Don Luca Carnasciali
Testimonianza di don Luca Carnasciali
Camerun
2006 – 2008
Sono stato ordinato prete nell’aprile 2006 e inviato in missione, nell’agosto dello stesso anno. Credo perciò di essere uno dei pochi presbiteri ad essere partito soltanto dopo quattro mesi dall’ordinazione. Ma per capire bene le motivazioni personali e diocesane che hanno portato a questa scelta, che è stata una risposta alla chiamata di Dio attraverso il vescovo, devo risalire un momento a qualche anno addietro.
Ho sempre sentito forte in me la vocazione alla Missione Ad Gentes. Lo prova il fatto, tra l’altro, che da più di dieci anni ho fatto viaggi missionari di conoscenza in varie parti del mondo: Cile, Brasile, Filippine, Guatemala, India. Specialmente quando ero seminarista cercavo sempre di far fruttare l’estate visitando i nostri missionari nel mondo, e non soltanto i fidei donum fiorentini, visto che sono rimasti ormai veramente pochi. Proprio nel 2002 avevo visitato la nostra missione in Camerun nella Diocesi di Bamenda dove avevo conosciuto don Sergio Merlini e don Marco Nesti.
Nel luglio 2005, a tre mesi dalla mia ordinazione diaconale, quando avevo già in ponte con il rettore di proseguire gli studi teologici a Roma, mi arrivò una email di don Sergio Merlini che, avendo parlato con il vescovo Antonelli, mi proponeva di andare in Camerun l’anno successivo a sostituire don Marco. Lì per lì rimasi sbigottito perché non ero ancora stato ordinato – sapevo che di solito non si parte subito dopo l’ordinazione – e perché avevo altri progetti. Ma dopo aver pregato ed essermi consultato con il mio accompagnatore spirituale sentii che l’idea veniva da Dio che mi proponeva di rivedere i “miei piani” e seguire la strada della missione Ad Gentes.
Il mio arrivo in terra d’Africa, in Camerun, non è stato facile per vari motivi, ma è stato certamente favorito dalle persone e dalla Diocesi locale che mi hanno accolto con molta simpatia e comprensione, nonostante fossero dispiaciuti della partenza di don Marco che ero andato a sostituire. Le difficoltà erano rappresentate dalla lingua (le lingue in realtà, infatti non è bastato il fatto di conoscere già l’inglese), dalla cultura, dall’alimentazione, dai ritmi di vita e via dicendo. Ho cercato di mettermi in situazione di umiltà e di ascolto/osservazione di una realtà così diversa dalla nostra. Ovviamente oltre ai cristiani della parrocchia e ai preti e ai cristiani della Diocesi, mi è stato di fondamentale aiuto la presenza e l’esperienza di don Sergio Merlini. Tutti e due poi eravamo aiutati dalla Convenzione stipulata tra la nostra diocesi di Firenze e quella di Bamenda che metteva nero su bianco gli obiettivi e i tempi di realizzazione degli stessi.. Questo mi ha aiutato nello scegliere le priorità e nel sentire, insieme naturalmente alle profonde relazioni che avevo lasciato a Firenze, la vicinanza e la collaborazione della mia Diocesi.
I valori che ho potuto vivere e imparare nei miei due anni di missione a Bamenda sono stati molteplici, sotto ogni punto di vista: umano, spirituale, pastorale-ecclesiale e socio-culturale.
Sui valori umani ho già fatto cenno poco sopra, l’accoglienza e l’insegnamento che ho ricevuto da ogni persona, circa l’ospitalità, il rispetto sacro per l’ospite che rappresenta in qualche modo la “visita di Dio” nella loro vita, è qualcosa di difficile da esprimere, ma rappresenta una delle strutture portanti di questa società.
Dal punto di vista spirituale, sono stato colpito ed evangelizzato, dalla fede che ho riscontrato. Una fede che si innesta si sulla forte spiritualità che ogni camerunese porta inscritta profondamente nella sua cultura, ma che è anche una fede cristiana genuina, entusiasta, assetata di Dio e, sempre pronta a ripartire nonostante il peccato. Questo, a differenza della nostra cultura, viene chiamato per nome qualunque esso sia, ma non frena i loro slanci missionari, il loro desiderio di conoscere Dio sempre più in profondità. Esiste poi il problema del sincretismo, della magia e della difficoltà a far entrare la novità di Cristo per cambiare alcuni atteggiamenti, come il tribalismo ad esempio, che sono incompatibili con essa. Ma la certezza dell’esistenza incontrovertibile di Dio, il desiderio di pregare in ogni momento della giornata, di qualunque religione o confessione essi siano, compresi i pagani, resta un dato di fatto straordinario che ha segnato la mia vita di prete e di cristiano.
