Il ritorno delle caravelle. Dagli altri continenti ricchezza e novità evangelica.
Corso di formazione alla Mondialità e Missionarietà
10 maggio 1997
IL RITORNO DELLE CARAVELLE
Dagli altri continenti ricchezza e novità evangelica
attraverso la presenza di tanti fratelli immigrati
don Thomas Udie (NIGERIA)
Angela de Jesus (BRASILE)
Martino Kim (COREA)
DON THOMAS UDIE (Nigeria)
Introduzione
Prima di tutto vi ringrazio dell’invito a questo incontro. E’ un’occasione per condividere con voi certi punti, certe esperienze della vita africana che possono servire da ponte fra l’Africa e l’Europa e il resto del mondo.
Come punto di partenza, direi subito che per quanto riguarda questo tema, il trattamento di questi valori, cioè, i valori umani, spirituali e culturali, sarà fatto alla luce del loro insieme proprio perché sono considerati generalmente così da noi africani.
In Africa, la vita è considerata il più grande dono di Dio. Ecco perché la vita è una celebrazione. Questo fatto si sente anche attraverso i saluti quando ci incontriamo in qualsiasi luogo, o in qualunque ora: al mattino, al pomeriggio, alla sera, alla notte, ecc. I saluti vanno al di là di un “Ciao”. Fa parte di un saluto porre delle domande chiedendo come stanno i parenti, gli affari, i progetti e così via. Non c’è fretta negli scambi di saluti.
Il detto, “nessuno è un’isola” ha un senso profondo in Africa. Nei villaggi, i contadini lavorano insieme, si aiutano gli uni gli altri. In famiglia, i figli mangiano normalmente dal piatto comune e i genitori (marito e moglie) mangiano insieme. Il vincolo umano è veramente forte. Così che in Africa si dice, con le parole di John Mbiti, un autore famosissimo: “I am because we are. And because we are, therefore I am”. (“Io sono perché noi siamo. E perché noi siamo, io sono”). Dunque nel bene come nel male, si vive insieme. La vita comunitaria, diciamo così, viene molte volte celebrata con la “kola”. Si dice che “chi ci porta la kola, ci porta la vita” cioè, ci porta gioia, salute, e ci augura ogni bene! In pace, la kola simboleggia l’amicizia. E per risolvere un problema in famiglia, per esempio dopo un litigio fra moglie e marito, la kola significa la fine definitiva di quella vendetta!
In Africa, c’è rispetto per i genitori, i superiori, per gli anziani da parte dei figli e dei più giovani. Questo rispetto viene manifestato nel fatto che un giovane non li chiama con i loro nomi ma per titoli: per es. mamma, babbo, maestro/a, dottore/ssa e così via. Anche la moglie chiama suo marito per es. “il papà di Maria” per rispetto.
E quando i figli mangiano, se ci sono tanti pezzi di carne, sempre per rispetto, il più grande è degno di essere il primo a scegliere il suo pezzo, poi lo seguono gli altri più giovani secondo la loro età! I genitori vengono ascoltati per il loro merito, come genitori, quando danno dei consigli o correggono i propri figli. E dopo la loro pensione non li mandano nelle case per gli anziani!
In chiesa, cioè, in ambiente ecclesiale, il popolo di Dio onora i sacerdoti e i Vescovi come rappresentanti di Gesù Cristo sulla terra. Un sacerdote è visto nel suo aspetto sacro, grazie al sacramento dell’ordine. La gente fa di tutto per mostrare il rispetto al proprio sacerdote. La parola del sacerdote è parola di Cristo al suo popolo. Nella comunità il sacerdote è un babbo, un padre spirituale, cioè la luce che illumina la giusta strada della santità, della giustizia, della pace e tutto quanto riguarda il pellegrinaggio verso il cielo. Il parroco normalmente non fa nessun orario rigido. Dovrebbe essere sempre disponibile per la gente, giorno e notte.
