Storia di Israele da Abramo ai giorni nostri – Parte 4
4. L’800, il sionismo, l’emigrazione e il ritorno in Palestina. La prima guerra mondiale, il mandato britannico, la Shoah
(13 gennaio 2009)
Affrontiamo il secolo e mezzo più intenso e complicato, ma anche pieno di richiami a cose note su cui si può quindi sorvolare; in particolare, non parleremo della Shoah se non per accenni.
A fine Settecento ormai la gran parte degli ebrei sono in Europa e soprattutto in Europa centrale; tutti questi vengono poi inglobati nella Grande Russia zarista quando la Polonia viene assorbita dai propri vicini in tre tappe consecutive. Da questo momento in poi, che coincide con la Rivoluzione francese e la nascita dei nazionalismi, l’ebraismo subisce un ulteriore cambiamento.
I russi non amano gli ebrei, e creano la cosiddetta “zona di insediamento”: la parte occidentale della Russia zarista che comprende gli ebrei polacchi, i quali non devono entrare nella Russia vera e propria (ciò in realtà accadrà, ma non ufficialmente). I russi metteranno in atto lungo l’Ottocento molte misure antiebraiche anche spietate (economiche, militari: i bambini ebrei venivano arruolati addirittura a 9 anni). I russi sono profondamente antigiudaici (non antisemiti: se gli ebrei si convertissero all’ortodossia cristiana l’ostilità cesserebbe). I russi vogliono la soluzione finale della questione ebraica secondo la formula: un terzo si uccidono, un terzo si espellono, un terzo si convertiranno (è quest’ultimo terzo che consente di parlare di antigiudaismo e non di antisemitismo). I pogrom rientrano appunto in questa ottica; la pressione sugli ebrei russi si fa sempre più pesante lungo tutto l’Ottocento, fino alla rivoluzione bolscevica.
Ai primi dell’Ottocento in Palestina ci sono pochissimi ebrei, tutti generalmente molto devoti, concentrati in Gerusalemme e pochi altri luoghi. Non sono sionisti: il sionismo è figlio dei nazionalismi europei.
Lungo l’Ottocento i popoli che compongono i grandi imperi rivendicano la propria sovranità nazionale; per alcuni popoli (ad esempio gli italiani) è facile, per gli ebrei no: non solo perché sono sparpagliati in tutta l’Europa, ma anche perché la loro terra è una terra in cui non vivono più, e in cui è previsto che rientrino al seguito del Messia. Si pone un interrogativo cruciale: come può il nazionalismo coniugarsi con il messianesimo? Teoricamente è impossibile. A metà Ottocento gli eredi di quegli illuministi ebraici che a fine Settecento avevano tentato invano di rendere più moderno l’ebraismo compiono una serie di innovazioni da cui scaturiscono le conseguenze più diverse.
Alcuni ebrei, soprattutto in Germania, rimangono sudditi dei rispettivi stati ma rinnovano l’ebraismo con una operazione analoga a quella compiuta dal protestantesimo in ambito cristiano: introducono modifiche liturgiche, traducono le preghiere in tedesco, e sono i padri di quelle grandi correnti ebraiche che oggi si chiamano conservatori e che sono attualmente molto diffusi negli Stati Uniti. Altri si buttano sul socialismo o sul liberalismo, perdendo così i connotati ebraici: si spera cioè che la liberazione dalle tristi condizioni presenti avvenga grazie a un movimento politico, al marxismo, al di fuori cioè dal filone religioso; anche questi costituiscono un gruppo piuttosto omogeneo e separato. Altro gruppo è quello degli ebrei ortodossi, presenti soprattutto in Europa orientale, che restano sempre molto fedeli a se stessi.
Infine, in vari luoghi d’Europa, spuntano i sionisti: sono persone che da un lato si pongono nel solco dell’ebraismo tradizionale (desiderio di ritorno in Israele), ma dall’altro rompono con la tradizione, in quanto non sono affatto disposti ad attendere l’intervento del Messia. Alcuni sostengono di andare in Israele ad attenderlo; ma la maggior parte dei sionisti sono laici e socialisti. Da questa mistura di idea nazionale in salsa socialista, fatta soprattutto di giovani (il sionismo è un movimento prevalentemente giovanile, quindi entusiasta e impaziente), nascono i primi circoli, soprattutto in Europa orientale. Il termine sionismo viene successivamente inventato in Germania.
