Don Alfonso Pacciani
Testimonianza di don Alfonso Pacciani
Brasile
1994 – 2006
Io non conoscevo l’enciclica “fidei donum” ed ero piuttosto contrario ad andare in Missione perché credevo che fosse una fuga, un’avventura per evitare grandi difficoltà della vita cristiana qui in Italia. E così, io avevo parlato anche con qualche sacerdote che era partito per la Missione.
Lo stimolo per andare in Missione mi venne dopo aver ascoltato una lettera appassionata del Card. Lucas Moreira Neves, Arcivescovo di Salvador da Bahia. In questa lettera egli supplicava la Chiesa di Firenze a non abbandonarli. Il Consiglio presbiterale, infatti, era deciso a chiudere la Missione in Brasile, anche se il Cardinale Piovanelli, mi pareva, non ne era pienamente convinto.
Nell’estate successiva il cardinale Piovanelli chiese a tutti i sacerdoti la disponibilità a spostarsi in altre parrocchie o realtà dove ciò fosse necessario. Fu allora che sentii il bisogno di dare la mia disponibilità di recarmi in Brasile. Ci furono varie difficoltà nella Parrocchia di Peretola dove ero parroco, ma il 20 settembre 1993 lasciai la parrocchia per andare a Verona e frequentare un corso di preparazione alla missione in Brasile.
Giunsi in Brasile il 6 gennaio 1994, accompagnato dal Cardinale Piovanelli. Il mio inserimento nella diocesi di Salvador Bahia fu facilitato dalla presenza di don Renzo Rossi col quale abitai per tre anni. Anche il parroco della parrocchia di Nossa Senhora de Guadalupe, Pe. José Carlos, fu molto comprensivo e pieno di attenzione.
Era Arcivescovo di Salvador da Bahia il Card. Lucas Moreira Neves, il quale mi accolse con gioia e con grande paternità.
La parrocchia dove andai a lavorare fu la “Paroquia de Nossa Senhora de Guadalupe”, nella periferia di Salvador da Bahia. Era parroco il sacerdote brasiliano José Carlos ed io divenni coparroco perché don Rossi fu destinato ad accompagnare spiritualmente le comunità della parrocchia. Il territorio parrocchiale era molto grande e popolato di circa 150.000 persone, divise in dieci comunità. Dividemmo la parrocchia in due aree. Io mi interessavo dell’area B, che comprendeva le comunità di Fazenda Grande, Horto Calafate, Bom Jua, Jaqueira, Fonte do Capim, Vila Natal.
L’accoglienza delle gente fu grande, bella, affettuosa, fraterna, gioiosa.
In mezzo a tanta euforia cominciò, però, la mia grande sofferenza: la lingua. Non solo non sapevo dire una parola in portoghese, ma non capivo nulla, nemmeno dalla televisione, dalla quale speravo di imparare qualcosa. Tante volte mi svegliavo la notte e, ricordo bene, sognavo di trovarmi in mezzo all’oceano senza saper nuotare. Quante volte ho combattuto con la tentazione di tornare in Italia.
Nonostante la difficoltà volli cominciare a conoscere i “bairros” e le famiglie che cominciai a visitare. Decisi di dedicare ogni giorno della settimana a ciascuna delle sei comunità che mi erano state affidate; a conclusione di ogni giornata celebravo l’Eucaristia nella comunità e mi ero organizzato in modo che ognuna di esse avesse una messa durante la settimana e quella domenicale.
In comunità scelsi una persona fervorosa, conosciuta e ben stimata che si dedicava alla visita frequente degli ammalati e degli anziani del bairro. La presenza del sacerdote, il Padre, era cosa graditissima e motivo di orgoglio, perciò tutte le famiglie volevano che mi recassi da loro. Entrai anche in tante case di protestanti e di appartenenti ad altre sette che pullulano in Brasile riuscendo a creare anche con loro un buon rapporto di fiducia e stima.
