Relazione Card. Tettamanzi
Comunione, fondamento e dimensione della missione
La missione sfida per la comunione
Introduzione: il tema e l’icona biblica (Matteo 28, 16-20)
Il titolo del mio intervento: “Comunione, fondamento e dimensione della missione” mostra, nella sua stessa formulazione, che le due realtà – la comunione e la missione – sono tra loro collegate. Si tratta di un collegamento profondo, nel duplice senso che la comunione è fondamento o radice e, insieme, è dimensione, ossia valore ed esigenza che attraversa e qualifica la missione. Potremmo completare aggiungendo un terzo senso: la comunione è frutto della missione.
In realtà, il collegamento tra comunione e missione può essere letto in termini di maggiore profondità, giungendo ad affermare che non c’è comunione senza missione e non c’è missione senza comunione. Come a dire che, nella Chiesa, la comunione è missionaria e la missione è comunionale.
Ora, proprio per questa reciprocità e unità tra comunione e missione, è possibile sostituire il titolo che mi è stato dato con un altro, introducendo una prospettiva capovolta: partire dalla missione per coglierne l’intrinseca natura e finalità comunionale. O, in termini più precisi, partire dalla missio ad gentes per comprendere e vivere l’intera pastorale della Chiesa.
Si deve riconoscere – come fa Giovanni Paolo II – che «senza la missione ad gentes la stessa dimensione missionaria della Chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attuazione esemplare» (Redemptoris missio, n. 34).
Ne segue che «la missione ad gentes è… “paradigma” della missionarietà evangelizzatrice propria di ogni comunità ecclesiale» (Mi sarete testimoni, n. 95). Solo quando la Chiesa si pone nell’ottica missionaria – anzi solo quando essa fa «costante riferimento alla missione ad gentes» e da quest’ultima si lascia «richiamare ad alcune fondamentali “attenzioni” che devono segnare in modo più abituale e profondo la nostra azione pastorale quotidiana e ordinaria» (ivi) – solo allora, la Chiesa stessa ritrova la sua natura più intima, il suo volto più essenziale e, così, può rapportarsi ad ogni cultura.
È questo, dunque, il cammino che vorrei percorrere con voi: partire dalla missione della Chiesa, e in essa dal “paradigma della missio ad gentes”, per ripensare la natura profondamente comunionale della Chiesa, i suoi elementi essenziali (la Parola, il Sacramento, i carismi), le sue forme pratiche, i suoi strumenti, le persone che la animano e così dire, in modo semplice e chiaro, che la missione non si limita a esprime la comunione, ma la “costruisce”, al punto che una comunità cristiana meno missionaria è una comunità meno capace di comunione con Dio e tra gli uomini.
In concreto, se il compito missionario non è solo l’impegno di alcuni specialisti, ma tocca tutta quanta la Chiesa nel suo cuore vivo e palpitante, proprio nella prospettiva fondamentale della missione diventa necessario e urgente lasciarci interpellare da alcune domande: come proporre cammini precisi di vera conversione pastorale in senso missionario? come la comunità cristiana, nel suo insieme e in specie nei suoi diversi operatori pastorali, è coinvolta e vuole coinvolgersi in questo mutamento di prospettiva culturale e pastorale, ossia quello della missio ad gentes? quali forme nuove di evangelizzazione possono rendere il “corpo” delle nostre comunità più sciolto, più aperto e più coraggioso? quali occasioni e quali strumenti concorrono a qualificare l’apertura missionaria delle nostre comunità? come è la visibilità, nelle nostre comunità, delle “figure missionarie”?
A queste e ad altre domande simili vorrei riferirmi nello svolgere il tema affidatomi, nel vivo desiderio che davvero la missione possa illuminare la comunione delle nostre parrocchie e delle nostre diocesi e, in modo complementare, che anche la loro comunione meglio compresa possa dare slancio e forza alla missione.
So che rientra nella grazia e nella responsabilità del Vescovo di individuare e suggerire, con sguardo e ardore profetici, le nuove vie della missione per la comunione. È compito veramente arduo, per il quale chiedo umilmente al Signore di illuminarmi e guidarmi con la sua parola di grazia.
Mi riferisco, in particolare, al brano con cui Matteo chiude il suo Vangelo (28, 16-20), mettendo sulla bocca di Gesù risorto le consegne per una comunità coinvolta dalla missione.
In questa pagina finale del Vangelo, convergono le linee tematiche disseminate nell’intero racconto di Matteo e raccolte attorno a due grandi centri di interesse: l’opera e la persona di Gesù e l’esperienza della Chiesa nell’orizzonte della missione.
L’Evangelista presenta una specie di “manifesto della missione della Chiesa” come disegnato dalle mani, meglio come sgorgato dal cuore del Risorto, e lo consegna – questo manifesto – al lettore futuro, fondendo insieme l’immagine del Risorto e il programma della missione da lui affidata ai discepoli fino alla fine del mondo.
Noi siamo tra questi lettori futuri. Mettiamoci, quindi, in ascolto. Anzi lasciamoci coinvolgere dall’interiore dinamismo di queste parole di Gesù risorto. Sono le sue ultime parole, sono l’eredità permanente per il tempo della Chiesa. Può sembrare, questa, una strada che ci porta lontano dagli odierni numerosi e gravi problemi di una pastorale ecclesiale profondamente missionaria. In realtà, solo questa strada ci permette di raggiungere il cuore stesso di tutti questi problemi, li apre ad una nuova comprensione e fa trovare le soluzioni più adeguate e, soprattutto, quelle più autenticamente evangeliche.
Riascoltiamo, dunque, il racconto di Matteo: «Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”».
Il congedo di Gesù risorto si snoda, per così dire, in cinque tappe, ciascuna delle quali offre un elemento prezioso per disegnare il “paradigma della missione” della Chiesa come “sfida” per la comunione. Di questa missione comunionale vengono presentate:
– l’origine, ossia l’incontro con il Risorto;
– il centro: la signoria di Gesù;
– il mandato: «fate discepole tutte le genti»;
– i luoghi e gli stili, cioè la vita trinitaria e la legge nuova;
– il tempo: «fino alla fine del mondo».
1 – All’origine della missione: l’incontro con il Risorto
La prima tappa riguarda l’“origine della missione”, ossia la radice viva, il fondamento incrollabile della Chiesa. È l’incontro con il Risorto, un incontro che configura a lui e trasforma la vita: «Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni [essi] però dubitavano» (Matteo 28, 16-17).
In queste parole troviamo la cornice dell’icona, una cornice che mette in luce tre elementi: l’iniziativa del Risorto; la Galilea e il monte; il riconoscimento e il dubbio.