Il sionismo opera una rottura nella continuità. Assumono l’ebraico, lingua del culto, come lingua quotidiana (cosa che fa rabbrividire gli ortodossi); prendono le feste del calendario religioso e le rileggono in chiave nazionalista: la festa del raccolto ad esempio diventa la festa del raccolto in Palestina man mano che si formano piccole comunità, dove anche il più misero raccolto viene salutato come un evento eccezionale. E’ un movimento che cresce via via che le cose peggiorano in Russia, ed è un movimento diffuso.
Le prime comunità in Palestina sono molto povere (i giovani che vanno in Palestina nemmeno sanno come si lavora la terra), anche se con uno standard sempre superiore a quello dei contadini palestinesi “locali”, arabi; queste comunità non producono, falliscono, e vengono di volta in volta recuperate da benefattori europei (i Rotschild, i Montefiore), che in questo modo cercano anche di temperarne i bollori. L’impero ottomano, corrotto e in grave declino, in parte lascia fare; la Palestina si costella quindi di minuscoli gruppi di ebrei lungo tutto l’Ottocento.
A fine secolo arriva finalmente il catalizzatore, l’uomo che trasforma tutto: Theodor Hertzl. E’ il padre fondatore del movimento sionista anche se non faceva parte del movimento finora sviluppatosi. Era un ebreo austro-ungarico, laico, giornalista, cosmopolita; non era un religioso. Assisté a Parigi al processo Dreyfuss, e con l’occasione si convinse del pericolo che gli ebrei correvano sempre: Dreyfuss era un ebreo totalmente assimilato (come lo stesso Hertzl), e se un uomo come lui veniva processato ingiustamente, quale ebreo poteva mai dirsi sicuro in Europa? Cominciò a sviluppare delle riflessioni al riguardo, e tra i suoi scritti si legge anche che non si sarebbe stupito che tutti gli ebrei austriaci un giorno venissero ammassati davanti alla Cattedrale di Santo Stefano per una conversione di massa.
Hertzl non era religioso, era un uomo estremamente pragmatico, ma a suo modo anche un visionario. Dallo shock del processo Dreyfuss nasce uno dei libretti più importanti della storia ebraica: “Lo stato degli ebrei”. E’ la prima volta che si vedono insieme le parole stato ed ebrei: nell’antichità gli ebrei avevano avuto un regno, e ancora quelli che speravano di tornare in Palestina col Messia pensavano a un regno. Questo libretto sarebbe rimasto un opuscolo tra gli altri, se Hertzl non avesse fatto un’altra cosa: fondò l’Organizzazione sionista mondiale. Il libro uscì nel 1896, l’anno successivo a Basilea si tenne il primo congresso sionista mondiale (il primo fu poco frequentato: non ci credeva nessuno). Hertzl nel ’97 scrisse: “stasera ho fondato lo stato ebraico, che tra 50 anni sorgerà” (e infatti lo stato nascerà nel 1948).
Ci fu un congresso ogni anno. Hertzl fu l’anima del movimento, e intessé rapporti a tutti i livelli. Sapeva che l’impero austro-ungarico non aveva futuro, e allora scelse come sponsor la Germania guglielmina (quella di Bismarck): fece di tutto per avere rapporti costruttivi con i tedeschi. Nella sua carriera di presidente dell’organizzazione incontrò una quantità indescrivibile di principi, diplomatici e ministri; incontrò il papa, il re d’Italia Vittorio Emanuele. Dalla Germania non riuscì a ottenere l’aiuto sperato; l’appoggio gli arrivò invece dall’incontro con Von Ploebe, ministro degli interni russo dopo l’assassinio dello zar nel 1882. Entrambi, anche se per motivazioni diverse, avevano l’interesse a portar fuori dall’Europa, e in particolare dalla Russia, gli ebrei. Von Plebe si impegnò a lasciar operare liberamente i circoli sionisti (che agivano in pratica da agenzie di viaggio); Hertzl riuscì così a fare dei passi avanti, anche se non si arrivò a quello che era il suo principale obiettivo: convincere gli ottomani a far aumentare il numero degli ebrei che potevano entrare in Palestina. Hertzl andò anche a Gerusalemme nei suoi otto anni di attività (morì nel 1904 a soli 44 anni, letteralmente consumato dal superlavoro).
