Storia di Israele da Abramo ai giorni nostri – Parte 6
6. Le paci, le intifade, le guerre del Libano. Da Begin a Olmert. Le prospettive
(27 gennaio 2009)
Tra gli effetti della guerra del Kippur c’è un’intensificazione di attentati terroristici da parte dell’OLP, così da portare la situazione palestinese all’attenzione del mondo occidentale. Tra questi, i dirottamenti aerei: nel 1976, in particolare, un aereo dell’Air France fu dirottato in Uganda, a Entebbe, dove un commando israeliano, guidato da un giovane ufficiale, Yonathan Netanyahu (fratello maggiore di Benjamin, futuro primo ministro), che morì negli scontri, riuscì in modo mirabolante a liberare gli ostaggi (grazie anche ai rapporti intessuti in passato da Israele con l’Uganda).
Gli anni ’70 vedono una straordinaria elaborazione politica: dopo 20 anni di potere crolla il Mapau, decade il modello askenazita, anche per il cambiamento della demografia israeliana grazie ai massicci arrivi di immigrati dal Medio Oriente e dalla Russia. Nel 1977 si arriva al ribaltamento politico: i nuovi elettori sono il pilastro del successo della destra di Begin (che era stato a capo dell’Irgun e protagonista di grandi battaglie politiche, come quella contro le riparazioni tedesche). Il suo partito era sempre stato emarginato, mentre adesso sorpassa i laburisti. La destra che sale al potere è il Likud, in realtà un partito di centro-destra (alla cui destra ci sono formazioni ancora più radicali), relativamente moderato. Begin smonta lo stato socialista, anche se non immediatamente; in Israele arriva il capitalismo (ingresso dei beni di consumo, eliminazione dei dazi sulle importazioni), sale rapidamente l’inflazione.
A partire dalla fine degli anni ’70 Israele diventa il paese che conosciamo: un paese a tutti gli effetti occidentale, non più puritano ma consumista. Ciò pone gravi problemi a istituzioni come i kibbutz, che letteralmente crollano, non avendo più le massicce sovvenzioni statali di cui godevano in passato grazie al modello socialista e non reggono l’economia di mercato. Il più grande cambiamento tuttavia non avviene grazie a Begin ma grazie al nemico storico di Israele, l’Egitto di Sadat. Sadat, che vuole far entrare l’Egitto nell’orbita occidentale e aprire il paese al turismo e ai commerci, prende l’iniziativa di avviare una trattativa di pace con Israele per chiudere gli strascichi della guerra del Kippur.
Dietro le quinte opera (così come opererà negli accordi di Oslo) il re del Marocco, che ha sempre avuto ottimi rapporti sia con Israele che con gli Stati Uniti. Si arriva a un evento assolutamente straordinario nella storia diplomatica mediorientale: nel novembre 1977 Sadat propone di recarsi a Gerusalemme, lasciando Israele sbalordito (tanto che fino all’ultimo momento nel paese si pensava che questa mossa nascondesse in realtà l’intenzione di compiere un attentato); Sadat va quindi a Gerusalemme, conquistandosi titoli epici sui giornali israeliani (“è arrivato il Faraone”), e addirittura parla alla Knesset su invito di Begin. Porta un’offerta di pace, che rappresenta un evento straordinario: non solo perché è la prima (e per lungo tempo l’ultima) offerta di pace fatta a Israele da uno stato arabo, ma anche perché si sa che senza l’Egitto non si può fare guerra a Israele, quindi con questa offerta si tagliano le gambe anche agli altri avversari.