Anzitutto, l’iniziativa del Risorto. Nell’apparizione del capitolo 28, l’angelo annuncia che il Risorto precede i discepoli in Galilea, ossia nello stesso luogo dove ha preso avvio la missione di Gesù e da dove inizierà la missione della sua Chiesa (cfr. Matteo 28,7). Lì è il luogo che “Gesù ha fissato” (cfr. Matteo 28, 16), lì si incontra il Risorto (cfr. Matteo 28, 10): la missione è una attestazione della speranza che viene dalla risurrezione di Gesù. Proprio a questa speranza si alimenta lo slancio della Chiesa. La missione consiste nel far accedere continuamente gli uomini a quel punto “fisso”, e mai superabile, che è il Risorto. La missione non è un andare “oltre” Gesù, ma un condurre la gente a Lui.
Matteo precisa subito questo luogo con due determinazioni che evocano il suo mondo: la Galilea delle genti e l’incontro sul monte. L’Evangelista riprende con grande suggestione il capitolo quarto del suo Vangelo, là dove descrive l’inizio della missione di Gesù in Galilea. Anticipata nella misteriosa visita dei Magi, la missione di Gesù è rivolta a un destinatario molto variegato – la «Galilea delle genti» (Matteo 4, 15) –, immerso nelle tenebre e nell’ombra di morte (cfr. Matteo 4, 16), che però attende e vede una grande luce: il Vangelo del Regno (cfr. Matteo 4, 17).
Sì, la missione della Chiesa deve ritornare a questo luogo originario, non deve temere che il suo ambiente o contesto sia un panorama di popoli, culture e religioni diverse. Non deve temere perché, in questo caleidoscopio, c’è un “punto di incontro” sicuro, dove Gesù attende i suoi: il monte, il luogo cioè dell’incontro con il Dio dell’alleanza, dove si collocano i momenti più alti della vicenda di Gesù. Sul monte egli rivela la nuova legge (cfr. Matteo 5, 1; 8, 1), si ritira a pregare (cfr. Matteo 14, 23), accoglie la folla e guarisce i malati (cfr. Matteo 15, 29) e, infine, si manifesta come il Figlio amatissimo (cfr. Matteo 17, 1.5). Dunque, lo spazio spirituale della missione è segnato dal contesto pluralistico (delle genti) e da un punto di incontro (con Dio). Sono questi i due elementi che dispongono il terreno per la missione.
Infine, l’apparizione del Risorto suscita una duplice reazione, tipica di Matteo, di riconoscimento e di adorazione, da un lato, e di paura e di dubbio, dall’altro. Ritroviamo qui quanto già era avvenuto altre volte prima della Pasqua, ad esempio quando i discepoli sulla barca nel mare in tempesta ebbero paura (cfr. Matteo 8, 26) o quando Pietro nel turbine del vento aveva esitato (cfr. Matteo 14, 31: lo stesso verbo «dubitavano» ritorna nel nostro testo [Matteo 28, 16]). La vista e l’incontro del Risorto suscitano il riconoscimento, l’adesione, l’adorazione e, insieme, il dubbio, l’esitazione, il difficile discernimento della presenza e del significato del Risorto per la stessa vita della Chiesa nello spazio della Galilea delle genti. La luce e l’ombra attraversano fin dall’inizio l’incontro con il Risorto: la luce della sua presenza, l’ombra del nostro faticoso farci strada nel momento presente, in un contesto multiculturale e nel difficile discernimento del tempo “postmoderno” (segnato da una religiosità ripiegata sul proprio vissuto individuale e da una concezione di vita di “seconda secolarizzazione”), e più radicalmente l’ombra della nostra personale libertà, segnata da fragilità, da tentazioni, da possibilità di rifiutare la luce.
I tre elementi della cornice ci suggeriscono già alcune riflessioni iniziali sul tema della missione.
La missione richiede sempre un ritorno all’origine – non mai superabile –dell’incontro con il Risorto. “Tenere lo sguardo fisso su Gesù” (cfr. Ebrei 12, 2) e sul racconto evangelico dei primi testimoni è come ritornare alla sorgente, rinfrescarsi e, in qualche modo, rigenerarsi alla corrente viva della missione.
La centralità del Signore risorto che invia e ci dona il suo Spirito – centralità riconosciuta, onorata e vissuta – è il migliore antidoto contro due tentazioni o malattie della missionarietà: da un lato, l’efficientismo esasperato e, dall’altro lato, la pigra acquiescenza delle nostre comunità. I grandi missionari hanno sentito in modo forte e irresistibile l’imperativo della missione perché hanno dimorato nella luce della presenza di Gesù.
Cristo è vivo e attuale, è l’unico necessario per la vita dell’uomo, è capace di irradiarsi in tutte le culture e i popoli, promuovendo il loro desiderio di vita e di comunione. Questa è la verità, meglio la realtà concreta e personale che va fatta riascoltare nelle nostre comunità ecclesiali, risvegliandole da ogni stanchezza e torpore. La presenza amante del Risorto deve diventare la certezza suprema, il respiro vitale, il dinamismo inarrestabile della vita cristiana dei singoli credenti e delle comunità. La missione della Chiesa è tutta qui: consiste nel condurre ciascuno di noi all’incontro con Cristo, all’appuntamento sul “luogo fissato”.
Inoltre, il ritorno in Galilea sul monte non solo ci fa ripartire dall’inizio della missione di Gesù e della Chiesa, ma anche ci sospinge a raccogliere la voce del popolo che cammina nelle tenebre, ci invita ad ascoltare la condizione attuale del mondo, ci chiede di essere docili a «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Apocalisse 3, 6) e, in particolare, alla Chiesa italiana. E così il “paradigma della missione” stabilisce continuamente il circolo tra l’incontro con il Risorto e il popolo che cammina nelle tenebre e attende una grande luce.
L’ambientazione del mandato di Gesù in Galilea è di sorprendente attualità. Infatti, anche le nostre comunità stanno diventando una “Galilea dei popoli”, un caleidoscopio di etnie, di culture e di religioni. L’Italia sembra un ponte naturale gettato nel Mediterraneo e su questo ponte già passano e ancor più sono destinate a passare molte storie umane e spirituali. Questo è l’elemento nuovo che ci tocca in questi primi anni del Terzo Millennio: la spinta missionaria non è più solo ad gentes, ma è anche infra gentes. La missione, cioè, è qui dietro l’angolo, nel pluralismo culturale e religioso che ci avvolge da tutte le parti.
Non è più possibile pensare le nostre parrocchie e le nostre diocesi come mondi chiusi in se stessi: devono diventare case ospitali. E, in realtà, riusciranno ad essere tanto più ospitali quanto più matureranno in una fede viva e vitale e in una identità precisa. La “Galilea delle genti”, che il nostro Paese sta diventando, ha bisogno di cristiani dalla fede matura e di comunità che non temono l’incontro, il confronto, la testimonianza, in una parola lo slancio missionario.