Negli anni che seguono l’assassino dello zar, in Russia scoppia una sorta di tempesta contro anarchici, socialisti ed ebrei, che ebbe effetti immediati: iniziò infatti una migrazione di oltre 2 milioni di ebrei verso occidente, principalmente verso gli Stati Uniti. Molti si fermano lungo la strada; non si riesce in ogni caso a farli uscire tutti, pochi possono e soprattutto vogliono andare in Palestina. Si pensa a destinazioni alternative: Uganda, Argentina, Madagascar. Questa situazione spacca il movimento sionista, tra territorialisti (una destinazione qualsiasi, purché si possa fondare uno stato indipendente) e palestinocentrici (o la terra d’Israele o niente). Questa spaccatura, in cui Hertzl si trova in drammatica minoranza (lui è un territorialista) è probabilmente una delle cause del grande stress che lo porterà a una morte precoce. Dalla sua morte (1904) fino alla prima guerra mondiale la nave sionista è allo sbando: la Germania non ha aiutato gli ebrei, non si riesce a trovare un alleato significativo, e la Russia passa da una rivoluzione all’altra (quella del 1905, poi varie sommosse fino alla guerra). La fine dell’800 vede dunque gli ebrei uscire dalla Russia ma non entrare, se non in piccolissime quote, in Palestina; si ha un susseguirsi di difficoltà.
La difficoltà maggiore è comunque rappresentata proprio dalla prima guerra mondiale, che dal punto di vista ebraico rappresenta una tragedia assoluta: è una guerra di massa con leva obbligatoria, ed è la prima volta che degli ebrei si trovano a combattere altri ebrei, schierati in eserciti nemici (anche con un certo orgoglio nazionalista). La guerra provoca il disfacimento degli imperi, e tutti i giochi sono da rifare.
In particolare si sfalda l’impero ottomano, e appena finita la guerra tra le grandi potenze si inizia a decidere come spartirsi i suoi territori. La spartizione de Medio Oriente è per adesso virtuale, ma si dà comunque vita ai cosiddetti “mandati”: quello francese in Siria e Libano, quello inglese in Palestina, Giordania e Iraq (per riferirsi alle suddivisioni territoriali contemporanee). La situazione della Palestina è complicata dal fatto che la presenza ebraica è minima: sono forse 80000 allo scoppio della guerra, diventano 40000 nel corso della guerra (questo perché l’impero ottomano è in guerra con la Russia e la maggior parte degli ebrei presenti in Palestina sono russi, quindi sudditi stranieri nemici: molti vengono processati, fucilati; altri fuggono o fanno le spie per gli inglesi).
La gran parte della popolazione della Palestina era comunque araba; infatti, una delle grandi battaglie diplomatiche della prima guerra mondiale, è quella della famiglia degli Ashemiti al fianco degli inglesi contro l’impero ottomano. Sono gli Ashemiti che nel novembre del ‘17 conquistano Gerusalemme, consentendovi l’ingresso degli inglesi. Per la diplomazia araba tutto ciò che è arabo deve essere un unico regno arabo indipendente, e quindi anche la Palestina. Ma gli Ashemiti (antenati del re Abdallah di Giordania) non sono a conoscenza, finché non glielo rivelano i sovietici, che in realtà inglesi e francesi si sono già spartiti il territorio e che perciò non c’è spazio per loro.