Si avvia un delicato e complicato processo. Sadat è infatti isolatissimo, non solo rispetto ai palestinesi e agli altri paesi arabi, ma anche internamente, in quanto gli egiziani vedono questa offerta di pace come una svendita del proprio orgoglio nazionalista. Questo processo trova comunque un potente appoggio negli Stati Uniti. Jimmy Carter è personalmente convinto della necessità di instaurare la pace in Terra Santa, e ospita nel 1979 a Camp David Begin e Sadat (che poi otterranno entrambi il Nobel per la pace), che mettono a punto un accordo tra i due propri paesi, anche se Sadat inserisce nel trattato una clausola che recita che questo è in realtà solo un primo passo verso la pace tra Israele e Palestina; non vuole cioè “svendere” i palestinesi. Alla creazione dello stato palestinese non si arriva, anche per l’ostilità stessa dei palestinesi, che non credono in questo accordo; Sadat inoltre è fortemente osteggiato in Egitto, e addirittura l’anno successivo verrà ucciso in un attentato dei fratelli musulmani durante una parata militare trasmessa in televisione; si salvò Mubarak, il suo vice e poi successore. Al funerale di Sadat parteciparono tutti i capi di stato, ma il popolo del Cairo non partecipò, proprio perché l’opinione pubblica non aveva mai amato Sadat, in particolare dopo Camp David.
In ogni caso, si ha un trattato di pace tra Egitto e Israele (anche se fu definita una pace “fredda”), con tanto di scambio di ambasciatori (gli ambasciatori esteri sono tutti a Tel Aviv e non a Gerusalemme, perché non è mai stato accettato lo status di Gerusalemme assunto nel ’67).
Dalla guerra del ’67 fino alla vittoria elettorale di Begin di dieci anni dopo, nel West Bank si hanno pochi insediamenti ebraici: qualche villaggio di soldati, ma non ci sono civili. Ciò perché i laburisti, per varie ragioni, non avevano mai incoraggiato l’espansione verso questi territori. Invece con l’avvento al potere della destra la situazione cambia: la destra pensa al Grande Israele, e quindi fa crescere progressivamente le presenze nei territori occupati (anche se la maggior parte è concentrata intorno a Gerusalemme). Si crea una delle tante situazioni “de facto” che caratterizzano la storia israeliana: ormai questi insediamenti sono così densi che è pressoché impensabile evacuarli. Uno degli episodi principali della colonizzazione del West Bank è l’occupazione di un albergo a Hebron nel 1968 da parte di un gruppo di ultraortodossi: è il germe dell’attuale situazione di Hebron, in cui al centro della città palestinese si ha un nucleo di presenza ebraica e nei dintorni altri ebrei nella cittadina di Kiriat Arba. Nascono gruppi politici molto organizzati, come il “Blocco dei credenti”, un movimento dei coloni.
La situazione giuridica del West Bank è caotica: fino al 1988 è tecnicamente territorio giordano ma amministrato militarmente dagli israeliani; è una zona senza legge: ciò che altrove è reato nel West Bank viene tollerato. Le “situazioni di fatto“ degli avamposti sono illegali ma coperte dall’esercito; gli insediamenti si fanno sempre più numerosi.
Il governo di Begin (1977-1982) è decisionista: deve dimostrare di saper difendere Israele, non solo in casi come quello di Entebbe, ma anche nel rapporto con i potenziali nemici della regione. Nel 1981 Israele compie un famoso raid sul reattore nucleare irakeno (Operazione Babilonia), bombardando quella che avrebbe dovuto diventare la bomba irakena (costruita con l’aiuto francese): la politica estera è quindi molto attiva.
Le incursioni palestinesi dai confini siriano, giordano e libanese in questi anni sono continue; in questo periodo inoltre il Libano è attraversato da una guerra civile in cui vengono coinvolti anche i palestinesi, alleati dei musulmani contro i maroniti. In questa situazione si viene addirittura a creare nel Libano meridionale una specie di stato autonomo palestinese, cosa che porta a continue scaramucce armate con Israele. Nel Libano meridionale nel frattempo si è anche insediata la leadership palestinese (cacciata nel ’68 dalla Giordania con l’episodio detto Settembre Nero).