Tutto questo mi aiutò molto a conoscere le famiglie, le loro situazioni e scoprii anche tanti ammalati sconosciuti perché i parenti li tenevano nascosti in quanto si vergognavano di un figlio disabile o cieco. Queste persone venivano relegate nelle stanze più interne, sempre a letto o in terra, nascoste allo sguardo da tende e cortine.
La visita sistematica alle famiglie è stata per me una forma di apostolato particolarmente significativa in Brasile.
Oltre al contatto e alla conoscenza delle persone, mi è sembrata di grande valore la costituzione dei gruppi dei giovani, soprattutto degli “evangelizzatori”.
I laici brasiliani hanno uno slancio e un amore al Signore, alla Chiesa, alla Parola di Dio così forte che volevano subito andare a evangelizzare anche le famiglie che non erano cattoliche.
Si formavano gruppi di evangelizzazione composti da uomini e donne semplici che si preparano per andare settimanalmente in una famiglia per parlare di Gesù. Andavano con semplicità, umiltà e tornavano sempre con tanta gioia.
Quest’impegno così importante aveva bisogno però di una continua formazione permanente. E’ quello che facevamo una volta al mese, preparando insieme con il sacerdote il tema o il messaggio da comunicare alle famiglie. Era necessario anche una buona dose di metodologia per entrare nelle famiglie, creare un clima fraterno e di accettazione.
Un altro valore importante è stato il gruppo di catechisti con i quali abbiamo vissuto insieme facendo un cammino personale e di preparazione catechistica.
Una realtà per me sconosciuta in Italia, era l’accompagnamento settimanale del gruppo “dos casais”, il gruppo di sposi. Con loro, settimanalmente approfondivamo il tema proposto dalla CNBB, cercando di attualizzarlo nella vita concreta e coniugale e famigliare. Facevamo anche giornate di ritiro spirituale di grande giovamento. Erano le persone sulle quali la parrocchia poteva contare di più, sempre disponibili e sempre presenti, come motori a portare avanti tutti i programmo pastorali della parrocchia.
Non è necessario parlare della liturgia. In Brasile la Messa è una festa, una gioia che vorremmo non finisse mai. Canti meravigliosi, partecipazione dei fedeli ai diversi momenti della Messa; gesti simbolici pieni di significato e di insegnamento. A volte poteva apparire un teatro; ma spesso un teatro pieno di contenuto e ben preparato insegna più che molte parole.
Dedicavo, tutti gli anni, il mese intero di settembre ad un aggiornamento biblico e teologico per tutti i parrocchiani.
Ho avuto anche la gioia di accompagnare nel seminario diocesano i giovani aspiranti al sacerdozio nella loro formazione spirituale e anche questo mi è servito per conoscere il cuore dei giovani, la loro ricchezza e anche le motivazioni che li avevano spinti a prepararsi al sacerdozio.
Una delle realtà importanti che bisogna programmare quando ci si reca in missione è l’inculturazione: la capacità di comprendere, accogliere, valorizzare gli usi, i costumi e i valori propri della cultura in cui ci inseriamo. Se ci si dispone a ciò con umiltà ed intelligenza, se si chiedono spiegazioni non si trovano troppe difficoltà. Ho imparato che dobbiamo spogliarci dal pensare che l’Europa e l’Italia siano i luoghi della “civiltà”. Non esiste un’unica civiltà, ma tante culture ricche di valori e proposte che possono contribuire a creare insieme un mondo più “civile”. Racconto a questo proposito un episodio emblematico di cui fui protagonista all’inizio della mia esperienza di missione. Venne a cercare aiuto da me una ragazza che diceva di essere madre di cinque figli. Da buon europeo le domandai se il marito lavorava e se l’aiutava in casa, ma lei rispose: “sono solteira, ragazza madre”. Questa risposta mi irritò e subito giudicai negativamente quella donna. Ebbi però la volontà di chiedere spiegazioni a riguardo alla ragazza che mi faceva lezioni di lingua portoghese che mi spiegò che in Brasile la maggior parte delle ragazze è solteira. Solo col tempo capii come andavano esattamente le cose: gli uomini sono “cacciatori” e le donne si lasciano illudere da false promesse che le fanno passare da esperienza a esperienza e da abbandono ad abbandono. Restano spesso sole con i figli avuti dalle varie relazioni. Perciò andai a cercare quella ragazza della mia parrocchia che si era rivolta a me e da allora non ho cessato di sostenerla con gli aiuti che venivano dalla parrocchia perché potesse sopravvivere insieme ai suoi cinque bambini.