Qualcosa di analogo o addirittura di identico è il riferimento evangelico al monte. Il monte è il luogo dell’incontro con Dio, il punto di gravitazione spirituale della ricerca di Dio. In una parola, il monte dice il bisogno di spiritualità dell’uomo, di una spiritualità però che, mentre ci apre alla contemplazione di Dio e ci fa “rimanere” nel suo amore, non ci estranea affatto dal rapporto concreto e quotidiano con gli altri. Il monte, dunque, è il punto d’incontro non solo con il volto di Dio, ma anche con il volto degli uomini, perché ogni uomo – che è immagine di Dio – porta in sé, indistruttibili, la nostalgia e il desiderio di “vedere” Dio. Lo notava, nel secondo secolo, il vescovo sant’Ireneo da Lione, affermando che «la gloria di Dio è l’uomo che vive», con la precisazione che «la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio» (Contro le eresie, IV, 20, 7).
A questo punto si colloca l’esercizio del difficile discernimento del tempo presente, delle linee culturali e sociali d’oggi e, quindi, delle forme della coscienza attuale, posta tra la luce che viene dal Risorto e l’esitazione che attraversa il cuore dei discepoli stessi («essi però dubitavano»: Matteo 28, 17). Noi siamo incerti sulle stesse forme dell’identità cristiana: il nostro cristianesimo è forse diventato un cristianesimo di ambiente, per così dire percepibile nel clima delle nostre città, dei nostri monti e delle nostre valli, delle nostre coste e dei nostri mari.
Ecco allora un primo risultato provocante del “paradigma della missione”. La condizione del pluralismo culturale e religioso ci porrà con urgenza queste domande: come viviamo lo splendore della vita da credenti nella risurrezione di Cristo? come le nostre comunità cristiane si alimentano della centralità della Pasqua? come i gesti concreti e i criteri con cui vivono la parrocchia, i gruppi e i movimenti manifestano l’incontro con il Risorto?
La prima indicazione, semplicissima e fondamentale, che ci dà l’orizzonte della missione è il ritorno all’essenziale, che coincide con il ritorno al centro, al centro vivo e personale che è Cristo risorto. E il ritorno al Risorto sollecita ed esige un preciso discernimento tra ciò che appartiene al cuore della fede e ciò che ci consegna la storia, ossia qualcosa che esige sempre di essere ripensato, purificato e rivissuto in termini di fedeltà e di creatività. Questo è il difficile discernimento, questo è il timore e il dubbio che dobbiamo assumere, perché lo splendore del Risorto possa irradiarsi in altre storie e in altre culture.
2 – Il centro della missione: la signoria del Risorto
La seconda tappa ci introduce al “centro della missione”. Gesù rivolge l’ultima parola ai discepoli, alla Chiesa, al lettore futuro, a noi dunque: «E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”» (Matteo 28, 18).
Il Signore “si avvicina” a noi per non lasciarci più e per accoglierci nella sua signoria d’amore che salva. Egli ci dice una parola nuova e portatrice di gioia, che è il Vangelo. E, del Vangelo, il Crocifisso risorto è insieme araldo, contenuto e centro, perché lui stesso in persona è il Vangelo vivente.
La prima dichiarazione di Gesù quando consegna il suo mandato missionario ha una struttura trinitaria, è una stupenda rivelazione del mistero della Trinità di Dio. Infatti, il mandato viene dal Padre; la signoria salvifica – ossia dell’amore che salva – è propria del Figlio; l’irradiazione universale della salvezza è opera dello Spirito Santo. È davvero bello notare come le ultime parole di Gesù – così come le riferisce Matteo – ci dicano il cuore del mistero trinitario e la via per entrarvi.
Proviamo ad ascoltarle più da vicino, soffermandoci su questi tre aspetti.
Gesù è il centro del Vangelo e il rivelatore il Padre.
Il testo, che è di una ricchezza sorprendente, inizia con un passivo: «Mi è stato dato ogni potere…» (Matteo 28, 18). La missione di Gesù viene dal mandato del Padre e, in modo più radicale, si nutre della relazione intima e incessante di Gesù con Dio come Padre. Il riferimento qui è ad un precedente testo di Matteo: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio» (Matteo 11, 27a). Dunque, la missione di Gesù, la sua vita e il mistero della sua persona provengono dal Padre, sono radicalmente ricevuti dal Padre. Ne deriva che il modo specifico con cui Gesù è “centro” del Vangelo è quello di rinviare al Padre e di rivelare il Padre, perché «nessuno conosce il Figlio se non il Padre» (Matteo 11, 27).
Ecco una prima e fondamentale acquisizione: al cuore della missione e del Vangelo c’è il mistero incandescente dell’amore trinitario. Come si ricorderà, propria questa è stata l’impostazione teologica data dal Concilio Vaticano II nel decreto Ad gentes: «La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo secondo il Disegno di Dio Padre. Questo Disegno scaturisce dall’“amore fontale”, cioè dalla carità di Dio Padre…» (n. 2).
Gesù è il Signore che ama e perdona.
Il testo dice che a Gesù è affidato «ogni potere in cielo e in terra» (Matteo 28, 18) Qui l’Evangelista usa il termine exousía, che ricorre nove volte nel suo Vangelo. È un termine che indica il senso stesso del suo essere Risorto, il suo essere Signore che ama e perdona.
Il “potere” è, sì, una parola difficile, ma che racchiude la perla preziosa della missione, il suo roveto ardente. Il “potere” dato a Gesù, infatti, è la partecipazione alla signoria di Dio, ossia alla sua azione che guarisce, salva, riconcilia, ama e libera.
Matteo ha già illustrato nel suo Vangelo che Gesù possiede un potere del tutto originale, un potere che guarisce e perdona (cfr. Matteo 9, 6), come attesta il miracolo del paralitico guarito e perdonato, con questa straordinaria novità: la vita risorta che guarisce il paralitico e gli rimette i peccati è ormai partecipata “qui sulla terra” anche “agli uomini”. Non a caso, l’Evangelista sottolinea la meraviglia della gente che vede il miracolo: «A quella vista, la folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini» (Matteo 9, 8).
Ecco un’altra acquisizione per cogliere la verità evangelica della missione. La possiamo esprimere dicendo che gli uomini sono attratti nella sfera della vita risorta e sono spinti ad irradiarla nel mondo. E così l’annuncio del Vangelo – che ha al centro Gesù che dona il Padre e lo comunica nella sua vita risorta – è dato agli uomini come “dono” per loro, prima che come “compito” da trasmettere agli altri Qui il tema della missione raggiunge il suo punto di incandescenza: la missione è trasmissione del Vangelo, perché fa partecipare alla vita crocifissa del Risorto: non c’è missione senza comunione con la Pasqua di Gesù!