Parlando ai sacerdoti durante il suo viaggio apostolico in Nigeria nell’anno 1982, il Santo Padre, Giovanni Paolo II diceva: “So bene che tanti di voi sacerdoti nigeriani hanno più o meno 10.000 anime da curare, a volte con 15 stazioni filiali della parrocchia addosso. Poi tanti di voi celebrano 2 o 3 S. Messe in luoghi così distanti ogni domenica. Voi insegnate la dottrina della chiesa cattolica e date la benedizione eucaristica. La gente corre da voi per il sacramento della riconciliazione e voi li ascoltate con tanta pazienza e fate il vostro ministero sacerdotale con zelo e amore di Cristo (cfr. pubblicazione di Ioannes Paulus II: “I am particulary happy” negli Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1, 1982, p. 401 per il testo completo in Inglese. “I understand well that most of you are grossly overworked. Some of you parish Priests have ten thousand Catholics to serve; some of you may have even many more. There may even be fifteen outstations to one Priest. Most of you celebrate two or three Masses every Sunday in distant places, teach Christian doctrine, and give Eucharistic Benediction. Your people flock to the Sacrament of Reconciliation, and patiently and livingly discharge this ministry …”)
C’è da aggiungere subito che l’esperienze insegnano che “ per un armonico sviluppo della vita ecclesiale nella comunione, è necessario il riconoscimento della diversa natura del Sacerdozio Comune e del Sacerdozio Ministeriale, quindi rispettare la diversità di funzioni, precisata anche nelle norme canoniche, tra i sacri ministri e i fedeli laici, evitando sia la “clericalizzazione dei laici che la secolarizzazione dei chierici” come è stato detto tra l’altro durante un Simposio internazionale sul diritto canonico a Roma, dal 19 al 24 aprile 1993. Direi sicuramente che in Africa, in generale, c’è questa distinzione in una maniera chiara, dunque non c’è confusione nel ruolo da giocare né da parte dei sacerdoti né da parte del popolo di Dio.
C’è poi da dire che nella cultura africana, c’è un profondo senso religioso. La vita è sacra perché è un dono di Dio. Si celebra il suo inizio alla nascita di un bimbo/una bimba e anche la sua fine terrena perché si crede nell’aldilà! Per questo, il suicidio è visto come un tabù! E proprio perché la vita è sacra, la donna che è la sua portatrice in questo mondo deve vestirsi bene.
L’ospitalità è un aspetto speciale nella cultura africana. L’ospite è sacro. Se arriva un ospite, anche senza nessun invito, si fa sentire a casa propria. E la carità verso i bisognosi non ha ora!
C’è da notare a questo punto che questa breve esposizione giova a farvi avere alcune idee dei valori cari agli africani in particolare, senza fare nessun giudizio morale! E come sappiamo bene, ogni cultura deve essere informata dalla cultura di Cristo così che uno può dire, con le parole di S. Paolo “non sono più io che vivo, ma Cristo (che) vive in me”. (Gal 2,20).
Mi fermo qui in attesa delle vostre reazioni. Grazie tante!
ANGELA DE JESUS (Brasile)
Partendo dalla mia esperienza, piccola, ma vissuta nel concreto, come battezzata e come religiosa, voglio condividere con voi attraverso poche parole, come è nostro costume in Brasile e anche nell’America Latina ciò che gratuitamente ho ricevuto.
Cercherò di rilevare due punti fondamentali cioè i due valori che fanno parte della nostra vita e ai quali non sempre pensiamo.
I valori umani e i valori spirituali.
Nelle nostre comunità uno dei valori ancora oggi molto importante è l’amicizia.
Nonostante noi veniamo da un sistema di “oppressione”, le persone riescono ad amarsi senza paura l’una dell’altra e questo amare si apre all’ospitalità.
Noi non abbiamo paura di abbracciare, di toccare, di creare con un’altra persona un legame di amicizia e di comunione fraterna.
Partendo da questi valori nasce la comunione come dono di Dio: Io non sono nulla , sono povero, ma quello che ho non è mio è nostro.
Per es.: se arriva qualcuno in casa nostra, non vogliamo che vada via senza aver mangiato qualcosa e lo invitiamo per il pranzo o la cena.
C’è un proverbio da noi che dice: “Aggiungi acqua nei fagioli perché è arrivato uno in più”.
Non ci sentiamo scomodati nell’accogliere l’altro. E il nostro invito per sedersi a tavola per mangiare insieme ci ricorda che anche Gesù invitò i suoi amici a sedersi a tavola. E fu lì che tutto cominciò, fu lì che gli uomini cominciarono a capire che qualcosa di nuovo stava nascendo.
Di fatto invitare qualcuno per sedersi con noi a tavola è segno di intimità, di familiarità.