I baiani non amano molto la casa, ma hanno il culto della persona e dell’apparenza. Nelle loro abitazioni si trova molto ordine, ma quando escono fuori di casa sono dei “pennellini”.
Quando finisce l’anno scolastico, tute le scuole vogliono il sacerdote perché celebri la messa o in chiesa o nella scuola stessa. I bambini e i ragazzi portano la divisa (la farda) con il berretto da universitari e i vestiti colorati allo stesso modo, proprio come erano le matricole una volta. Dopo la messa, alla quale partecipano passivamente perché la maggior parte di loro non è stata mai in chiesa, gli alunni e i professori più bravi vengono premiati e si dà inizio alla festa.
Oggi questa festa viene fatta anche da noi, ma non ha la stessa solennità ed importanza che in Brasile, dove la “farda”, la divisa speciale che viene indossata per l’occasione, colpisce molto. Io non riuscivo a capire molto la necessità della messa, che mi sembrava una formalità.
Ma più entravo nella vita della gente più scoprivo che la gioia e l’entusiasmo spesso nascondevano una grande povertà economica e culturale. Per questo nella nostra missione abbiamo privilegiato la promozione umana cercando di interessare alla scuola tutti i bambini poveri della parrocchia. Questi bambini non avevano accesso alle scuole particolari che richiedono una retta: per questo abbiamo costruito scuole con l’aiuto di amici italiani. Grazie al progetto “Agata Smeralda” e il progetto “Opera Fraternità Baiana” di Bologna”, abbiamo dato il via alla possibilità di studio di tanti bambini delle famiglie più povere della parrocchia. Oltre al programma educativo ed ai sussidi scolastici abbiamo offerto loro gratuitamente colazione e pranzo quotidiani.
Le sette moderne protestanti stanno invadendo il Brasile e collocano i loro bei luoghi di culto in ogni agglomerato di abitazioni. Noi cattolici avevamo, invece, in un territorio molto vasto e difficile, soltanto una piccola e brutta chiesa. Grazie all’aiuto della Diocesi di Firenze e di tanti amici, abbiamo costruito una chiesa grande e bella e restaurato quella vecchia per sfruttare gli ambienti per l’attività pastorale.
Sono andato in Brasile come sacerdote per aiutare la Diocesi di Salvador de Bahia, dove vi erano e vi sono ancora pochi sacerdoti; ma è vero che ho trovato più di quanto ho dato. Prima di tutto ho ricevuto la ricchezza dell’affetto, dell’accoglienza e del fervore delle persone. Persone semplici e umili, la cui ricchezza di cuore è stata così grande da non lasciarmi mai in difficoltà. Se avessi avuto più tempo da dedicare all’incontro, alla visita e al colloquio con le persone, credo che avrei fatto molto di più a livello di evangelizzazione e molto più mi sarei arricchito dalla loro sapienza umile e dalla loro mite sofferenza.