A un certo punto, nel novembre del ‘17, a ridosso dell’ingresso del generale Allenby a Gerusalemme, salta fuori la Dichiarazione Balfur, una carta che fino allora era rimasta nell’ombra. Non è un trattato internazionale (che avrebbe avuto un potere vincolante fortissimo, come nel caso della spartizione franco-inglese del Medio Oriente); è una lettera, che era stata composta lungo l’arco di sei mesi, e rappresenta un capolavoro di diplomazia (o di ipocrisia). E’ un testo semi-ufficiale, firmato dal ministro degli esteri britannico, e indirizzato a un membro della famiglia Rotschild (uno qualsiasi, nemmeno sionista), in cui si afferma che il governo inglese considera con favore la nascita in Palestina di una “sede nazionale” (non di uno stato: si parla di “national home”) ebraica, purché ciò non pregiudichi gli interessi degli abitanti non ebrei. Questa lettera è scritta in un anno che fu terribile: allora non si sapeva affatto che la guerra sarebbe terminata dopo un solo anno, con la resa della Germania dopo il blocco navale anglo-americano; tutti i paesi sono allo stremo, e gli inglesi e i loro alleati fanno promesse a tutti (ebrei, curdi, armeni), pur di ricevere qualche forma di sostegno. In realtà tutte le promesse fatte in quel periodo rimasero vane; andò bene solo agli ebrei grazie a un aspetto specifico della politica estera inglese. Gli inglesi, che si sono divisi il Medio Oriente con i francesi, cercano di conciliare questa spartizione con le promesse fatte agli Ashemiti, un gioco di equilibrio molto difficile e aperto a tutte le soluzioni. Persone come Churchill, insieme ai cosiddetti “sionisti gentili” (coloro che vedono con favore la nascita di uno stato ebraico pur non essendo ebrei) intendono creare in Palestina un aggregato politico che sia debitore agli inglesi e insieme non sia arabo, così da costituire il settimo “dominion” dell’impero (il dominio è una zona a popolazione bianca, diversa da una colonia); l’intento è quello di fare della Palestina un paese “bianco”, occupato dagli ebrei per conto degli inglesi. Va poi considerato che Balfur, Churchill, etc., erano protestanti osservanti, che dalla Bibbia avevano assimilato l’idea del ritorno degli ebrei in Palestina; si fondono obiettivi di realpolitik con suggestioni religiose. Il problema è come convincere gli arabi di un’operazione del genere, e in realtà gli arabi verranno letteralmente imbrogliati.
La Dichiarazione Balfur viene promossa al rango di trattato internazionale quando la Società delle Nazioni crea il mandato palestinese: la Dichiarazione viene annessa al trattato di costituzione del mandato. Nel dopoguerra, 1918-19, alla Conferenza di pace di Parigi, vengono costituiti diversi mandati. Il mandato non appartiene al paese a cui è affidato bensì alla Società delle Nazioni, che appunto designa un paese affinché amministri per suo conto un determinato territorio. Il mandato dovrebbe anche avere una breve durata, perché poi da esso si dovrebbe procedere alla costituzione di uno stato indipendente. Quindi gli inglesi si insediano in Palestina come amministratori, e la Gran Bretagna dà finalmente avvio all’immigrazione legale degli ebrei.
Però, una volta aperte le frontiere, gli ebrei che ci vanno sono pochi. E’ vero che in Europa non si sta bene, ma la Palestina è un luogo poverissimo e poco attraente, arretrato e incivile, dove si conduce una vita grama e pericolosa. Negli anni Venti, il saldo tra gli ebrei che arrivano e quelli che se ne vanno è negativo: sono di più gli ebrei che lasciano la Palestina di quelli che vi entrano. Si potrebbe dire che il Sionismo abbia fallito; però negli anni Venti succedono altre cose.
In particolare, una decisione presa nella lontana Washington cambia completamente il destino degli ebrei. Durante la guerra i collegamenti tra America ed Europa si erano interrotti, poi ripresero a emigrare verso gli Stati Uniti, ma gli americani nel ’24 chiudono le porte all’immigrazione e introducono il principio delle quote nazionali. Da allora in poi gli ebrei che lasciano l’Europa, quindi, non vanno più verso l’America. Inoltre, nel ’32 al Cairo, Churchill modifica con un tratto di penna i confini che erano stati stabiliti dalla Dichiarazione Balfur: con il nuovo disegno, la Palestina non è più l’intero territorio (quello che corrisponde al concetto di Grande Israele), bensì un territorio più ristretto. Churchill crea la Transgiordania, la zona orientale rispetto al Giordano, dove non è previsto che possano insediarsi gli ebrei. Questa decisione in sé per ora non è particolarmente significativa (anche se provoca una reazione negativa nella destra sionista), avrà peso in seguito.