Nel 1982 il governo di Begin, che già subisce le incursioni palestinesi in Galilea e continui lanci di razzi, dopo un attentato a Londra in cui resta gravemente ferito l’ambasciatore israeliano in Gran Bretagna, lancia un’operazione chiamata “Pace in Galilea” (guerra del Libano). Il nome è fuorviante, perché in realtà il vero problema non è la Galilea ma il West Bank, dove si costruiscono numerosi insediamenti: per assicurare la colonizzazione del West Bank bisogna neutralizzare i palestinesi del nord; ponendo fine agli attacchi a nord ci si garantisce mano libera a est. Con questa guerra Israele intende “pulire” una fascia di diversi chilometri al confine settentrionale. In realtà però la zona non viene ripulita in modo omogeneo bensì con un disegno “a forcella”. Begin aveva lanciato la cosiddetta operazione “Piccoli Cedri”, ovvero aveva intenzione di intervenire su una fascia di confine profonda una ventina di chilometri; il generale Ariel Sharon, invece, avvia autonomamente (senza avvertire il governo) l’operazione “Grandi Cedri”, cioè la ripulitura di un territorio profondo quaranta chilometri, arrivando praticamente a Beirut. Quindi gli israeliani occupano tutto il sud del Libano fino alla capitale; la guerra è durissima e vi finiscono coinvolti tutti, e soprattutto si arriva alla strage di Shabra e Shatila, i campi profughi dei palestinesi: strage che fu compiuta tecnicamente dai drusi, ma gli israeliani non solo ne erano al corrente, ma anche per un paio di notti illuminarono a giorno le aree per consentire ai drusi di operare senza difficoltà (non spararono, ma lasciarono fare e collaborarono). Fu un episodio terribile anche all’interno di Israele: a Tel Aviv andarono in piazza alcune centinaia di migliaia di persone per protestare; nacque il movimento pacifista “Pace adesso”, Sharon fu messo sotto inchiesta e condannato a non ricoprire più cariche pubbliche.
Le complicazioni politiche e giudiziarie di questa guerra furono enormi. Uscì di scena il primo ministro Begin, che nel gennaio 1983 dette le dimissioni. Begin, che aveva fortemente creduto in un paese unito, si trovò davanti una terribile spaccatura, creata non solo per colpa di Sharon: c’erano state anche grandi manifestazioni pacifiste con scontri (in una di esse un giovane rimase ucciso), e quindi si manifestava lo spettro di una società profondamente divisa al proprio interno, con addirittura la prospettiva di ebrei che arrivavano a uccidere altri ebrei. Begin si ritirò in un kibbutz, dove visse per altri 10 anni in assoluto silenzio. Il suo successore fu Ytzak Shamir, che era stato ministro nel governo Begin ed aveva guidato la Banda Stern, una formazione ancora più a destra dell’Irgun di Begin.
A metà degli anni Ottanta il paese ha quindi un governo assolutamente di destra, con una posizione politica di stallo. Da un lato si moltiplicano gli insediamenti, non solo nel West Bank ma addirittura a Gaza, scelta decisamente sconsiderata anche se comprensibile nell’ottica di una destra che aspira al Grande Israele e non concepisce come ci possano essere pezzi di terra di Israele in cui gli ebrei non possono andare; si trattava però di azioni di assoluto spregio nei confronti dei palestinesi, e quindi micce accese nel conflitto. Dall’altro lato, c’è anche lo scoppio dell’Intifada (=sollevazione, in arabo) nel dicembre del 1987. Tutto iniziò per un incidente stradale, che rapidamente portò a una vera e propria rivolta che andò avanti per molti anni. E’ la prima volta che il popolo palestinese prende letteralmente in mano il proprio destino.