Altro valore: la disponibilità. Se non abbiamo paura di accogliere l’altro, di donare ciò che abbiamo è perché esiste un’apertura interiore molto grande, una libertà che ci porta a essere disponibili a condividere la propria vita con l’altro, condividere i momenti belli, come i momenti di sofferenza e di dolore.
Per es.: la persona con facilità parla della propria gioia ma anche delle difficoltà per cui non ci sentiamo a disagio ad aiutare l’altro con parole, ma anche a prestargli un servizio quando ne avesse bisogno come pulire la casa, portargli da mangiare, fargli il bagno ecc.
Grazie a Dio in una realtà di sofferenza per causa di un sistema di oppressione esiste comunione tra le famiglie brasiliane.
In questo quadro di sofferenza fa meraviglia il volto delle persone che incontriamo: volti che esprimono una grande sofferenza, volti che sono espressione di un popolo che sogna, che porta nel proprio cuore la gioia e l’espressione anche nel far festa in ogni occasione.
La speranza è il fulcro che stimola, che ci fa andare avanti, senza paura, con la certezza che un giorno arriverà qualcosa di nuovo.
Siamo eterni sognatori, ma grazie a Dio, abbiamo imparato a sognare non da soli; perché il sogno che si fa da soli può essere una illusione ma il sogno che si fa insieme porta a realizzare qualcosa, a realizzare il progetto di Dio; uguaglianza, rispetto reciproco, salario giusto, la vita.
Ancora oggi la madre non si limita a mettere al mondo figli, ma li riceve come dono di Dio.
Ed è una gioia passare per la strada e vedere i bambini vicino alla propria casa che, anche se non ti conoscono, ti salutano.
Partendo dall’amicizia, dalla comunione, dalla disponibilità, dalla forza, dalla speranza, dal valore della vita si passa a un aspetto molto importante nella vita dell’uomo: l’aspetto comunitario, lo stare insieme, ciò che forma l’uomo meno individualista, più aperto all’altro, al nuovo, a ciò che ancora è sconosciuto; dentro ciascuno nasce la convinzione che l’uomo non è un’isola, che non vive in un mondo separato, lontano da tutto e da tutti e che non ha paura del confronto con il suo prossimo.
La CEB – Comunità ecclesiale di base – è formata da famiglie, adulti e giovani, in stretto rapporto tra di loro. Come Chiesa e comunità di fede, speranza e carità, si celebra la Parola di Dio e ci si nutre dell’Eucaristia, parte culminante degli altri sacramenti. Si concretizza la Parola di Dio nella vita mediante la solidarietà e l’impegno nel comandamento nuovo che Gesù ha lasciato.
E’ formata da pochi membri, per questo è come la cellula di una grande comunità.
Noi consacrati, uniti ai laici in piccoli o grandi gruppi abbiamo una sola finalità: fermentare l’adesione a Cristo cercando di vivere in serenità e testimoniare il suo Vangelo essendo presenti nelle difficoltà.
Fermentare l’adesione a Cristo cercando di far vivere in serenità maggiore il suo popolo e facendosi guida che orienta e dà sicurezza a coloro che in un modo o nell’altro assumono una responsabilità.
La Chiesa non fa distinzione delle diverse classi sociali a cui appartengono i suoi membri, ma sente la necessità di essere presente in qualsiasi campo sociale, perché il cristiano deve evangelizzare la totalità dell’esistenza umana e per questo non può separare la fede dalla vita.
DON MARTINO KIM (Corea)
Il primo incontro tra il cattolicesimo e la società coreana
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Il primo incontro tra il Cattolicesimo e la società coreana risale all’inizio del 17° secolo. Dall’inizio del 17° secolo alcuni intellettuali confuciani coreani poterono conoscere la cultura cattolica per mezzo di libri cattolici scritti in cinese. Essi si avvicinarono al Cattolicesimo per conoscere la scienza occidentale, ma con lo studio profondo tra essi germogliò la fede cattolica. La chiesa cattolica coreana dunque, a differenza di altre chiese locali fondate dai missionari stranieri, fu formata spontaneamente da un certo gruppo erudito confuciano alla ricerca della verità eterna. Essi si chiamavano Lee Seung-hoon (mandato in Cina e battezzato per primo con il nome battesimale di “Pietro” nell’anno 1784), Lee Byok, Chong Yak-geon, Chong Yak-Jang ecc., ed appartenevano alla scuola di Seong-hoo dove continuavano a studiare più profondamente la scienza occidentale e l’idea del Cristianesimo, per mezzo dei libri cattolici venuti dalla Cina, mentre riconoscendo la limitatezza del Confucianesimo, che dominava tutta la società coreana in quel periodo, si concentrarono sull’idea confuciana primitiva.