Il dopoguerra è un periodo difficile; i vecchi imperi sono crollati, molti dei nuovi stati vivono male la presenza degli ebrei al proprio interno, e quindi crescono sentimenti antisemiti; in Polonia si adottano misure fortemente discriminatorie (limitate quote di ingresso all’Università). C’è poi la grave crisi economica del ’29, e soprattutto l’ascesa legale (da sottolineare) al potere di Hitler, con il suo programma razziale. Il momento peggiore in assoluto è rappresentato dalle Leggi di Norimberga, che non solo impediscono i matrimoni misti, ma soprattutto definiscono gli ebrei tedeschi non più come cittadini del Reich, ma come sudditi. Gli ebrei tedeschi, che nel frattempo aumentano di numero (soprattutto con le varie annessioni), vivono una fase di smarrimento: non ci si aspetta una politica del genere dalla civile Germania, e soprattutto non si sa dove andare (ricordiamo la chiusura delle frontiere americane; inoltre per viaggiare sono necessari i visti, che vengono negati agli ebrei). Tutto ciò dà una spinta all’uscita degli ebrei verso la Palestina, che per quanto poco attraente è comunque un territorio sicuro. Churchill aveva in realtà introdotto un’altra condizione: la Palestina non può assorbire più persone di quante ne possa reggere l’economia, ma comunque negli anni ’30 in Palestina arrivano, per i numeri del paese, vere e proprie ondate di immigrati: 60.000 l’anno per tre anni, su una base di popolazione locale di poco più che 100.000 persone.
Questo suscita negli arabi del luogo dapprima incredulità, poi angoscia: il problema non è solo avere sul territorio una popolazione ebraica attiva (che crea banche, scuole, sindacati, piccole imprese), che si prepara a creare un vero e proprio stato, bensì chi assumerà il governo della futura Palestina indipendente. Se lo stato si fosse costituito negli anni ‘20 si avrebbe avuto una maggioranza araba e una minoranza ebraica, quindi le redini dell’amministrazione sarebbero state in mani arabe. Ma negli anni ’30 i rapporti iniziano a capovolgersi, e gli ebrei richiedono agli inglesi la parità di rappresentanza (gli arabi sono assolutamente contrari); viene inoltre attuata, da parte ebraica, una politica di acquisto delle terre a macchia di leopardo, in modo da garantirsi una presenza diffusa: al di là del numero di ettari posseduti, gli ebrei sono, anche se sparsi, presenti dappertutto. Dal punto di vista degli arabi la situazione si fa incandescente e incontrollabile, presto gli arabi reagiscono in modo violento: nel 1936 viene dapprima attuato uno sciopero generale, quindi scoppia una vera e propria rivolta armata contro gli inglesi, considerati dagli arabi i principali responsabili della situazione, ma anche contro gli ebrei, che già dal ’21 avevano istituito corpi di difesa (come la Haganà) e gruppi paramilitari (Irgun). Gli inglesi rispondono con due strumenti: uno militare (repressione durissima), l’altro politico. Si cerca una soluzione anche perché alla fine degli anni ’30 gli inglesi si trovano in grandi difficoltà con tutte le colonie e i mandati: se scoppia la bomba palestinese la Gran Bretagna entra in una crisi seria.