All’epoca di Arafat il comando dell’OLP era inizialmente (1964) ad Amman, poi nel 1968 i palestinesi furono cacciati e sbattuti in Libano; nel 1982 l’OLP viene cacciato anche dal Libano e si insedia a Tunisi. Questo processo è visto positivamente da Israele, come un segnale di proprio rafforzamento; ma contemporaneamente, nelle aree occupate dagli israeliani a partire dal ’67, si vengono a formare delle nuove leadership giovani e indipendenti dal comando centrale, che non chiedono il permesso ad Arafat per le proprie iniziative. Quella dell’87 fu una rivolta spontanea e poco armata, fatta dai giovani, ma proprio per questo incontrollabile.
Nel 1987-88 accadde un episodio (poco conosciuto) che con gli occhi di oggi può essere giudicato pura follia. Gaza era allora collegata all’Egitto, e nella striscia si trovavano molti esponenti della Fratellanza Musulmana, un movimento politico-religioso con attività anche assistenziali, al cui interno era nato Hamas, che inizialmente aveva solo obiettivi socio-assistenziali e solo in seguito si venne politicizzando. Israele aveva dichiarato una guerra totale contro Arafat (compirono ben due raid su Tunisi, uccidendo il suo braccio destro) ed era determinato a distruggere l’OLP. Nell’87-88 fu deciso (non si sa da chi, l’episodio è rimasto molto oscuro) di usare l’arma atomica contro Arafat, e contemporaneamente (soprattutto) di favorire la crescita di Hamas, che allora era solo un piccolo movimento palestinese critico nei confronti dell’OLP. Hamas venne aiutato dagli israeliani in due modi: permettendo il transito di denaro dall’Arabia Saudita a Gaza, che sovvenzionava le attività assistenziali di Hamas, e poi cercando di smantellare le altre organizzazioni di Fatah. L’obiettivo era quello di indebolire Arafat attraverso la crescita di un’opposizione interna; ma l’errore fatale fu quello di ritenere che essendo Hamas un movimento di natura prevalentemente religiosa avrebbe continuato a occuparsi soprattutto di religione e non di politica. Di questo errore si è sempre parlato poco; per vederne tutte le conseguenze bisogna attendere i nostri giorni. Sempre alla fine degli anni Ottanta, dopo il primo anno di Intifada, il re di Giordania, che formalmente aveva ancora la sovranità sui territori del West Bank, fece un formale atto di rinuncia su di essi; dopo poco (dicembre 1988) Arafat e altri proclamarono la nascita dello stato palestinese (che però non è mai stato riconosciuto da nessuno, e quindi di fatto non esiste).
Un altro grande capitolo della storia degli ultimi anni Ottanta (il fenomeno in realtà era però iniziato ben prima) è costituito dal massiccio arrivo dei russi. L’immigrazione in Israele a metà degli anni Sessanta si era molto affievolita, restava solo il grande serbatoio degli ebrei russi, che non potevano uscire dal paese. A metà degli anni Settanta, con gli accordi di Helsinki, la situazione si sblocca, e agli ebrei russi è consentita l’uscita dall’Unione Sovietica. Sotto la presidenza di Reagan e mentre in Israele è primo ministro Shamir, Israele e Stati Uniti stipulano un accordo segreto secondo il quale alla maggioranza degli ebrei che usciranno dall’Unione sovietica non sarà consentito di emigrare in America (dove in effetti vorrebbero andare), ma sarà permesso solo di emigrare in Israele. In Israele arriva quindi in poco tempo oltre un milione di russi, fenomeno che riportò indietro l’orologio demografico che stava “ticchettando” a favore degli arabi, ma creò anche molti problemi imprevisti. Quelli russi erano ebrei ben poco religiosi, inoltre avevano al seguito famiglie molto numerose formate anche da molti non ebrei. Il rabbinato calcolò che almeno il 30% dei russi arrivati non fosse ebreo; la società israeliana si trovò così ad assorbire una gran quantità di non ebrei, un fenomeno che non è mai stato veramente “digerito”.
L’Intifada si esaurisce lentamente agli inizi degli anni Novanta.