Gesù dona il suo Spirito che si irradia nello spazio e nel tempo, in ogni spazio e in ogni tempo.
Gesù è Signore «…in cielo e in terra» (Matteo 28, 18). Con la risurrezione, inizia l’irradiazione della signoria salvifica del Risorto: la missione sta, dall’inizio alla fine, dentro il magnetismo dell’irradiazione della Pasqua di Gesù «in cielo e in terra». La fede cristiana è collocata qui nell’orizzonte universale dello spazio e del tempo ed è attraversata da uno slancio missionario che non può essere spento. Tale slancio non è una qualche forza generica e anonima, perché ha un nome, anzi è una persona: la persona stessa dello Spirito Santo. È il dinamismo originario della creazione e la finalità ultima del cammino della storia: Gesù è “primogenito della creazione e della moltitudine dei fratelli” (cfr. Colossesi 1, 15.18).
Ed eccoci a quest’altra acquisizione: non c’è missione senza il vento impetuoso e il fuoco ardente dello Spirito Santo; della missione il vero, grande e, in un certo senso, unico protagonista è lo Spirito. Quanto più piena è la docilità della Chiesa all’azione dello Spirito, tanto più feconda diviene la sua missionarietà.
Questa seconda tappa ci richiama al punto decisivo del “paradigma della missione”, al centro del Vangelo e al suo criterio più intimo. Nel suo svolgersi – necessario e urgente – la missione deve far sentire la forza di attrazione del “centro”, che è Gesù. Egli è il Vangelo, la “buona notizia”, perché è la vita donata dal Padre e irradiata dallo Spirito Santo nella moltitudine dei popoli e nello spazio della creazione tutta.
Lo sguardo sul mondo, sugli uomini, sulle culture, sulla vicenda umana, sul destino della storia è uno sguardo che non si distacca dal monte dell’Ascensione. Ma, nel medesimo tempo, lo stesso sguardo, da questo monte, si spalanca su nuove prospettive: Gesù, infatti, ritornando al Padre, apre la strada affinché l’uomo lo segua; il Padre manda lo Spirito di Gesù per trasfigurare ogni cosa “in cielo e in terra” e per introdurre gli uomini nella corrente della vita nuova della Pasqua.
Proprio qui il “paradigma della missione” ha il suo riflesso più profondo sulla vita della Chiesa e sulla sua forma comunionale. “Comunione” e “missione” non sono che due aspetti inscindibili dell’amore trinitario di Dio, che si dona a noi, e del nostro entrare nel cuore del suo mistero santo.
Non c’è prima la comunione e poi la missione. Questa è la cosa più bella e più necessaria da dire oggi. La comunione con Dio e la comunione con e nella Chiesa sono il modo storico e concreto con cui gli uomini arrivano a Dio: non si incontra il Dio Amore se non in una comunità fraterna e, a propria volta, la comunità fraterna ha la missione di far approdare l’uomo sulle sponde del mistero del Dio uno e trino. La Chiesa esiste proprio per questo: per far incontrare gli uomini con Dio e con colui che ce lo comunica: il Figlio suo Gesù. E l’incontro con Dio è dall’inizio alla fine un “evento spirituale”, ossia generato, animato e ricreato dallo Spirito di Gesù. In questo modo, la Chiesa è l’icona vivente della Trinità.
Comunione e missione sono, quindi, due nomi di un incontro: del dono di Dio agli uomini e dell’accoglienza libera e grata di questo dono, accoglienza che ci fa fratelli. Chi, ricevendo il dono che è Dio stesso, può trattenerlo solo per sé? Chi, lasciandosi plasmare dal Vangelo di Gesù che ama e perdona, non vorrà attestarlo agli altri? Chi non si lascerà persuadere e trascinare dallo Spirito che consola e ricrea la storia degli uomini?
Vorrei richiamare qualche tema pastorale per un annuncio rinnovato del Vangelo incentrato su Cristo, rivelatore del Padre.
Le nostre comunità devono avere l’intelligente pazienza di “fermarsi”, di prendersi con decisione una “sosta”: non certo per indulgere alla pigrizia o per vivere in modo stanco e ripetitivo i compiti pastorali, ma per “interrogarsi” con coraggio sulla “qualità dell’annuncio cristiano e sulle sue forme concrete, perché tale annuncio appaia nella sua forza originale, che è forza “lietificante”, “sanante” e “trasfigurante”, in una parola perché sia un annuncio che porti all’incontro personale con Gesù Cristo. Come è la “qualità” dell’annuncio della Parola, della celebrazione ecclesiale dell’Eucaristia (in particolare la Domenica), dell’esercizio concreto della carità fraterna? Non c’è fede autentica, come rapporto personale con il Signore Gesù, se non nella “triade indivisa e indivisibile” di Parola, Sacramento e vita secondo lo Spirito. Per la sua stessa natura e per il suo intrinseco dinamismo, la fede cristiana è fede professata-celebrata-vissuta (cfr. Mi sarete testimoni, nn. 25-26).
Il mandato missionario di Gesù ci spinge a guardare con occhi semplici al centro personale del Vangelo, a rappresentarlo scolpito al vivo nella nostra predicazione e catechesi, nella nostra liturgia e preghiera, nei gesti di giustizia e di carità fraterna e nelle iniziative missionarie.
La vita quotidiana della Chiesa – delle nostre comunità e realtà ecclesiali – deve essere attraversata da questo brivido missionario, non tanto perché ne parla ogni volta, ma perché mantiene lo sguardo fisso su Gesù, rivelatore del Padre e datore dello Spirito. Mentre la Chiesa predica, celebra e serve, deve avere viva la coscienza che proprio lì è esposta alla missione ed è coinvolta nella missione. Nel suo santuario più intimo, la comunità cristiana è “Chiesa estroversa”, non solo perché testimonia la fede agli uomini, ma soprattutto perché parla loro del Dio vivente e a lui li conduce.
Ne deriva che anche l’immagine della Chiesa – della diocesi e della parrocchia – deve collocarsi dentro il mandato del Padre, l’azione del Figlio e il dinamismo dello Spirito. Lo hanno detto con forza i Vescovi italiani nella loro Nota Pastorale sulla parrocchia: «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia è, infatti, la questione cruciale della Chiesa in Italia oggi. L’impegno che nasce dal comando del Signore: “Andate e rendete discepoli tutti i popoli” (Mt 28, 19), è quello di sempre. Ma in un’epoca di cambiamento come la nostra diventa nuovo. Da esso dipendono il volto del cristianesimo nel futuro, come pure il futuro della nostra società. Abbiamo scritto negli orientamenti pastorali per questo decennio che “la missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo dell’impegno pastorale, ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza”. Nella vita delle nostre comunità deve esserci un solo desiderio: che tutti conoscano Cristo, che lo scoprano per la prima volta o lo riscoprano se ne hanno perduto memoria; per fare esperienza del suo amore nella fraternità dei suoi discepoli» (Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 1).