Una cosa propria del Brasile – come ho già detto – è la gioia della celebrazione eucaristica. Per loro non esiste una messa semplice: la messa è sempre un momento di gioia, di preghiera fiduciosa, di profondità, di accoglienza del dono di Dio con canti, persone preparate per la lettura, per la processione offertoriale, per la spiegazione di ogni momento liturgico. Mi ha fatto molto bene, inoltre, l’amore grande dei cattolici per la Chiesa. Non ne ho mai sentito parlare male o con atteggiamento di critica: ho sempre osservato amore, obbedienza al Santo Padre, ai vescovi, ai sacerdoti, rispetto per le Suore. Per i brasiliani i sacerdoti e le suore sono persone consacrate che devono essere amate come cose sacre. Nei vescovi ho conosciuto una Chiesa molto vicina al popolo, sempre pronta ad aiutare la gente, a illuminarla sui problemi umani, sociali e spirituali. Anche il rapporto con i vescovi e tra i sacerdoti e suore è molto bello. Una volta alla settimana ci ritrovavamo insieme per la celebrazione della messa e per la programmazione pastorale. Al termine di ogni anno trascorrevamo insieme alcuni giorni per un bilancio del lavoro svolto e per la programmazione di massima dell’anno successivo.
La mia più grande difficoltà nell’esperienza di missione è stata la progressiva e difficilissima conoscenza della lingua, ma i miei amici brasiliani sapevano farmi elogi anche quando pronunciavo frasi zoppicanti.
Il mio ritorno in Italia è stato contrassegnato da difficoltà legate anche a motivi di salute. Sono attualmente parroco a Sant’Ilario a Colombaia e sto cercando di capire come rivitalizzare questa parrocchia tanto vivace e tanto bella nel passato.
Le difficoltà più grandi le ho trovate nella nostra vita sacerdotale e di visione di Chiesa.
Avrei desiderato un clima di maggiore fraternità , aiuto e collaborazione tra noi sacerdoti, soprattutto in questo momento storico in cui percepiamo le difficoltà che incontriamo nella nostra vita pastorale.
Vi sono tra noi varie visioni di Chiesa: predomina, almeno mi sembra, una impegnata soprattutto nel sociale, il che è molto importante, in maniera particolare circa il problema della fame nel mondo, della giustizia sociale, del dolore e delle grandi malattie degli uomini, della guerra e della pace, ma senza diminuire di annunziare quello che è più proprio della Chiesa: la conversione dei cuori, la vita di grazia predicata e vissuta, l’invito costante alla santificazione e alla santità.
Sono convinto che solo se l’uomo cambia, può cambiare il mondo. E’ nel cuore dell’uomo la causa di tutto il bene e di tutto il male del mondo. Anche il cambiamento delle strutture è importante, ma solo se cambiano interiormente le persone e se si lasciano abitare e possedere dallo Spirito Santo.
L’esperienza vissuta in Brasile è stata un dono dello spirito Santo che mi ha aperto ad una visione di Chiesa universale e missionaria, nella quale i sacerdoti si rendono disponibili a recarsi nei luoghi dove più c’è bisogno del loro ministero. Credo che i seminaristi debbano essere educati in questo senso, formati anche alla collaborazione con i laici che, se ben preparati, possono essere di grande aiuto per l’evangelizzazione missionaria del mondo.
Ritengo infine importante che si dia un indirizzo di missionarietà che interessi tutto l’uomo nella sfera umana e sociale e nella visione cristologia ed ecclesiale dell’esistenza.
Tutti ormai abbiamo l’esperienza di ciò che hanno fatto i partiti e le ideologie! Veramente solo il Signore Gesù è il cammino vero ed unico per tutta l’umanità.
A questa mia riflessione è legato anche il contributo che possiamo dare al problema della giustizia e della pace. Queste due realtà non sono staccate dal cristianesimo perché solo nell’unione a Cristo possono essere realizzate in modo autentico e duraturo.
Concludo con le parole del primo discorso di Giovanni Paolo II e che Benedetto XVI costantemente ribadisce e annuncia con forza: “Aprite le porte a Cristo perché solo Cristo è il Salvatore dell’uomo, di tutto l’uomo”.
Don Alfonso Pacciani