Nel 1991 si ebbe un altro episodio di impatto straordinario: la Guerra del Golfo.
L’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein provocò la reazione degli Stati Uniti e dei suoi alleati, che invasero anche parte dell’Iraq. Tra gli alleati degli americani c’erano anche l’Arabia Saudita e Israele, due paesi che non potevano combattere insieme (anche se entrambi avevano interesse a fermare Saddam). L’Iraq cercò di far saltare l’alleanza bombardando con alcuni missili Israele: l’idea era che gli israeliani avrebbero reagito, e che a quel punto l’Arabia Saudita sarebbe stata costretta ad abbandonare la coalizione perché non potevano sostenere Israele. Furono mesi terribili, in cui gli israeliani vissero costantemente chiusi nei rifugi e con le maschere antigas sul volto. Bush impose a Shamir di non reagire, garantendo la protezione del loro territorio con i loro missili patriot: in questo modo si scongiurò l’allargarsi del conflitto.
Nei mesi successivi, dopo aver sconfitto l’Iraq, gli americani cercarono di risolvere anche la questione israelo-palestinese convocando una conferenza di pace a Madrid, che non portò però a nulla. Ma intanto in America si erano instaurati contatti segreti che poi avrebbero portato lontano: il re del Marocco e il console statunitense a Tunisi presero contatti con l’OLP, contatti che col tempo condussero palestinesi e israeliani davanti al ministro degli esteri norvegese, il quale per mesi ospitò in casa propria vari negoziatori di basso livello, che pian piano arrivarono a qualcosa di più concreto e ufficiale, gli accordi di Oslo (settembre 1993).
Ci si arrivò con l’elezione a primo ministro in Israele di Itzak Rabin, laburista, avvenuta nel ’92. Rabin (già primo ministro, poi ministro della difesa) era l’uomo perfetto per questo genere di politica: di sinistra ma molto determinato; aveva molti connotati di Begin (in Israele ancora oggi è diffusa l’opinione che per fare una buona pace ci voglia un uomo di destra, un “duro”, perché la sinistra porterebbe a una “svendita” dei diritti degli ebrei nei confronti dei palestinesi). Rabin vince le elezioni con la promessa di arrivare a una pace; nel settembre del ’93 Clinton porta Arafat e Rabin a Camp David a firmare l’accordo e a stringersi la mano davanti alle televisioni di tutto il mondo.
Gli accordi di Oslo hanno il pregio che da quel momento in poi Israele e l’Autorità Palestinese si riconoscono a vicenda; hanno però il difetto di porre una scaletta (in successione) degli obiettivi da raggiungere, e quindi laddove ci si fermi su uno dei punti si blocca l’intero processo. Cosa che avviene puntualmente, in modo drammatico e in due tappe. Innanzitutto, nel febbraio del ’94 a Hebron il medico Baruch Goldstein compie un massacro di palestinesi (29 morti, oltre 100 feriti) alla tomba dei patriarchi, luogo sacro a ebrei e musulmani. E’ un segnale di rottura totale, anche perché da quel momento in poi Hamas cambia il proprio metodo di lotta, adottando metodi terroristici (dall’aprile del ’94). Il secondo evento, altrettanto terribile, è l’assassinio di Rabin, compiuto nel novembre del ’95 da un giovane estremista ebreo dell’ambiente dei coloni. E’ un assassinio annunciato: a molte manifestazioni sfilavano cartelli in cui Rabin veniva definito nazista o si incitava alla sua morte; tra i coloni circolava una norma religiosa, sorta in ambiente esilico, secondo la quale si può uccidere un traditore prima che arrivi a compiere il suo tradimento, e dal punto di vista degli ultraortodossi Rabin era da considerarsi un traditore (“sentenza sul tradimento”). Questo omicidio provocò uno shock enorme in Israele, in quanto compiuto da un ebreo; ma la cosa peggiore fu la scelta politica compiuta dal successore di Rabin, Peres (che era stato il suo primo ministro), che per far arrivare il paese alle elezioni impiegò ben sei mesi, cosa che servì a rafforzare la destra: in quei mesi ci fu una forte ondata di attentati da parte di Hamas (che cercarono di approfittare della situazione), e quindi l’opinione pubblica israeliana ebbe il tempo di orientarsi a destra. La destra vinse le elezioni con soli 30.000 voti di margine; salì al potere Netanyahu, che “scientificamente” si adoperò per svuotare gli accordi di Oslo e fermare il processo che avrebbe dovuto portare alla costituzione di uno stato palestinese.
