corte c’è una pompa a mano per l’acqua che cigola costantemente: i prigionieri, in fila, vengono per riempire i loro secchi e lavare i loro vestiti. Spesso i militari devono intervenire per sedare delle risse che scoppiano quando qualcuno fa il prepotente e pretende di passare avanti a un altro. Wc e docce sono pieni di mosche e insetti e anche gli spazi un po’ più distanti da essi presentano molti problemi igienici. Per mangiare i detenuti devono contare sull’aiuto delle loro famiglie e dei loro parenti che vengono a visitarli. Sia che portino loro del cibo già preparato a casa, sia che offrano dei soldi per comprare quello che viene cucinato alla prigione, c’è da mettere in conto il pagamento di una “tassa” per i soldati che stanno davanti alla porta principale. Per la preghiera ci sono due luoghi: una moschea realizzata come un grande tendone per i musulmani e un capannone per i cristiani. Secondo gli accordi che sono stati firmati dalle autorità dello stato e i rappresentanti ufficiali delle confessioni cristiane, il giorno di culto per i cattolici è il sabato e per i protestanti la domenica. Quello che è bello è che tutti i prigionieri cristiani partecipano alla preghiera sia il sabato che la domenica, indipendentemente dalla loro appartenenza confessionale. Così, il sabato mattina celebriamo insieme la messa prefestiva e i protestanti aiutano i cattolici a fare più attenzione al momento della proclamazione della Parola, mentre i cattolici aiutano i protestanti a comprendere meglio la liturgia eucaristica, soprattutto quando si invoca l’intercessione della Vergine Maria e dei santi. Ne esce fuori una Messa molto bella, ben animata con alcuni momenti molto toccanti, come quello della preghiera universale, o dell’azione di grazie dopo la comunione. I partecipanti, liberamente, possono esprimere le loro intenzioni per ringraziare Dio o per chiedere il suo aiuto e il suo perdono. Spesso in questi momenti, assistiamo a delle confessioni pubbliche in cui qualche prigioniero riconosce davanti al Signore il suo peccato e domanda la preghiera dei fratelli, per accogliere la misericordia di Dio nella sua vita. Altri chiedono l’aiuto di Dio per la famiglia che si trova in difficoltà, non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale per l’emarginazione che subisce, a causa del giudizio dei parenti e degli amici su di essa, dopo l’arresto di uno dei suoi membri.
Un altro momento bello della celebrazione è lo scambio di pace, che è accompagnato dal canto “Evenu shalom alechem”. La melodia è diversa da quella che conosciamo noi in Italia, anche se la parole sono abbastanza simili. Il canto è accompagnato dal suono dei tam-tam e si ripete tante volte la frase: “Noi vi annunciamo la pace e l’amore di Gesù”. Talvolta mi sembra di percepire che quell’annuncio sia rivolto proprio a me, invitandomi a riporre la fiducia e la speranza solo nel Signore, che anche nelle situazioni più complicate della vita è capace di far concorrere tutto al bene (Rom 8,28). Conoscendo la storia di qualche detenuto, che ha commesso un piccolo reato ed è obbligato a subire una condanna molto ingiusta, mi stupisce vederlo cantare e danzare pieno di gioia al momento dello scambio di pace. Mi viene in mente allora quella pagina degli Atti degli Apostoli in cui si parla di Paolo e Sila in carcere a Filippi che pregano e cantano inni e del terremoto che provoca l’apertura delle porte e la rottura delle catene (At 16,25-26). Mi sembra allora di percepire qualche piccola incrinatura sulle mura di Am-sinéné, e la voglia di annunciare il Vangelo con maggior coerenza diventa più forte, perché mi rendo meglio conto che un mondo senza prigioni non è un’utopia. E tutti possiamo fare qualcosa per affrettare la venuta di questo giorno.
Vi auguro buona Pasqua e anch’io vorrei annunciare a ognuno di voi la pace di Gesù. Nel rinnovare le nostre promesse battesimali la notte di Pasqua, potremo re-indossare idealmente la veste bianca. Non dimentichiamo che la veste si mantiene candida lavandola nel sangue dell’agnello, cioè sporcandosi le mani. Uno slogan molto bello del Sermig di Torino dice: “Io ci sto, ci metto la faccia, ci metto la testa, ci metto il mio cuore”. È proprio allora, quando ci giochiamo veramente in qualsiasi luogo, che possiamo capire meglio che Gesù, dopo aver ricevuto ogni potere in cielo e in terra, è davvero con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo.
Un abbraccio forte. Con affetto, d. Gherardo
P.S. Un gruppo di famiglie e di amici, legati alla parrocchia di Santo Stefano a Paterno, si sta impegnando per la realizzazione di due nuove classi della nostra scuola parrocchiale. A nome delle famiglie e degli insegnanti, un sincero ringraziamento per questo gesto di attenzione e di amicizia. Poter offrire a un numero più grande di bambini, la possibilità di una buona istruzione alla scuola elementare, significa mettere delle basi importanti per lo sviluppo del paese.
Grazie anche al coro Gospel di Marco Nannicini e agli amici dell’Immacolata a Montughi. Con il loro prezioso aiuto stiamo preparando una cappella in parrocchia che servirà per la Messa dei bambini.