Se il “paradigma della missione” forgia le modalità della comunione, anche un’esperienza più intensa e profonda della comunione fa ritrovare e accende maggiormente lo slancio della missione. Il volto della comunità parrocchiale diventerà missionario cominciando non tanto dalle sue iniziative, ma da una rinnovata esperienza di comunione. Il gesto con cui la parrocchia, quale icona della vita trinitaria, saprà «nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo» (Dei Verbum, n. 21), diventerà il luogo su cui si alimenta l’esperienza credente degli uomini di oggi.
Privilegiare le forme del primo annuncio, gli itinerari dell’ingresso alla fede (per ragazzi e giovani e per le famiglie), tenere aperta la porta verso i nuovi venuti, non smettere di prestare attenzione ai poveri e agli ultimi, sono già le forme della missione presenti e operanti nello spazio fraterno della parrocchia. Solo così è possibile che le iniziative missionarie – o quelle chiamate specificamente tali – non siano un innesto estraneo sul “corpo” di una comunità parrocchiale pesante e affaticata. In particolare, il farsi carico della fede e dell’umanità del fratello comincia dall’Eucaristia domenicale e termina sino ai confini della terra.
3 – Il mandato della missione: «fate discepole tutte le genti»
Continuiamo, con pazienza e amore, ad ascoltare le parole del Risorto. Esse, a partire dal centro della signoria d’amore di Cristo, disegnano le linee portanti della missione e il volto della Chiesa quale comunione missionaria. Il manifesto-programma di Matteo continua con le parole: «Andate, dunque, fate discepole tutte le genti!» (Matteo 28, 19a).
La vita trinitaria ricevuta è la vita stessa che bisogna donare, che occorre trasmettere non come un dono proprio, ma come una realtà da cui si è continuamente generati. E così al centro sta l’immagine della Chiesa “madre”, che genera figli fra tutte le genti.
Possiamo allora cogliere e approfondire il senso autentico del testo di Matteo, centrandolo sulla maternità della Chiesa, riscoprendo così la sua capacità, totalmente e incessantemente ricevuta in dono, di generare figli alla fede.
In realtà, il comando di Gesù contiene, tra gli altri, tre aspetti della maternità della Chiesa: la sua forma (continuando ad andare), l’imperativo centrale (fate discepole) e i destinatari (tutte le genti).
Proviamo a raccoglierli e definirli brevemente.
La forma della maternità della Chiesa: “continuando ad andare”.
Il comando di Gesù si presenta nella forma di un “invio”, di un mandato, più precisamente di un mandato che indica il compito “interminabile” dell’evangelizzazione. Non è un compito in proprio o da assolvere da soli, ma è ricevuto come un dono dentro un mandato personale e, tuttavia, sempre in compagnia di altri, dentro un orizzonte ecclesiale.
La missione secondo Matteo ha le sue tappe: la prima missione dei Dodici a Israele (cfr. Matteo 12, 5-6), poi l’orizzonte aperto, universale della missione pasquale (cfr. Matteo 25, 32). E queste tappe si devono percorrere secondo le sue istruzioni (cfr. Matteo 10) e le sue attenzioni (cfr. Matteo 18).
Troviamo così nel Vangelo alcune grandi pagine della missione, che delineano le figure degli evangelizzatori. Sono figure “esemplari” per la Chiesa d’ogni tempo e d’ogni spazio, figure destinate a farsi vive e palpitanti in uomini e donne concreti: i missionari e le missionarie. E in realtà, la missione della Chiesa può solo raccontare dei missionari e può essere narrata soltanto dai missionari. E così che l’annuncio del Vangelo diventa “forma” della Chiesa, ciò che le dà sostanza e slancio.
Il cuore della maternità della Chiesa: «fate discepole».
Il testo di Matteo, tradotto di solito con «ammaestrate», va reso meglio con «fate discepole». È questo l’imperativo centrale del programma di Gesù, l’obiettivo sintetico attorno al quale si dispongono gli altri momenti (andando, battezzando, insegnando). Il programma di Gesù non dice di fare inviati, ma di creare dei discepoli, perché solo se si è discepoli si può essere missionari. La maternità della Chiesa viene anzitutto dall’esperienza dell’essere generati in Cristo, dell’appartenenza al Signore nel discepolato, del generare figli alla fede e fratelli nella carità, del creare fra tutti i popoli un luogo di comunione.
La Chiesa è artefice di evangelizzazione, perché anzitutto è luogo della comunione. Questo è il mistero della maternità della Chiesa: essa genera figli, perché dall’inizio alla fine è una Chiesa che nasce dalla Pasqua. Solo se, nel discepolato, accoglie il Vangelo e si lascia formare da esso, la Chiesa può trasmetterlo come il tesoro nascosto e la perla preziosa. È quanto ci ha ricordato Paolo VI nell’esortazione sinodale Evangelii nuntiandi: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore. Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare “le grandi opere di Dio”, che l’hanno convertita al Signore, e d’essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo» (n. 15). In una parola, la forma della Chiesa è il Vangelo accolto e vissuto.
Il destinatario della maternità della Chiesa: «tutte le genti».
Il comando di Gesù è rivolto e destinato a “tutte le genti”: la Chiesa, infatti, è universale nel suo slancio, perché è locale nel suo insediarsi tra i popoli. Paradossalmente «tutte le genti» possono diventare discepole solo facendo una Chiesa di popolo.
E questo, non perché la comunità locale venga dalla carne e dal sangue o sia legata ad una razza, ma perché apre ogni popolo all’orizzonte dell’universalità. E l’universalità cristiana non è una generica dissoluzione delle culture in una sorta di globalizzazione delle identità peculiari dei popoli, degli stili di vita e delle coscienze.
La sottolineatura della finale del Vangelo di Matteo è veramente sorprendente, se si pensa che l’Evangelista è di origine giudaica e scrive per una comunità composta in prevalenza da giudeo-cristiani. La pagina finale del Vangelo appare, dunque, come un raggio di luce, una finestra aperta sul mondo e una profezia sul futuro. Potremmo dire che questo comando di Gesù «fate discepole tutte le genti» è stato la stella polare di tutti i missionari, la stella che non ha fatto perdere la rotta di fronte alle difficoltà, ai pericoli, agli insuccessi e, persino, al rifiuto e al martirio.