Dopo Netanyahu, nel 1999, tornano al potere i laburisti con Barak, il quale avrebbe forse potuto arrivare a una nuova Camp David, ma non si raggiunse nessun accordo, nonostante le pressioni di Clinton (la cui presidenza stava per scadere e quindi voleva incassare un risultato), anche perché nel settembre del 2000 ci fu il famoso episodio della “passeggiata” di Sharon sulla spianata delle moschee, che offese gli arabi in modo sanguinoso (anche perché Sharon vi si recò con un centinaio di soldati). Ciò dette origine alla seconda Intifada, questa volta condotta con le armi e non più con le pietre.
Alle elezioni successive, nel 2003, salì al potere di Sharon, che in realtà visse una specie di straordinaria “conversione” politica (o forse fu solo una questione di realismo): dal momento che la mappa sia territoriale che demografica di Israele era piena di incertezze, per continuare a mantenere i territori del West Bank era necessario lasciare almeno la parte più pericolosa dei territori, ovvero la striscia di Gaza, dove peraltro gli insediamenti erano stati meno intensi (e soprattutto più di carattere militare che civile) e quindi era più facile sgomberare. Gaza era intenibile, e quindi Sharon la lascia. Inoltre Sharon divide il Likud, il partito da cui proveniva ma che nel frattempo era diventato ingestibile (con numerosi fenomeni di corruzione e indisciplina): esce dal Likud per fondare un nuovo partito, il Kadima, ma prima di concludere l’operazione viene colpito da un ictus ed entra in coma; gli succede Ehud Olmert, il suo vice. Il 2006 è anche l’anno della guerra del Libano, della vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi, e siamo ormai a una serie di eventi ben noti perché contemporanei.
E’ da sottolineare, per concludere, che sta radicalmente cambiando la natura dei rapporti tra gli Stati Uniti e Israele, un cambiamento che viene messo in atto da Obama ma che si sarebbe verificato anche con una presidenza repubblicana: con un bilancio americano dissanguato dalla guerra in Iraq, il solo modo per risanare il deficit è quello di sistemare rapidamente le questioni aperte con l’esterno, e quindi “disinnescare” la questione palestinese, che porta con sé complicati rapporti anche con molti stati musulmani, tutti problematici (Siria e Pakistan tra i primi). Bisogna anche cercare di capire le ragioni del comportamento israeliano di questi ultimi tempi: attualmente, soprattutto dopo l’ultima guerra di Gaza, siamo generalmente portati a giudicare molto negativamente Israele, come uno stato prepotente in modo ingiustificato; però bisogna tenere conto del fatto che Israele è un piccolo stato e che la popolazione è tremendamente spaventata, afflitta da una serie di paure che vengono a volte da molto lontano: quella di perdere nuovamente lo stato, di perdere una guerra (anche una sola), di essere di nuovo abbandonati da Dio (l’esilio come punizione divina); la paura di una nuova catastrofe (shoah); il pericolo delle divisioni interne, le tentazioni messianiche (leader forti), la sempre più scarsa solidarietà da parte degli ebrei della diaspora (in particolare quelli americani), lo spettro del binazionalismo (uno stato composto in pari misura da ebrei e da arabi).
(testo non rivisto dall’autore)