Si comincia a pensare a dei piani di spartizione: gli inglesi convincono la Società delle Nazioni che bisogna dividere la Palestina tra uno stato ebraico, uno arabo e un’enclave internazionale che comprenda Gerusalemme e Betlemme (non ci si fida che questi territori vengano amministrati né dagli ebrei né dagli arabi, e inoltre si garantisce alla Gran Bretagna una permanenza nel territorio). Questi piani falliscono perché non tutti gli inglesi sono convinti e soprattutto perché per i sionisti sono assolutamente contrari a un’ulteriore riduzione del loro territorio. Prevale comunque la linea di chi sostiene che comunque uno stato, per quanto piccolo, è la sola ancora di salvezza possibile per gli ebrei intrappolati nell’Europa antisemita. Alla fine, per un pelo, prevale l’accettazione di questo micro-stato; gli arabi però sono infuriati, perché non capiscono come mai, per ottenere un proprio stato indipendente, debbano regalare così tanta terra a degli europei. I punti di vista non potrebbero essere più lontani; dal canto loro gli inglesi non possono perdere la faccia di fronte a una Dichiarazione Balfur (di cui si sono già ampiamente pentiti) che è ormai entrata a far parte di un trattato internazionale. Si arriva alle soglie della guerra in queste condizioni: non si riesce a fare un piano di spartizione che funzioni; con il Libro Bianco del ’39 gli inglesi bloccano l’immigrazione ebraica in Palestina; si sa che sta per scoppiare la guerra; si afferma che tutta la situazione della Palestina resterà congelata per i prossimi dieci anni, che saranno gli anni della guerra e dello sterminio ebraico. La Shoah (=catastrofe, in ebraico) non solo elimina sei milioni di ebrei, ma fa letteralmente scomparire l’ebraismo polacco e gran parte di quello dell’Europa orientale. Cioè, non si tratta solo dello sterminio di un’alta percentuale di ebrei, ma di intere fette di popolazione che rendono l’ebraismo superstite non più equilibrato, perché vengono a mancare completamente alcune delle sue componenti fondamentali, tra le più originali anche dal punto di vista culturale.
Tornando al movimento sionista: non si è avuto prima l’appoggio tedesco, non si può più contare sugli inglesi. Il capo esecutivo dell’Agenzia ebraica, a metà degli anni ’30, è David Ben Gurion, un altro personaggio visionario. Ben Gurion è l’inventore della formula “combatteremo gli inglesi come se non ci fosse la guerra, e faremo la guerra ai tedeschi come se non ci fossero gli inglesi”. Vale a dire: bisogna tenere i due problemi separati, cioè aiutare ovviamente gli inglesi nella guerra contro Hitler, ma non fare loro alcuno sconto sulla loro condotta in Palestina. La guerra è angosciosa anche vista dalla Palestina: Hitler a un certo punto organizza un colpo di stato in Iran, e dall’altro lato avanza in Egitto, quindi gli ebrei a un certo punto arrivano addirittura a temere che l’olocausto arrivi anche lì. Le cose ovviamente andarono diversamente, e nel corso della guerra accade un fatto politico poco visibile ma di grande importanza: Ben Gurion nel ’42 va a New York, dove promulga un manifesto in cui prende la decisione di chiedere aiuto agli Stati Uniti. E’ una decisione che nasce dalla disperazione: in Europa nessuno più può sostenere il movimento sionista; la grande comunità ebraica americana ha pochissimi sionisti, e infine gli Stati Uniti sono un paese che ha dato spesso prova di forte antisemitismo, arrivando a non ammettere quote ebraiche di immigrazione proprio durante la guerra, con il pretesto che vi si potrebbero nascondere delle spie. Paradossalmente, nonostante la politica attuata in Palestina, il paese che ha dato più aiuto agli ebrei è stata la Gran Bretagna, che accolse anche migliaia di bambini durante la persecuzione nazista.
Quindi la scelta degli Stati Uniti fu davvero una scelta dettata dalla disperazione, che poteva risolversi in una catastrofe; invece le cose volsero al meglio, per ragioni che sicuramente Ben Gurion forse non poteva nemmeno immaginare. La ragione è squisitamente politica. Non si può assolutamente affermare che la decisione dell’ONU del ’47 di dar vita a uno stato ebraico costituisse una specie di risarcimento per la Shoah: di questo non importava niente a nessuno. Il vero motivo per cui le superpotenze decidono di mettere in moto l’operazione di spartizione della Palestina è di equilibrio politico: gli Alleati che vincono la guerra sono Stati Uniti, Russia, Inghilterra e Francia. La Gran Bretagna ha un impero immenso che già scricchiolava prima della guerra.