Essi, malgrado non fossero ancora battezzati, avevano tradotto e scritto alcuni libri cattolici, fin dall’inizio delle riunioni dedite allo studio della scienza occidentale, per comunicare ad altri coreani la parola di Dio con un modo più facile e adatto, usando alcune correlatività strette tra l’idea cristiana e quella confuciana primitiva.
Grazie a questi sforzi, molti libri cattolici furono diffusi rapidamente, perfino in campagna. Per esempio, l’elenco dei libri cattolici confiscati e bruciati dal governo nel 1801 durante la persecuzione di Shin-hae, dimostra molto bene l’attività dedita alla traduzione e copiatura a mano dei libri cattolici. Secondo questo elenco, c’erano 78 esemplari di 37 libri scritti in cinese e 128 esemplari di 86 libri scritti in Hangul (alfabeto coreano). La maggior parte di questi libri trattava il dovere fondamentale della fede e della spiritualità.
2. |
Dopo la fondazione della prima comunità cristiana coreana mentre gli intellettuali traducevano vari tipi di libri cattolici in coreano, alcuni scrissero vari libri per esprimere la fede cattolica più adeguatamente alla mentalità religiosa coreana, soprattutto i catechismi adatti al loro ambiente socio-culturale per diffondere la dottrina cattolica.
Gli autori non ancora battezzati della primitiva comunità cristiana coreana per mezzo dello scrivere di catechismi, confessarono che Chanji, Shinmyung (Dio del Cielo e sulla terra), Jomoal Ju (creatore) e Shangge (Sovrano nell’Alto) così chiamati già tanti anni fa dal popolo coreano per designare l’Essere supremo, erano lo stesso Dio del Cristianesimo. Nello stesso tempo, essi proclamarono l’adorazione di Dio come primo dovere degli uomini, perché Egli era il Padre benevolo e unico Dio nel cielo.
Attraverso questi sforzi, essi volevano esprimere la fede cattolica in conformità con la mentalità religiosa coreana affinché la fede cattolica potesse infiltrarsi nel cuore del popolo coreano con naturalezza.
(cfr. Atti 17, 22-24 Il discorso di S. Paolo ad Atene)
Ora vorrei presentarvi uno di questi sforzi, come un buon esempio dell’inculturazione della fede per quanto riguarda l’espressione adatta alla mentalità coreana.
* Lee Byok (1784-1786), uno degli importanti iniziatori della primitiva comunità cristiana coreana, compose in coreano il Chanju Goggyung Ga (Inno d’adorazione di Dio), una poesia apologetica (di 66 versi), nel dicembre 1779.
a) Analisi del contenuto
Questo inno si può dividere in otto sezioni secondo il suo contenuto.
Nella prima sezione, Egli cominciava a chiamare tutti per comunicare la Buona Novella:
“Ecco, amici miei, a voi tutti nel mondo,
Ascoltate un momento le mie parole”:
Poi richiamava la loro attenzione per comprendere giustamente il Cattolicesimo, poiché a quel tempo molti lo attaccavano a causa di malintesi. Egli tentava di rispondere alle varie critiche sfavorevoli sulla dottrina cristiana ad una ad una.
Nella seconda sezione, provava l’esistenza di Dio, Chonju:
“Come padre in seno alla famiglia, così nel regno c’è il re.
Come nel nostro corpo c’è l’anima, così nel Cielo esiste Chonju.”
Sebbene fosse una breve espressione, era molto persuasiva per i lettori perché a quel tempo la maggior parte dei fedeli erano le donne e la classe plebea.
Molti confuciani ritenevano che il cattolicesimo sfidasse l’autorità reale e rifiutasse il dovere della pietà filiale.
Lee Byok diceva però nella terza sezione che era importante mantenere la pietà filiale e la fedeltà al re.
Tuttavia sottolineava che l’adorazione di Dio era primaria.
“Rispettate i vostri genitori, servite il vostro re. Osservate Samgang Ohryun [Virtù cardinali]
Ma l’adorazione di Chanju è la prima”.