Vorremmo onorare qui tutti coloro che hanno dedicato la loro vita alla missione: laici, religiosi, sacerdoti e persino famiglie, che si sono avventurati nel cuore dell’Africa, che hanno attraversato l’Oceano per raggiunge le Americhe e che hanno intravisto l’attesa di Cristo anche nelle grandi religioni e culture del continente asiatico. Vorremmo ricordare la promettente figura dei sacerdoti e laici fidei donum, che dedicano un tratto della loro vita e del loro ministero a portare il volto della Chiesa locale in missione.
Ma soprattutto, i credenti delle nostre comunità cristiane sono chiamati a non essere sordi o indifferenti, ma a sentire – e con grande forza – il richiamo all’autenticità evangelica che proviene dalla testimonianza di questi fratelli.
«Rimaniamo, infine, in umile e saggio ascolto dell’esperienza cristiana delle Chiese di missione. È un’esperienza che, in particolare, può aiutarci a dare il giusto primato alla testimonianza dei martiri, riconoscendo in loro la vera misura del cristiano. Sono, infatti, i martiri, di cui le Chiese di missione sono ricche anche ai nostri giorni, a offrirci una indicazione di straordinario valore. È l’appello a “seguire il Signore fino a dare, come lui, la vita per i fratelli: nella difesa dei diritti dei più poveri, nell’affermazione della dignità di ogni persona anche se debole, nella condivisione e solidarietà con chi è vittima della ingiusta violenza, nella professione della fede che non è stata ridotta al silenzio dalle minacce. I martiri invitano la nostra Chiesa a contare non sulla forza e sul prestigio umani, ma sulla forza che Dio assicura a chi si affida a lui ed è fedele al suo Vangelo” (Consiglio Permanente della CEI, Lettera L’amore di Cristo ci spinge alle comunità cristiane per un rinnovato impegno missionario, 4 aprile 1999)» (Mi sarete testimoni, n. 95).
In positivo, si deve dire che la maternità della Chiesa è il motore della sua universalità. Ma è universale perché valorizza le ricchezze delle identità particolari di ogni popolo. Il luogo in cui si plasma il volto di una comunità è la Chiesa locale. Per questo, la missio ad gentes è il normale orizzonte della Chiesa locale, il suo respiro, la prospettiva con cui può vivere la sua dedizione alle vicende e alla storia di tutti e di ciascuno.
E allora la missione universale è la “verità” della Chiesa locale, delle parrocchie, dei gruppi, delle famiglie, di tutte quelle relazioni umane senza le quali la Chiesa di Gesù è come senza la trama viva e vitale su cui tessere il racconto cristiano. Ugualmente, la Chiesa locale è la “casa” e la “scuola” della missione universale. La plantatio Ecclesiae avviene quando una Chiesa genera un’altra Chiesa e la genera come Chiesa locale con i suoi tratti caratterizzanti: la Parola, il Sacramento e i carismi attorno al Vescovo. E dunque, la forma della Chiesa, il Vangelo accolto e vissuto, si dà nelle molteplici figure delle Chiese locali.
Un altro aspetto della maternità è quello della Chiesa come grembo generante, capace di trasmettere il Vangelo e la fede non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Ora una simile maternità si realizza in alcuni luoghi, quali la comunità cristiana, i ragazzi e i giovani, la famiglia, il mondo e le culture. È a questo livello che la nostra riflessione sul “paradigma della missione” raggiunge il suo punto più concreto. Ci restringiamo qui a segnalare due piste possibili di riflessione.
La prima: abbiamo detto che la Chiesa deve lasciarsi plasmare dal Vangelo per essere missionaria. Ora lasciarsi plasmare dal Vangelo significa che le forme di annuncio della Parola e la vicenda delle persone sono i due fuochi tra i quali la comunità credente deve continuamente fare la spola. Ciò comporta che le comunità cristiane – in particolare gli uffici missionari, in collaborazione con quelli catechistici e liturgici – devono farsi coraggiosi promotori del servizio alla Parola: con la differenziazione delle sue proposte, con l’accostamento popolare alla Sacra Scrittura, con la lettura dei segni dei tempi, con un servizio della carità (e insieme della giustizia) chiaramente ispirato alla visione cristiana della persona, con uno scambio più programmato e generoso di forze e di risorse pastorali e personali tra le Chiese vicine e le Chiese missionarie.
La seconda: la relazione con il mondo (ossia con i luoghi esistenziali e gli ambienti della vita sociale) deve diventare più comune e assidua, anche perché è questa relazione a disporre la trama quotidiana su cui innestare il “racconto” della vita ecclesiale. L’incontro con gli ambienti e i tempi della vita, in particolare i giovani e le famiglie, sono momenti privilegiati dell’attenzione alla vicenda esistenziale, senza la quale gli uomini non incontrano il Signore risorto.
Lo slogan della stagione che viene definita di “seconda secolarizzazione” sembra essere, non più il cambiamento del mondo, ma la buona qualità della vita. Al mito del progresso è seguita la ricerca affannosa del benessere, non solo materiale, ma anche psichico, spirituale, ecologico. Proprio qui s’inseriscono il messaggio e la testimonianza della fede cristiana: indicare che una vita riuscita non è solo quella che sta bene, ma anzitutto quella che cammina verso il bene. E, dunque, ha un volto vocazionale. Senza la coraggiosa proposizione del volto vocazionale della vita, anche lo slancio missionario andrà soggetto a un sottile processo di deperimento.
4 – I luoghi e gli stili della missione: la vita trinitaria e la legge nuova
Il mandato di Gesù prosegue indicando i luoghi e gli stili della missione. Il testo di Matteo è articolato attorno a due participi (battezzando e insegnando), che illustrano il ritmo della missione della Chiesa e della Chiesa in missione: «…battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 19b-20a).
Gesto e parola, azione e istruzione, sacramento e nuova legge, definiscono il ritmo pulsante della Chiesa. Entrambi però non sono solo momenti espressivi o pedagogici della vita del credente, della libertà umana mossa dallo Spirito, ma sono momenti che costruiscono e plasmano l’uomo nello Spirito, l’esistenza nella carità, la testimonianza nel mondo. Parola e Sacramento sono il ritmo della vita secondo lo Spirito, dell’esistenza cristiana, del mondo aperto al Vangelo. I luoghi e gli stili della missione sono così convergenti nel costruire la figura della testimonianza, che è la missione in atto, la vita credente pienamente conformata a Cristo, memoria spirituale creativa nel tempo presente.