Alla fine della guerra l’Inghilterra è allo stremo, ha debiti con gli Stati Uniti che verranno estinti solo nel 1955, perde l’India e altre colonie; mantenere la propria presenza in Palestina è un’impresa insostenibile. Nel ’46-47 in Palestina vivevano circa un milione di persone: 400.000 ebrei, 600.000 arabi, e 100.000 soldati inglesi, un soldato britannico ogni dieci abitanti; era impossibile sostenere i costi di una presenza militare così pesante, per non parlare dell’ostilità dell’opinione pubblica. Il peso della Palestina è insopportabile, ed è qui che intervengono le altre potenze. Stati Uniti e Unione Sovietica decidono di “fregare” la Gran Bretagna e di spartirsi l’impero; gli americani vogliono che l’area del dollaro si allarghi su quella della sterlina, mentre Stalin pensa di inserirsi nelle pieghe del movimento arabo. Nel novembre del ’47 si arriva in sede ONU (ancora molto piccola, circa 50 stati) a votare sul piano di spartizione; sono sessioni molto concitate. Il blocco che vota a favore della spartizione e quindi della nascita di Israele (contro gli arabi) è formato da americani, europei, sovietici e i paesi satelliti di americani e russi (l’Unione Sovietica disponeva di tre voti). Il “pacchetto” di voti di Stalin è quindi vitale per la nascita dello stato ebraico, e la convergenza dell’Unione Sovietica con gli Stati Uniti si spiega solo con la comune volontà di infliggere un colpo ferale alla Gran Bretagna, cosa che può aprire prospettive interessanti (per motivi diversi) per entrambe le superpotenze (la Gran Bretagna ne è perfettamente consapevole). Si arriva quindi alla decisione di spartire il Medio Oriente: qui, dove già da tempo serpeggiava una guerra civile strisciante tra arabi ed ebrei, dopo la spartizione scoppia una guerra vera e propria in cui tutti combattono contro tutti: ebrei, arabi ed inglesi. Il caos è totale, e gli inglesi non riescono a controllare nemmeno le vie di comunicazione.
In questa occasione emergono tutte le spaccature interne all’ebraismo che già erano presenti da tempo, in particolare tra sionisti di sinistra (la maggioranza del movimento) e sionisti di destra (l’Irgun di Begin, movimento clandestino che fa largo ricorso ad atti di terrorismo, e la Banda Stern, ancora più estremista, capeggiata da Shamir). L’Haganà, il braccio armato dei sionisti di sinistra (e di Ben Gurion) era molto ostile all’Irgun e ai suoi metodi; solo in poche occasioni i due movimenti si sono trovati a collaborare. Nel ’46 l’Haganà, disperata perché gli attacchi continui della destra armata rischiavano di far saltare ogni accordo, compreso l’appoggio americano, diede la caccia agli uomini dell’Irgun, arrivando forse anche ad ucciderne alcuni. Questa è una pagina che la destra non ha mai dimenticato. Begin ha combattuto anche contro l’Haganà, e la destra ha sempre odiato la sinistra. Nel ’48 siamo ormai alla vigilia dell’indipendenza, e all’indipendenza gli ebrei arrivano, per così dire, in ordine sparso, non con un movimento compatto e omogeneo.
Lo stato che nasce nel ’48 nella realtà era praticamente già nato nel corso degli ultimi 25 anni di vita ebraica in Palestina, almeno nelle sue strutture organizzative, amministrative, militari e anche culturali. Gli arabi invece non avevano dato vita a nulla, in parte forse per minori capacità organizzative, ma soprattutto perché, convinti di essere dalla parte della ragione (proprietà della terra), avevano sempre rifiutato qualsiasi proposta di compromesso. Spesso il fronte arabo è stato accusato di massimalismo, ma effettivamente è comprensibile come non fosse accettabile, dal loro punto di vista, l’imposizione di cedere parti del proprio territorio a un popolo venuto da fuori. Questo costituisce tutt’oggi la radice del conflitto tra palestinesi ed ebrei.
(testo non rivisto dall’autore)