Passando all’aspetto pastorale ed ecclesiale, fin dall’inizio la missione fiorentina a Bamenda si era caratterizzata, attraverso la convenzione di cui sopra, come messa in pratica dell’idea portante di “un nuovo modo di essere chiesa” che, a partire, per l’Africa, da Lumko, si è concretizzata nella creazione di Piccole Comunità Cristiane di Base. Avevo già fatto esperienza di esse nella mia permanenza a Bamenda di due mesi nel 2002, ma dopo 4 anni e vivendo ogni giorno le piccole comunità cristiane come centro dell’attività pastorale, fermo restando la centralità della Messa domenicale, mi sono potuto rendere conto e arricchire del fatto che hanno cambiato davvero l’idea di chiesa e del lavoro pastorale. Lo rendono sicuramente più fecondo, capillare, vicino alle persone, proprio perché parte dalle persone stesse, da dove esse vivono, lavorano, passano la maggior parte della giornata, soffrono, gioiscono, piangono la “scomparsa” dei loro cari o amici (sul significato della morte i contributi degli altri missionari sono già esaustivi).
La Bibbia è al centro della vita della comunità, la fede si incarna in ogni aspetto della vita quotidiana e ogni componente può esprimere se stesso attraverso varie forme realmente ministeriali: nella classica catechesi e nella carità ma anche in forme locali di promozione della giustizia, dell’igiene, della pastorale familiare e così via, in base anche alle esigenze di ogni comunità e realtà. Il tutto poi converge nella Messa Domenicale – generalmente una soltanto, quando è possibile – in cui tutte le comunità, “chiese del vicinato” ritornano ad essere e a sentirsi Chiesa locale, parrocchia.
Riguardo all’aspetto socio-culturale, mi è balzato subito all’occhio l’importanza e il desiderio innato di associazionismo, di fare gruppo che, per quanto riguarda i cristiani, si dovrebbe tradurre anche nella facilità di creare comunità. Talvolta persistono problemi di tribalismo che minano alla base la comunità. Su questo abbiamo puntato molto nella nostra azione pastorale, cercando di purificare questa necessità umana che si acuisce specialmente quando tante persone hanno abbandonato la campagna per andare in città mescolandosi con decine di altre culture e lingue diverse dalle loro. Qualche volta la necessità di associarsi può essere dettata dalla solitudine o dalla noia, in una realtà che offre piuttosto poco dal punto di vista sociale e culturale, ma resta il fatto che in questo modo la collaborazione della società civile al bene comune risulta più proficua.
Per la mia breve esperienza di prete quindi questi aspetti sono stati un’assoluta novità, e un continuo apprendimento e sfida. Le stesse liturgie, vivissime nella loro lunghezza, fatte di danze e canti molteplici e frequenti in ogni parte della celebrazione, sono state veramente azioni di popolo, manifestazioni del mistero di Cristo non solo nel ministro ordinato ma, come dovrebbe sempre essere, in tutti i partecipanti, veramente celebranti l’Eucaristia, come rendimento di grazie, festa della Risurrezione settimanale, centro della settimana e della vita.
Nella nostra attività pastorale poi non sono mancate le iniziative classiche di pastorale giovanile, familiare, degli anziani con la visita mensile per l’Eucaristia e ove necessario per la Riconciliazione e l’assistenza agli innumerevoli gruppi. Per quanto mi ha riguardato in prima persona poi dopo un anno di presa di visione della difficile realtà giovanile, svantaggiata dalla mancanza di speranze umane, in particolare per le condizioni economiche e di lavoro scoraggianti, che li portano a vivere quasi alla giornata e disincantati rispetto al loro futuro, ho proposto, e insieme a loro realizzato, il progetto di rappresentare il musical sulla vita di san Francesco, “Forza Venite Gente”. Ci sono voluti sette mesi per poterlo mettere in scena, ma è stata un’avventura entusiasmante e gravida di frutti anche futuri, se è vero che gli scopi per cui siamo partiti erano di far conoscere e collaborare meglio i diversi gruppi giovanili presenti e poter evangelizzare con uno strumento – la danza e il canto – a loro congeniale, soprattutto i loro coetanei, attraverso la rappresentazione nelle parrocchie, nelle piazze e nei collegi (dove risiedono talvolta anche 1.200 studenti!). Le prime due rappresentazioni, nella nostra parrocchia e in un’altra limitrofa, sono state molto incoraggianti, ma quel che più conta, come anche nelle altre iniziative pastorali intraprese, è che la cosa sta andando avanti con lo stesso entusiasmo, anche senza la nostra presenza fisica.
L’altra realtà che mi occupava in prima persona, ma sempre aiutato e/o sostituito, quando assente, da don Sergio, è stata quella di manager delle nostre due scuole parrocchiali ognuna con la sua scuola d’infanzia e la sua scuola primaria. Il mio compito oltre che amministrativo – ahimè questo aspetto occupava la maggior parte del tempo – era quello di essere il loro referente spirituale, attraverso incontri, catechesi, celebrazioni eucaristiche, visite almeno bisettimanali in ogni scuola.