Vorrei ricordare una circostanza particolare, piena di intenso significato, che si riferisce al testo di Matteo che stiamo meditando. Agli inizi del Vaticano II, quando si è trattato di dare un piano organico ai lavori dell’assise conciliare, il cardinale belga Leo Suenens aveva proposto di partire proprio da questo testo di Matteo. In quell’occasione, l’arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Battista Montini, chiese di aggiungere all’espressione classica Ecclesia santificans e Ecclesia docens anche l’espressione Ecclesia orans et patiens, che egli sentiva presente nella formula evangelica: «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». E, dunque, la Chiesa madre che compie la missione del «fate discepole tutte le genti» è la Chiesa che accompagna gli uomini, s’appassiona e soffre con la loro storia, prega con e per loro perché diventino “vangelo vissuto”.
Riprendiamo e illustriamo, sia pure brevemente, queste tre dimensioni della missione della Chiesa.
Ecclesia santificans: «battezzandole».
La prima componente della missione della Chiesa è il Battesimo «nel nome», cioè nella forza salvifica, «del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»: il Battesimo tratteggia il cammino di iniziazione alla fede. L’esistenza cristiana è essenzialmente una vita battesimale, che proprio nel Battesimo trova la sua radice e, insieme, il dono per il suo continuo sviluppo.
In tal senso, la forma adulta dell’esistenza cristiana non abbandona la forma battesimale (con tutti i Sacramenti dell’iniziazione fino all’Eucaristia), ma rappresenta la fioritura del sigillo impresso indelebilmente nel battezzato e costruisce così, nel percorso di iniziazione, la vita cristiana come una storia adulta nella fede.
La fede adulta è testimonianza che irradia nel mondo la vita battesimale. L’espressione di Paolo «Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Efesini 4, 4-5) non dice solo l’unità dell’organismo sacramentale, ma anche la diversità dei doni dello Spirito Santo, la forma cristiana dell’unità nella diversità, come immediatamente precisa l’Apostolo: «A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (Efesini 4, 7). Il Vangelo per il mondo trova qui una sua singolare bellezza e persuasività: essere sale, luce e lievito (cfr. Matteo 5), perché la vita battesimale è costruzione dell’identità nello scambio della diversità, è comunione dei doni e dei servizi per l’utilità comune.
Ecclesia docens: «insegnando loro».
La seconda componente della missione presenta la tavola della “nuova legge” del cristiano, radicata nelle beatitudini del Regno. A chi gli chiede: «Maestro, che cosa devo fare per avere la vita?» (Matteo 19, 16), Gesù risponde: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Matteo 19, 17). L’Evangelista, al termine del suo Vangelo, riprende esattamente questa risposta: «insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 20). Alla fine c’è solo un richiamo sintetico, perché il lettore del suo racconto ha già ascoltato tutto il grande “Discorso della Montagna”, rivolto ai discepoli e attraverso di loro alla folla. In questo Discorso, Matteo ha svolto il canovaccio della “giustizia superiore” del cristiano (cfr. Matteo 5, 20. 48), la rilettura dei comandamenti e delle opere della legge, il cammino di una preghiera e di una confidenza secondo il cuore del Padre celeste (Matteo 5-7).
Ora, questa “legge nuova” del cristiano, «la legge dello Spirito che dà vita» (Romani 8, 2), è il banco di prova dell’evangelizzazione dell’humanum, cioè dell’uomo nei suoi atteggiamenti e comportamenti, nelle sue decisioni e azioni, in una parola del suo agire etico, libero e responsabile: un agire che deve lasciarsi illuminare e plasmare dalla Pasqua di Gesù (cfr. Romani 8). L’evangelizzazione del quotidiano, delle forme della vita, dei passaggi dell’esistenza, è lo stile della missione, che non è solo rivolta a tutti, ma che dimora presso ciascuno, nella “condizione in cui era quando venne alla fede” (cfr. 1 Corinzi 7, 24).
La Chiesa è “maestra”, soprattutto quando resta discepola del Signore e siede ai suoi piedi nell’ascolto della Parola. Allora “racconta” parole di vita, che si sono fatte carne nel suo grembo e nell’agire concreto della carità.
Ecclesia orans et patiens: «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
La missione che santifica e che è maestra di verità plasma la vita cristiana come esistenza trinitaria. La formula di Matteo parla di un battezzare «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Matteo 28, 19), probabilmente rifacendosi già alla pratica liturgica del Battesimo.
Una vita contrassegnata nella sua radice in modo trinitario esprime il senso primo e ultimo – il logos e il telos – della missione della Chiesa: essere a fianco degli uomini, come esperienza viva del “regno tra noi in forza dello Spirito” (cfr Matteo 12, 28); essere una Chiesa che accoglie ed è colmata dall’energia dello Spirito, che è presente nei suoi gesti e in particolare nella sua preghiera (Ecclesia orans), e che, per questo, è resa capace di abitare le forme dell’humanum, di assumerne le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e diventarne compagna di viaggio (Ecclesia patiens).
Il luogo dove la Chiesa patisce e si appassiona alla vicenda degli uomini, lo stile dove essa ha una sua parola originalissima da dire, lo spazio dove realizza la sua singolarità ecclesiale è il servizio alla comunione. Il suo servizio tipico è la promozione dei carismi, delle vocazioni e dei ministeri, perché si realizzi la sinfonia della Chiesa. Se essa sceglie il povero, se parte dagli ultimi, è per trovare il senso autenticamente evangelico della comunione: quello che consiste non solo nel rispondere al bisogno, ma anche nel liberare il bisognoso, immettendolo come membro attivo e responsabile nella fraternità ecclesiale. L’inizio della missione è la vita trinitaria, il suo termine è il credente nella Chiesa. La missione della Chiesa consiste, infatti, nel far circolare la vita di Dio nell’uomo e nell’innalzare l’uomo alla visione di Dio. La Chiesa è così relativa al mistero di Dio e alla figura dell’uomo: questo è il volto della Chiesa di Gesù.
È facile, a questo punto, vedere alcune linee di ricerca, che coinvolgono in un’ottica missionaria tutti temi della vita della Chiesa, in modo che la sua pastorale sia veramente “missionaria perché comunionale” e “comunionale perché missionaria”.
Li elenco perché possano costituire l’oggetto del vostro scambio: 1) l’iniziazione cristiana (postbattesimale dei ragazzi e degli adolescenti); 2) l’attenzione a nuove forme di introduzione alla fede per catecumeni o per “ricomincianti”; 3) l’iniziazione alla vita matrimoniale e l’accompagnamento dei primi anni di matrimonio; 4) le forme di presenza evangelica nella vita sociale (lavoro, sanità, tempo libero, ecc.) e nell’animazione culturale (educazione, scuola…); 5) la presenza nella sconfinata area del disagio e del bisogno.
Occorre, però, indicarne subito il criterio ordinatore nella linea della “conversione pastorale”, come è proposta nel bellissimo numero 43 della lettera Novo millennio ineunte del Papa in merito alla “spiritualità della comunione”.