Samgang Ohryun (virtù cardinali) sono le cinque virtù cardinali, vale a dire cinque fondamentali rapporti secondo il confucianesimo, cioè:
- (prima virtù) la fedeltà fra il sovrano e i soggetti, cioè tra il sovrano e i sudditi deve sempre regnare la giustizia;
- (seconda virtù) la familiarità fra i genitori e i figli, perciò essi devono amarsi reciprocamente;
- il rispetto fra l’uomo e la donna, cioè ambedue devono rispettare i doveri che gli usi e i costumi impongono;
- l’ordine fra il maggiore e il minore, cioè i più giovani devono mostrare rispetto verso i più anziani;
- (l’ultima) l’amicizia fra gli amici, quindi gli amici devono essere tra loro leali.
Così dicendo l’adorazione di Chonju [Signore del Cielo], Creatore di tutte le cose, Padre nostro, occupava il primo posto rispetto a tutte le pietà filiali. Continuava:
“Chonju è Padre di tutti, gli uomini, gli animali e le piante.
Se si conosce la pietà filiale per i genitori, può essere conosciuta l’adorazione di Chonju”.
Nella quarta sezione, egli cantava l’immortalità dell’anima. I confuciani però la rinnegavano severamente ed insistevano che i riti degli antenati fossero sorti dalla pietà filiale. Perciò la dottrina dell’immortalità dell’anima era considerata come un elemento eretico contro la società tradizionale coreana. Ma, Lee Byok proclamava con convinzione:
“La mia anima durerà in eterno
nonostante la morte del mio corpo.
Mortalità umana, l’adorazione di Chonju e l’immortalità dell’anima,
se non lo sapete, siete come un essere inanimato come la pietra e il legno.
E dopo la morte, vi troverete nell’inferno”.
Egli sollecitava i fedeli perché rinunciassero alle superstizioni, nella quinta sezione:
“Non adorate più le superstizioni,
sapendo l’esistenza di Chonju.
Se non smettete gli atti superstiziosi,
man mano accumulerete i peccati”.
Con questa espressione, si può supporre che a quel tempo il problema degli atti di superstizioni fosse molto serio.
La sesta sezione era una risposta dialettica sull’esistenza di Dio:
Voi, che subite, il timore, dopo aver peccato
non insistete sull’assenza di Chonju.
Com’è nato il figlio senza il Padre?
c’è un’ombra senza la luce?
Se non vedete il viso del re,
non siete forse il popolo del suo regno?
Così, Lee Byok continuava dicendo che sebbene non potessimo vedere Dio realmente, ciò non significava l’assenza di Dio. Infatti a quel tempo quanti avevano visto il volto del re? Sebbene nessuno lo avesse visto, nessuno affermava l’assenza del re. Perciò questa espressione era più adatta alla gente non istruita.
Egli dava anche come una risposta dialettica sulla teoria del paradiso e dell’inferno nella settima sezione:
Voi, non discutete,
chi è andato nel paradiso o nell’inferno?
Il saggio che ignora l’esistenza del paradiso,
come conosce l’assenza del paradiso?
Infatti a quel tempo molti confuciani criticavano severamente anche la dottrina del paradiso e dell’inferno.
L’ottava sezione era la conclusione per tutte le dispute trattate fino alla settima sezione .
Discutere sulla fede, secondo lui, era inutile e vano, perché la fede non era una cosa da discutere, ma da conoscere. Quindi egli concludeva come segue:
Non impedite l’adorazione di Chonju.
Se credendo in Chonju, Lo incontrate
vi darà la gloria eterna ed infinita.
Questo inno, sebbene molto breve, era il primo catechismo scritto in coreano. Lee Byok, l’iniziatore della comunità cristiana in Corea, fece conoscere direttamente la fede e l’idea cristiana al popolo coreano.
Soprattutto questo inno fu composto prima del battesimo di Lee Seung-haon, uno di loro, mandato a Pechino in Cina nell’anno 1784.
Perciò questo inno è un’opera preziosa con cui si può sapere quanto fossero penetrate la fede cattolica e l’idea occidentale, in coloro che studiarono la scienza occidentale e nella struttura sociale tradizionale coreana, prima dell’entrata dei missionari.
3. |
Ora continuiamo a parlare della storia della chiesa coreana.
Nel 18° secolo, quando fu fondata la prima comunità cristiana in Corea, la società coreana veniva turbata dai vari cambiamenti e l’idea confuciana stava crollando come ideologia dominante della società. Infatti a quel tempo molte persone che soffrivano per l’ordine sociale, aspettavano la nuova idea e il nuovo sostegno dello spirito.
Su questo sfondo poteva progredire l’incontro tra il cattolicesimo e la cultura coreana come livello di accettazione della fede. Naturalmente prima il cattolicesimo fu accettato, non solo per semplici motivi religiosi, ma anche per quelli di rinnovare la società.
Cioè il cattolicesimo poté diffondersi più rapidamente in tutto il paese, malgrado le persecuzioni continue, poiché presentava l’idea dell’uguaglianza umana, e trattava anche le persone umili come fratelli, cosa che nessuno aveva mai immaginato prima.
La chiesa cattolica influenzò decisamente il risveglio e la scoperta della coscienza e della personalità umana per i coreani, perché aveva sottolineato la dignità umana e soprattutto dei bambini e delle donne con la proclamazione della Parola di Dio.
Poi contribuì notevolmente alla formazione della cultura popolare di Hangul (alfabeto coreano), diffondendolo tra coloro che non sapevano leggere i libri e scrivere.
La prima comunità cristiana in Corea, fondata prima dell’arrivo dei missionari francesi, durava più o meno da mezzo secolo.
4. |
L’arrivo dei missionari francesi.
Con l’erezione del Vicariato Apostolico di Corea nel 1831, giunsero in Corea i missionari della Società delle Missioni Estere di Parigi, e da questo momento in poi la chiesa cattolica in Corea, sebbene fossero intensificate le persecuzioni, poté svolgere l’attività missionaria più sistematicamente, dedicandosi con zelo apostolico alla formazione dei sacerdoti coreani e all’attività dell’assistenza sociale.
Finalmente nel 1899 fu ottenuta la libertà religiosa e in quel periodo subentrò il protestantesimo dagli Stati Uniti.
Intanto, nel processo dell’evangelizzazione in Corea, si presentarono molti fenomeni negativi, per esempio, una religiosità individualista, l’inclinazione per la cultura occidentale senza obiettività, la tendenza all’indifferenza verso la realtà sociale, cioè la tendenza troppo incline alla vita ultraterrena. Per questa tendenza la chiesa cattolica in Corea diventò come un ghetto sociale, ritirandosi sempre più dai problemi sociali e della realtà coreana.
Inoltre durante il periodo coloniale del Giappone (dal 1910 fino a 1946, per 36 anni) la chiesa cattolica non aveva risposto bene alle richieste del popolo coreano, in quanto non voleva essere coinvolta nella difficile situazione politica, viceversa voleva mantenere la libertà religiosa ottenuta dopo grandi sacrifici. Naturalmente la chiesa cattolica non era mai cooperante alla politica coloniale del Giappone, ma era solo
passiva di fronte alla realtà coreana.
Questo risultato era dovuto non solo ai missionari francesi, ma anche all’epoca, in cui dominava la teologia del Concilio di Trento. Perciò il compito della chiesa cattolica in Corea, la gente stava pian piano allontanandosi dal cuore del popolo coreano, sarà svolto nei tempi moderni, cioè dopo il Concilio Vaticano II.
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Dopo il Concilio Vaticano II
Dopo il Concilio Vaticano II la chiesa cattolica in Corea ha avuto una svolta decisiva. Ogni anno è aumentato costantemente circa il 10% dei fedeli e la chiesa cattolica è riconosciuta da molti coreani come la protettrice della dignità umana.
Dagli anni ‘70 e ‘80 andava cambiandosi il concetto della vita cristiana, e molti cattolici coreani apprendevano che le attività ecclesiali, per realizzare la giustizia sociale e proteggere i diritti umani, erano anche le componenti della vita cristiana.
Per esempio a partire dagli anni ‘70, sotto la dittatura militare, molti cristiani, sia cattolici che protestanti, s’impegnavano nella lotta per la giustizia sociale e la realizzazione della democrazia.
Infine se mi domandassero, nella chiesa cattolica d’oggi, in Corea, quale problema è più grosso, personalmente risponderei così: soprattutto l’abbondanza di denaro della Chiesa e l’aumento dei fedeli non praticanti.
Ora, la chiesa cattolica in Corea davanti a questi problemi deve rinascere, riflettendo sinceramente sulle direzioni e sui metodi dell’attività missionaria, da ciò emerge urgentemente la necessità di una nuova evangelizzazione.
(Testo non rivisto dai relatori)