Sempre in totale collaborazione e unità d’intenti con don Sergio, così come era accaduto con don Marco in precedenza, alla nostra azione pastorale di evangelizzazione, non abbiamo certo fatto mancare le opere di carità materiali. Grazie agli aiuti provenienti dall’Italia da amici e benefattori che generalmente passavano attraverso il Centro Missionario Diocesano, abbiamo provveduto ad aiutare i più bisognosi specialmente nel pagamento delle tasse scolastiche, nelle situazioni gravi di salute per provvedere a pagarsi le cure ospedaliere. Tutto ciò cercando di valutare accuratamente ogni persona che si presentava a chiedere aiuto, grazie in particolare ai ministri della carità delle Piccole Comunità Cristiane, per non creare dipendenze, compiere ingiustizie, cercare di stimolare prima di tutto la collaborazione tra la popolazione prima di intervenire noi dall’alto, e questo sempre con l’obiettivo di affrancare la persona e mai creare dipendenza. In questo sono esemplificativi gli esempi della costruzione della chiesa di Alakuma e della Canonica di Ngomgham per le quali il contributo dei parrocchiani è arrivato ad essere anche del 25-30%!
Un discorso diverso ma non dissimile si è verificato per un grande gruppo di disabili (composto da circa 130 membri) già attivo prima dell’arrivo di don Sergio e don Marco. Abbiamo seguito il gruppo come accompagnatori spirituali e tutors, sia nel portare avanti il loro intento associativo di migliorare le condizioni di vita e la promozione dei loro diritti – in una società dove nessuno si prende carico di loro – sia di stimolare la crescita di ogni membro attraverso la formula dei microcrediti affinché chi presentava un progetto di studio o commerciale plausibile, potesse metterlo in atto in breve tempo. Anche nel loro caso ci sono stati anche aiuti di tipo puramente “assistenziale” come nei casi di ricoveri ospedalieri o di acquisti vari come gli indispensabili mezzi di locomozione.
Prima di concludere mi restano da fare alcune brevi considerazioni su quello che porto con me dal Camerun e sulle difficoltà, le ricchezze e le prospettive che si sono presentate al ritorno in patria. Pur coltivando da anni una visione missionaria di chiesa, l’aver vissuto in una chiesa del Sud del mondo ha dilatato gli spazi e le idee in merito. Intanto si diventa più attenti all’altro, a partire dal povero, dall’ultimo, dal diverso, religiosamente e non soltanto. Si capisce con mano che “missione” Ad Gentes non è portare gli aiuti materiali ma prima di tutto annunciare il Vangelo, il quale poi si testimonia anche le opere di carità materiale. Si acquista uno stile che è quello di andare incontro alle persone, specie i lontani, senza aspettare che siano esse a venire da noi, né accontentarci di custodire il nostro piccolo o grande gregge, ma continuare ad andare “fuori” e “incontro”. Si scopre allora che il lavoro di evangelizzazione non può funzionare se tutto ruota attorno al prete soltanto, ma che sono i laici coloro che possono aprire le porte di tutti i cuori, potendo essi entrare in ogni settore della società, dove gli uomini vivono e si incontrano. Questo tipo di pastorale in cui ogni cristiano è protagonista e realizza appieno il suo carisma battesimale di sacerdote, re e profeta, ha molto da insegnare anche a noi, in Italia e in Europa, dove spesso tendiamo ancora a far calare le cose troppo dall’alto, quando non si ha talvolta l’arroganza di giudicare le chiese giovani e in crescita, trattandole con sufficienza. In questo modo però si rischia di perdere un importante “soffio” dello Spirito Santo e di rischiare di frustrare una chiesa entusiasta e viva, anziché tentare di metterci in discussione e imparare qualcosa a nostra volta.
In estrema sintesi sono queste alcune delle difficoltà che mi sembra di poter intravedere al mio ritorno. Ovviamente essendo stato fuori per poco tempo ed avendo cercato di continuare a rimanere informato sulla situazione italiana e mondiale, i cambiamenti che ho trovato sono minimi, ma resta una qualche amarezza proprio perché talvolta sembra che le chiese di più antica tradizione, pur facendo fatica ad essere profetiche e feconde, anziché aprirsi al nuovo, sembrano snobbarlo aprioristicamente, limitandosi a finanziare progetti di aiuto materiale, senza provare a mettersi in discussione.
Nella brevità dello spazio di questo contributo non è certamente possibile esprimere tutta la ricchezza dell’esperienza che ho fatto. Se è vero che si è trattato di soli due anni, sono stati, tuttavia, anni intensi, difficili ed esigenti, dei quali non smetterò mai di ringraziare il Signore e la Chiesa fiorentina e di Bamenda per avermeli concessi e per avermi arricchito così tanto come uomo e come prete.