Al di là dell’elenco, a titolo d’esempio, vorrei dire una duplice parola: la prima sulle nuove forme di introduzione alla fede, la seconda sulla preparazione e sull’accompagnamento dei primi passi della vita di famiglia.
La prima: la parrocchia deve far spazio alle forme di annuncio verso i “nuovi venuti”, con l’attenzione alle nuove situazioni spirituali e pastorali. Anche nelle nostre comunità ormai non si può più pensare che il nostro annuncio abbia un destinatario naturalmente credente. Le forme di accesso alla fede oggi sono molto differenziate: c’è chi è solo battezzato anagraficamente e non ha la “lingua” cristiana di base; c’è chi si è fermato alla formazione primaria dei Sacramenti dell’iniziazione; c’è ancora chi vive un cristianesimo tradizionale, le cui forme appartengono più a modi devozionali che non ad una figura adulta della fede.
Ora, si tratta di annunciare il Vangelo tenendo conto di queste situazioni diverse, non coltivando l’illusione che il destinatario sia ancora quello di un mondo chiuso e senza comunicazioni. Comunque, si dovrà continuare a dire, in modo chiaro e forte, che il Vangelo non è annunciato senza annunciatori autentici, ossia senza la convinzione, la gioia e l’entusiasmo di chi trasmette un messaggio che continua ad essere, prima di tutto, per sé vivo e vitale, bello e vero, rispondente, anzi eccedente, a tutte le proprie attese.
La seconda: la parrocchia dovrà avere una cura particolare nella preparazione al matrimonio e per i primi passi della vita familiare. Se la missionarietà parte anche dalla percezione di una domanda, di un bisogno urgente, certamente la vita di famiglia appare oggi la più lontana dalla penetrazione del Vangelo. Soprattutto la famiglia dei primi anni di matrimonio appare “clandestina” nella vita delle nostre comunità cristiane, travolta com’è dalla fatica di costruire una famiglia con il lavoro, i bimbi e il… mutuo da pagare.
Ma la famiglia, in questi suoi primi anni di vita, è anche in un momento particolare di grazia, perché vive le esperienze originarie della vita, l’incontro affascinante dello sposo con la sposa e lo stupore della generazione dei figli. Se il Vangelo non dice la parola della grazia nel grembo della vita, come può il Vangelo essere il Vangelo di Gesù, il Figlio del Padre? È qui, nella famiglia, il luogo che genera e alimenta la dinamica comunionale della vita cristiana: se perdiamo questo luogo sorgivo, l’intervento successivo della Chiesa arriverà sempre troppo tardi e, in ogni caso, assumerà un carattere prevalentemente “terapeutico”.
E non sono, forse, questi gli elementi più comuni e abituali, ma insieme più fondamentali e decisivi, di una missio ad gentes che sola può rinnovare in profondità la missionarietà delle nostre comunità parrocchiali di cosiddetta tradizione cristiana?
5 – Il tempo della missione: «Io sono con voi fino alla fine»
L’ultima tappa della missione del Risorto ritorna al centro della fede, alla promessa di Gesù per il tempo della missione. È l’ultima parola del Vangelo. È una parola di commiato di Gesù, che però non prende congedo da noi. In realtà, la missione non è il prolungamento di Gesù, una volta venuto meno il Signore: la missione della Chiesa si alimenta continuamente alla certezza del Risorto presente: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo 28, 20b)
Se Matteo, all’inizio del suo racconto evangelico, aveva fatto proclamare dall’angelo che il bambino Gesù è il «Dio con noi» (Matteo 1, 25), ora è a Gesù stesso, il Vivente, che fa dire la rassicurante promessa: «Io sono con voi» per sempre (cfr. Matteo 28, 20). All’inizio del Vangelo, il Dio dell’alleanza prende volto di uomo nel Dio-con-noi. Alla fine del Vangelo, la promessa di Gesù ci accompagna per sempre nell’Io-sono-con-voi del Risorto.
Il volto del Crocifisso glorificato risplende “nel tempo”, perché la missione della Chiesa plasmi il destino trasfigurato dell’uomo. E ci accompagna “in ogni tempo” con il suo Spirito. Perciò Matteo ci assicura che lo Spirito parla in noi «tutti i giorni», nelle tribolazioni, nel contrasto della storia: «Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Matteo 10, 20). Il futuro è presente nella promessa di Gesù e nello Spirito del Padre, che è la promessa fatta storia: “sino alla fine del mondo” (cfr. Matteo 25).
La missione della Chiesa è, dunque, collocata tra la signoria del Risorto e la sua venuta alla fine del mondo. Gesù non abbandona la sua Chiesa. Il suo Spirito la accompagna ad essere nel mondo una “memoria spirituale” del Risorto, per rendere Cristo “cuore del mondo”. In realtà, le grandi visioni della missione della Chiesa hanno sempre messo al centro del mondo il Risorto, punto gravitazionale della storia. Anzi punto di coesione della creazione tutta.
La missione è così salvata da un attivismo defatigante e frustrante o dalla paura e trascuratezza di chi non si arrischia a leggere i segni dello Spirito nelle pieghe del tempo: a leggerli, sì, ma ancor più a seguirli e a realizzarli.
Lo stile della missione cristiana si colloca tra due gesti di gratuità: le due monete d’argento con cui il Signore Gesù ci ha comprato a caro prezzo e il sovrappiù che rifonderà al suo ritorno (cfr. Luca 10, 35). Il tempo della missione è lo spazio della Chiesa: Gesù bussa alla sua porta e le lascia in custodia l’uomo. Anzi ogni uomo che, sulla strada da Gerusalemme a Gerico, è stato ferito e a cui hanno portato via tutto. E dice alla Chiesa e al credente: “Abbi cura di lui!”. La cura della Chiesa e la dedizione del credente sono accompagnate, dall’inizio alla fine, dalla promessa di Gesù: «Ecco, io sono con voi!».
È questa la spiritualità della missione, perché la missione della Chiesa è animata dal soffio dello Spirito. Abbiamo bisogno di vedere intorno a noi uomini e donne spirituali, non di uno “spirito” fiacco, debole, preoccupato del proprio benessere, delle proprie armonie e riuscite personali, ma animati dallo “Spirito di Gesù” forte e coraggioso.
La spiritualità missionaria ha bisogno di missionari “spirituali”, donne e uomini capaci di sognare e prevedere, pionieri che sappiano additare alla Chiesa nuovi cammini di comunione. Anche nello stile della vita personale, nella povertà reale e nell’umiltà del servizio, nella preghiera costante e nella forza ardimentosa che si affida solo a Dio, come ci hanno testimoniato molti preti e laici fidei donum e innumerevoli missionari a tempo pieno.
+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano