Le paole tradite nel linguaggio dei mezzi di comunicazione
Corso di formazione alla Mondialità e Missionarietà
6 marzo 2009
LE PAROLE TRADITE NEL LINGUAGGIO DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE
Giulio Albanese
Al corso di giornalismo alternativo e missionario, alla Gregoriana, ogni volta che iniziamo abbiamo un esempio, una sorta di metafora che il sottoscritto e l’assistente raccontano agli studenti ed è quella della minigonna. L’interrogativo che si pone rispetto alla comunicazione è: quali caratteristiche devi avere per riuscire ad essere ad effetto, per riuscire a fare breccia nel cuore, nell’animo dell’interlocutore? Deve essere proprio come una minigonna, vale a dire, sufficientemente lunga per coprire l’essenziale, sufficientemente corta per destare l’interesse, aderente alla vita e, qualcuno ha aggiunto provocatoriamente, con uno spacco sul mistero. Voglio dire che, quando comunichiamo, non possiamo pretendere di raccontare tutto. Una cosa curiosa è che questo esempio ce lo ha portato proprio una femminista che abbiamo avuto al primo anno di corso. In effetti quando parliamo, quando cerchiamo, in una maniera o nell’altra, di veicolare dei messaggi, ciò che conta davvero è come dicono gli inglesi essere street to the point, la verità è che invece il nostro dissertare è pesante e addirittura con le parole si può dire tutto e il contrario di tutto, si può confessare la verità e dire la menzogna. Potremmo portare tanti esempi. Uno di questi è il termine “emergenza”. Stando al vocabolario dovrebbe trattarsi di una “situazione eccezionale”, di uno stato di allarme, avviso di pericolo, ma se uno accende la televisione, sfoglia i giornali e ascolta la radio non c’è notiziario che sia senza un’emergenza nei titoli e nei pezzi che seguono; in particolare per quanto concerne la nostra Italia sembra che ogni cosa sia diventata un’emergenza: rifiuti, maltempo, prezzo dei carburanti, giustizia, immigrazione. Mi viene in mente quello che scrive Luca Goldoni: “bisognerebbe cambiare la definizione scritta nel vocabolario in questo modo: emergenza = stato di assoluta normalità”, perché non v’è dubbio che passiamo da un’emergenza all’altra. Questo esempio dimostra proprio la banalità del nostro linguaggio in particolare del linguaggio giornalistico, ma non è tutto qui. Vi sarà capitato di leggere questa espressione, “guerra umanitaria”: come si fa a conciliare il concetto di guerra, di belligeranza con il dato umanitario? Altre espressioni sono: un omicidio efferato (un omicidio è un omicidio e basta), una sanguinosa battaglia (è mai esistita battaglia dove non corre il sangue?). La nostra è una lingua meravigliosa che vive di magie in cui ci sono alchimie tra sostantivi, avverbi, aggettivi e allora viene spontaneo chiedersi come mai dovremmo ridurla a un coma perenne. Cercheremo insieme di capire cosa c’è dietro questa babele di linguaggi e parole che tante volte ci impediscono di comunicare e dunque di capire i fatti e gli accadimenti della realtà in cui viviamo immersi.
Dando una sbirciatina al dizionario scopriamo che il termine “comunicare” è composto fondamentalmente da due parole latine: dal prefisso cum e dal derivato di munus (incarico, compito, missione), per cui “comunicazione” potrebbe voler dire letteralmente “che svolge il suo compito insieme con altri”. Considerate che da questa radice derivano nella lingua italiana tutta una serie di parole: comune, comunione, comunità, comunanza e appunto il verbo comunicare. E queste sono tutte parole che indicano complessivamente la dimensione del rendere partecipi più soggetti tra loro; questo da un punto di vista missionario e teologico mi pare molto importante, scusate la digressione, ma in fondo a pensarci bene, se uno si confronta con il dettato evangelico, per esempio col prologo del Vangelo di Giovanni (Gv 1,14) “E il Verbo si fece carne”, chi è Gesù Cristo? E’ il Verbo. Gesù è stato il più grande comunicatore della storia, nella fede dal nostro punto di vista. Non v’è dubbio che la comunicazione è estremamente importante al punto tale che la missione è comunicazione in questo senso, in fondo la missione da un punto di vista etimologico, è proprio nel dna di questa parola “comunicare” proprio perché se uno comunica lo fa perché vuole coinvolgere altri soggetti per una missione, per uno scopo, e questo è molto importante. Proprio per non rimanere nel mondo delle idee, pensiamo al mondo della politica, del sindacato, della cooperazione internazionale, al mondo ecclesiastico, missionario, sono tutte realtà che dovrebbero trasmettere messaggi incentrati per esempio sul rispetto della res publica, delle regole, della dignità umana, della religione, non possono proprio prescindere da questo binomio, cum-munus, cioè dalla dimensione partecipativa rispetto alla loro precipua missione. A questo punto credo che sia importante cominciare ad affrontare i problemi. Il primo nodo da sciogliere riguarda la relazione tra la comunicazione ad intra e la comunicazione ad extra. La prima è quella che avviene nel nostro ambito, nel nostro piccolo cerchio, persone che appartengono a questa o quella organizzazione, a questa o quella chiesa, a questo o quel partito. Negli stati democratici moderni e nella società civile moderna c’è la consapevolezza che la qualità della comunicazione ad extra dipende dalla qualità della comunicazione ad intra. Non è un caso se Giovanni Paolo II in un bel documento Esortazione Apostolica Ecclesia in Africa scriveva tra l’altro: “La Chiesa prende coscienza del dovere di promuovere la comunicazione sociale ad intra e ad extra. Essa intende favorire la comunicazione al suo interno migliorando la diffusione dell’informazione tra i suoi membri e ciò a vantaggio del comunicare al mondo la Buona Novella dell’Amore di Dio rivelata in Gesù Cristo”. Andando per ordine, occorre anzitutto comunicare bene ad intra e qui dobbiamo constatare che vie è spesso un deficit di comunione, per cui varie componenti, poco importa se siano politiche, sindacali o ecclesiali, si muovono con uno spirito di forte autoreferenzialità veicolando, a volte, messaggi, e questo è il punto, in contraddizione o competizione gli uni con gli altri. Per esempio pensiamo al mondo della solidarietà, della cooperazione, delle Ong, delle associazioni missionarie, spesso il proprio specifico prende così tanto il sopravvento per cui non si riesce poi a comunicare in maniera intelligibile fuori, ad extra. Ma questo non succede, a volte, solo all’interno delle federazioni, delle associazioni, dei cartelli, ma anche all’interno dei nostri piccoli gruppi e questo deve farci riflettere, questo è sintomatico di una incapacità di ascolto per cui spesso abbiamo la presunzione di dire “stiamo dialogando” ma di fatto non lo stiamo facendo. Il dialogo è una sorta di espediente tattico per prendere tempo perché poi alla fine ciò che conta è affermare le proprie convinzioni all’altro e uno rimane in silenzio, nella migliore delle ipotesi, per prendere fiato. Sta di fatto che la nostra comunicazione ad intra, tante volte, anche nell’ambito ecclesiale, lascia molto ma molto a desiderare. In questa prospettiva certamente qualcuno direbbe che si avverte l’esigenza di un maggiore coordinamento. Ma non è tutto qui, vi è spesso la tentazione, e questo è il punto, di far coincidere la comunicazione ad intra con quella ad extra. Questo è un aspetto che noi riscontriamo proprio nell’ambiente ecclesiale, un esempio è il nostro modo di predicare, durante le omelie, e cioè il fatto di utilizzare un gergo che ha a che fare più con il politichese, un linguaggio che non tocca il cuore della gente e che dovrebbe farci riflettere, ma la verità è che quello che la gente ci chiede è di spezzare il Pane della Parola, di essere comprensibili, invece molte volte il nostro è un linguaggio da iniziati, per cui quello che diciamo non solo crea confusione ma in molti casi viene rigettato. Insomma la parola non raggiunge il cuore delle persone. Mi viene in mente una bella riflessione proposta da un biblista brasiliano di origine belga José Comblin autore di un saggio pubblicato in Italia negli anni ‘80 dall’editrice Missionaria Italiana dal titolo “La forza della parola”. Nell’introduzione l’autore pone un interrogativo che tutti dovremmo porci: “Perché oggi milioni e milioni di parole non suscitano altro che indifferenza o noia? Molte volte sperimentiamo che nella Chiesa si parla molto per non dire nulla, che molti discorsi sono incomprensibili, che esiste una sorta di barriera tra il mondo contemporaneo e i discorsi ecclesiastici. E’ forse stato smarrito il segreto della Parola forte di Dio”, in sostanza uno sale sul pulpito, può anche chiacchierare per un ora e non dire nulla. Non voglio esagerare perché sappiamo che nella nostra Chiesa ci sono anche persone capaci di comunicare il Verbo, la Parola forte di Dio. Ma non v’è dubbio che vi è un deficit di comunicazione e questo è un aspetto sul quale ognuno di noi dovrebbe riflettere e meditare e fare un esame di coscienza, anche perché c’è bisogno in una maniera o nell’altra di toccare la gente nel cuore, nell’animo.
L’informazione è una delle tante forme di comunicazione. Il contenuto semantico di questa parola significa letteralmente “dare forma” e il prefisso “in”, è uno dei pochi casi in italiano, non ha l’accezione negativa ma ha un significato accrescitivo, informare vuol dire dare forma, plasmare. A pensarci bene quello che dovrebbero fare tutti i media, tutti i mezzi d’informazione. Credo che dovremmo avere il coraggio di dire a certi organi a certe istituzioni nell’ambito giornalistico che non è possibile aprire un notiziario di punta della sera (prima serata) con la notizia del vincitore del “Grande Fratello” perché al direttore di una testata che ha l’ardire di aprire in quel modo il notiziario, nella migliore delle ipotesi, bisognerebbe dire di ritirare la tessera giornalistica, dovrebbe essere espulso dall’ordine dei giornalisti. Viene spontaneo chiedersi in che senso l’informazione può dare forma alla realtà nazionale e internazionale unitamente alla vita della gente? La risposta è che informando si dà ordine alle notizie: sia in senso stretto di eliminazione del disordine, sia in quello più ampio di ricerca della verità e di riduzione della complessità determinata da un indice di notizie, attraverso un sano discernimento sulle fonti. Il concetto di fondo è che è difficile dire tutto allora bisognerebbe avere il coraggio di partire sempre dalle notizie più importanti. Mi viene in mente quello che scrive in un suo recente saggio, dal titolo “La questione”, il grande Sergio Zavoli, citando proprio fonti statunitensi: “di fatto, degli accadimenti rilevanti che avvengono nel nostro povero mondo-villaggio globale, solo il 10% di questi vengono rilanciati dai media internazionali”, questo che cosa significa? Che c’è un 80% di accadimenti che rimangono nel cassetto. In altre parole sappiamo poco o niente di quello che succede nel nostro povero mondo e in particolare nel sud del mondo dove vive oltre 3/4 della popolazione mondiale. Del sud del mondo si parla poco e male. Nella migliore delle ipotesi durante l’ultimo notiziario televisivo della notte e in poche righe tra le “brevi” nei quotidiani, l’abbiamo visto recentemente con la vicenda del sequestro di due nostre connazionali in Kenya poi trasferite successivamente in Somalia. In quel caso qualcuno potrebbe dire che c’era un silenzio stampa imposto prima dalla Farnesina e poi condiviso, comunque, dai familiari, ma la questione è un’altra: è possibile che si debba parlare della crisi somala solo in coincidenza con un evento di questo tipo, e cioè il sequestro dei missionari o addirittura l’uccisione di questo o quel connazionale, di questo o quel volontario missionario? L’assurdo è che le vere ragioni che determinano questa diffusa conflittualità che non fa notizia non vengono mai raccontate, tutto è banalizzato all’estremo. Della crisi somala si dice che è una crisi legata innanzitutto al fatto che a Mogadiscio imperversano i signori della guerra i war lords, in sostanza è una questione etnica, poverini sono primitivi, sono violenti…Questo è l’approccio più facile, che tutto sommato ci conviene, e queste sono le parole che utilizziamo: guerra etnica. Ma quello che voglio dirvi è un discorso che riguarda le libere coscienze e chi ama davvero il giornalismo che deve dare voce a chi non ha voce. Negli Usa è nato un movimento di pensiero “News not in the news” cioè coloro che vogliono andare al di là della notizia per cercare la notizia. E allora scopri che la guerra in Somalia non è che si combatta perché questi sono i primitivi…ma perché la questione etnica, le contrapposizioni tra i clan sono strumentali ad interessi stranieri, per esempio innanzitutto e soprattutto il business del petrolio. La Somalia è uno dei paesi al mondo che gode di un bacino petrolifero indicibile, dagli gli ultimi dati dovrebbe essere il secondo nelle Afriche; la Somalia galleggia sugli idrocarburi e non c’è solo petrolio c’è anche tantissimo gas, si dice addirittura più che in Algeria. E non solo, in Somalia c’è moltissimo uranio, sul versante dell’Ogaden, la striscia di terra contesa con l’Etiopia. E’ chiaro che queste guerre si combattono per il dio denaro. Racconto sempre la citazione di un grande economista francese, Frederic Bastiat: “Dove non passano le merci, passano gli eserciti”, e se questo era vero per l’Europa dell’800, lasciatemelo dire, è vero soprattutto per le Afriche di oggi.
Parlo sempre di Afriche al plurale perché è un continente 3 volte l’Europa, è un crogiuolo di culture ancestrali, ma possiamo davvero fare di tutte le erbe un fascio? Possiamo parlare di queste guerre dicendo semplicemente che sono guerre tribali? Di espressioni fuorvianti ce ne sono tante. Si parla di tribù, il termine tribù è un termine coloniale, sarebbe più rispettoso parlare di etnia. I Baganda, uno dei più grandi gruppi etnici in Uganda, sono circa 8-9 milioni e sono chiamati tribù…,gli svizzeri quanti sono? 3-4 milioni, loro sono un popolo. E’ tribalismo quello che succede nella Repubblica Democratica del Congo? Non è tribalismo lo stesso quello che succede nei Balcani? O che è successo da noi durante la seconda guerra mondiale? Purtroppo molte volte le nostre parole sono inficiate davvero dai germi del razzismo. Per esempio quando si parla delle lingue africane si dice che sono dialetti perché, quando i missionari sono arrivati lì, ancora queste lingue non erano lingue scritte erano solo orali. Devo dire che la prima volta che sono andato nelle Afriche, in Uganda agli inizi degli anni ’80, i miei superiori mi chiesero di studiare la lingua locale a Kampala, la lingua dei baganda in Uganda, in una cultura che è quella kiganda. La grammatica più concisa sono 300-400 pagine scritte da un missionario dei Padri Bianchi, con 5 coniugazioni, 7 declinazioni; e questi sarebbero dialetti? Molte volte da parte nostra c’è proprio questo atteggiamento superficiale che è dettato da una sorta di superiorità etnica, è quell’etnocentrismo che riaffiora per cui la nostra cultura prende il sopravvento sulle altre culture e dunque anche il nostro modo di comunicare. I nostri linguaggi non fanno altro che affermare questa superiorità che, certamente, in un mondo villaggio globale dove prendiamo sempre più coscienza che abbiamo un destino comune, la recente crisi dei mercati la dice lunga. La sfida in questo senso ha innanzitutto e soprattutto una valenza culturale. Sta di fatto che, tornando all’informazione di cui sopra, oggi tutto sembra ridursi ad una specie di rotocalco soprattutto per quanto riguarda la trasmissione televisiva: un rotocalco provinciale infarcito di calcio, cronaca rosa, pettegolezzi, fornelli, beauty farm, poco importa se si tratti dell’ultimo reality show fatto apposta per azzerare il cervello della gente. Io dico sempre che chi guarda il Grande Fratello dovrebbe andare a confessarsi perché è peccato mortale guardarlo, quelli che lo producono e che producono tutti i reality show altro che quaresima dovrebbero fare! Ma lo dico, non perché voglia fare il moralista, ma perché ritengo davvero che quello sia il modo migliore per congelare la massa cerebrale delle persone, perché le persone non devono pensare, perché nel momento in cui tu offri degli stimoli la gente comincia ad essere reattiva e diventa pericolosa. Questo propone un argomento che affronteremo a breve e che è proprio quello dell’infotainment. La questione di fondo è che le fiction sono a prova di congiuntivo e poi abbiamo il concorso di miss Italia per cui la tentazione, diciamo la verità, è che l’omologazione risponde sempre a logiche commerciali che fanno moda e tendenza. Non v’è dubbio che la comunicazione è un business, io dico sempre che va pure bene perché dobbiamo pur pagare gli stipendi a quelli che lavorano in aziende come la Rai e Mediaset, ma soprattutto perché chi fa informazione, è inutile nasconderselo, la sfida sta proprio nel riconciliare quelle che sono le leggi del mercato, che vanno accettate, con quella che è la sfera dei valori che è sacrosanta e purtroppo vediamo che questo, molte volte, non avviene, al punto tale che il peso specifico del prodotto si abbassa sempre di più. Non credo sia temerario affermare che il nostro sistema televisivo a livello nazionale, indipendentemente dalle targhette, lascia molto ma molto a desiderare.
Se i temi sono di respiro internazionale, soprattutto per quanto concerne l’informazione, nella migliore delle ipotesi, sono riprodotti stereotipi stile western dove fin dalle prime battute si sa chi sono i buoni da una parte, e i cattivi dall’altra. I buoni sarebbero i cow boy e i cattivi gli indiani salvo che poi uno scopre che i buoni non sono poi così buoni e gli indiani non poi così cattivi anzi succede molte volte il contrario. C’è un capovolgimento delle parti. Per quanto riguarda i servizi giornalistici questi descrivono il mondo per contrapposizioni estreme e qui sta il germe della banalizzazione che tante volte si esprime proprio attraverso le parole: “buono/cattivo”, “nero/bianco”, “reazionario/rivoluzionario”, “fascista/comunista”, e qui la colpa non è solo di chi fa informazione, soprattutto in Italia grande responsabilità ricade sulle nostre classi dirigenti che tante volte nel loro linguaggio radicalizzano il confronto. Si ha addirittura la sensazione che l’essenziale, per chi opera nel mondo della stampa, non sia informare di che cosa succede negli altri paesi ma di contenere questa informazione come fosse un gioco in cui gli uni sorvegliano gli altri. Se entrate nella stanza di un direttore del tg vedete che ha due o tre televisori accesi, uno è quello di CNN, l’altro è BBC e un altro canale europeo, e la cosa curiosa è che questi signori non fanno altro che seguire le scalette delle notizie che vengono date dagli altri tg per poi ricopiarle e, in sostanza, non si fa altro che studiare quella che sarà la mossa del proprio avversario. Quindi che cosa succede? Per esempio, quando scoppia una cristi internazionale come quella irachena tutte le principali testate, in questo modo, catapultano i loro inviati nello stesso unico posto, i giornalisti arrivano a frotte e il resto del mondo non esiste, viene tutto sospeso per rispondere a presunte esigenze di mercato. Io non ho niente in contrario sul dramma umano sul versante medio orientale, anzi ho sempre sperimentato sentimenti di pietà e sofferenza pensando a tutto quello che è successo tra il Tigri e l’Eufrate. A parte il fatto che l’informazione che veniva da quelle parti era sempre un’informazione istituzionale, perché questo è un altro dei problemi del giornalismo nostrano, oggi non sono più i giornalisti che cercano le notizie ma sono le notizie che cercano i giornalisti come scrive il grande Sergio Lepri, vissuto tanti anni a Firenze, e che è stato un grandissimo maestro di giornalismo, ex direttore dell’ANSA. E sta di fatto che l’informazione è sempre più istituzionale, si fanno raffiche di comunicati stampa e si rilancia quella che è la posizione del governo e successivamente dell’opposizione, dei governativi e successivamente dei ribelli, non si dà voce alla gente. Io credo che il giornalismo sociale e quello missionario consista innanzitutto nel dare voce alla gente, nel fare il tifo per la società civile. Addirittura la denuncia si serve della satira televisiva, questo è il colmo, oggi per denunciare le cose, per fare controinformazione devi ricorrere alle “Iene” di Italia 1. Un anno e mezzo fa ci fu un’inchiesta fatta molto bene dagli amici delle Iene sull’ignoranza della nostra classe dirigente (di destra, centro e sinistra), quando per esempio fu chiesto ad un nostro deputato, che è stato naturalmente rieletto, dove fosse il Darfur, questo credo che abbia risposto che era una marca di caramelle. Oppure quando hanno chiesto chi era Mandela hanno risposto che è un presidente latino americano. Questi sono i rappresentanti del popolo in Parlamento. A questi andrebbero sospesi i diritti civili. Io ho detto ad esponenti politici senatori di destra e di sinistra, con i quali ho partecipato ad un convegno sulla comunicazione, che prima di entrare in Parlamento tutti i nostri candidati dovrebbero fare un esame di cultura generale. Per fare controinformazione si deve ricorrere a Beppe Grillo. Che piaccia o non piaccia, o siamo d’accordo o meno, però sono i comici che in un modo o nell’altro riescono a raccontare e ad andare contro i trend tradizionali. Da questo punto di vista, il ricorso ad una classificazione per generi, considerata tradizionalmente uno strumento utile nell’analisi della televisione dinamica intesa come specchio dei cambiamenti della cultura di massa, diventa assai ardua perché oggi non si riesce più a distinguere i generi. E’ sempre più difficile cogliere la differenza, ad esempio, tra un dibattito sulla fame nel mondo e un duetto tra comici; negli ultimi anni, infatti, è diventato praticamente impossibile identificare categorie fisse di trasmissioni. Se prima era possibile suddividere le trasmissioni televisive nelle due grandi macro categorie, da una parte l’informazione pura, e dall’altra l’intrattenimento, ora non lo è più e soprattutto, con l’avvento dei grandi contenitori, si mescola quotidianamente, fin dalle prime ore, sacro e profano. E questo lo vediamo dappertutto. Nel 2005 ebbi un’accesa discussione con l’amico Paolo Bonolis perché mi ero permesso fraternamente di polemizzare su tutta quella campagna sul Darfur che era stata portata avanti sul teatrino sanremese, io dicevo: ma ci rendiamo conto che il dramma della gente in quella maniera viene banalizzato? Non si possono mettere nani e ballerine di fianco alla gente che rischia la vita sotto la spada di Damocle di questo o quel regime. L’importante è dare voce, l’importante è che abbiano visibilità ma non ci si rende conto che l’informazione, i generi di informazione hanno una loro dignità che va rispettata. Io preferirei, invece, che i nostri notiziari televisivi e radiofonici fossero più attenti alla cronaca del sud del mondo. Qualcuno dice che quelli sono accadimenti lontani, ma questa è una balla macroscopica, perché poi, quando avvengono gli sbarchi dei clandestini in Italia, non si può continuare a gridare e a lanciare allarmi se alla gente non si spiega quello che succede nelle Afriche, quello che succede in Somalia, se non si raccontano gli effetti della guerra fredda tra Eritrea ed Etiopia, se non si spiega il dramma del Congo dove dall’agosto del 1998 hanno perso la vita tra i 4 e i 5 milioni di esseri umani, ecc. Queste sono notizie che non fanno notizia, e il risultato qual è? E’ che oggi si è inventata una formula che in gergo tecnico si chiama infotainment (info=informazione, entertainment=intrattenimento). Io ritengo che l’editoria sociale, l’editoria del terzo settore, l’editoria cattolica, abbiano insieme la responsabilità di ridare all’informazione la sua dignità anche perché l’avvento del digitale televisivo con canali dedicati alla politica internazionale o alle news in genere per certi versi, già oggi, è un dato di fatto e voi sapete che la rivoluzione digitale, che qualcuno ha ritenuto una minaccia, potrebbe rappresentare, se governata, una grande opportunità. Potrebbe esserci la possibilità di andare al di là di certe logiche, che sono quelle dell’audience in cui a dettare le regole del gioco sono ancora oggi i pubblicitari, ma con la rivoluzione digitale i pubblicitari faranno una brutta fine. Qualcuno dirà che allora a dettare le regole del gioco saranno le compagnie telefoniche, e questo è vero, ma ci sono dei margini per la società civile. Come ci sono sempre stati attraverso intenet, io dico sempre che l’importante è essere presenti, nella rete, nel mondo della comunicazione, in maniera intelligente e non interessata, in altre parole strumentale.
E qui introduco quello che, a mio avviso, è davvero un altro dei nodi da sciogliere: una riflessione andrebbe spesa sul nostro modo di comunicare, e per certi versi anche di informare, nell’ambito proprio del settore solidaristico, nel quale vi è una deformazione grossolana dei messaggi. Pensiamo alla comunicazione sociale, quella che viene veicolata grazie alla mediazione del segretariato sociale o di Mediaset o della Rai, per cui la sera ci si mette davanti alla tv e ogni tanto si vedono questi spot di questa o quella Ong: a parte il fatto dell’autoreferenzialità, tutte si preoccupano di dire quello che fanno (capisco che ci sono ragioni legittime da parte di queste organizzazioni come da parte del mondo missionario e dunque dell’esigenza di fare fund raising, raccolta fondi, perché senza soldi non si riesce a portare avanti attività solidali), ma queste organizzazioni hanno perso un loro radicamento popolare per cui sono ricorse a questi sistemi di raccolta fondi attraverso i media, nati negli Usa, e che rispondono più ad una logica commerciale che solidaristica. Al di là di questa valutazione, dal punto di vista della comunicazione, e capiamo come le parole possano generare effetti devastanti, basta pensare a certi spot strappalacrime (bambini che soffrono, umanità dolente), che inducono la persona a fare che cosa? Si commuove, mette mano al portafoglio, spara una raffica di sms e pensa così di aver risolto i problemi del nostro povero mondo. Questi sono messaggi diabolici e dico sempre agli amici che lavorano nelle Ong di stare attenti perché l’effetto di questo tipo di comunicazione è devastante perché la nostra gente, attraverso questo comunicare, si è convinta, e questo è il dato scioccante, che in fondo in Africa se le cose non vanno è perché gli africani sono primitivi, sono prelogici, perché quelle popolazioni non hanno saputo fare tesoro di tutta quella valanga di quattrini che noi benefattori abbiamo riversato nelle casse dei loro rispettivi stati, quando le cose non stanno veramente così. Per carità vi sono responsabilità gravi da parte delle classi dirigenti africane, intendiamoci, ma il problema è che se si insiste troppo su questi messaggi di tipo paternalistico la gente si sente con la coscienza a posto e questo modo di comunicare strappalacrime genera nel pubblico la convinzione che in fondo abbiamo fatto pure troppo per loro, mentre non è assolutamente vero. E’ molto più difficile spiegare alla gente che sono più i soldi che gli africani e tutti i popoli del sud del mondo danno a noi, di quelli che noi diamo a loro. Se io sparo un sms l’Africa in quell’istante me ne restituisce 70, c’è un rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite che lo dimostra, io mando 1 euro e loro me ne restituiscono 70. Se noi non spieghiamo attraverso la nostra comunicazione solidale che cosa c’è dietro a questo inganno davvero rischiamo di essere pericolosi. Invece di aiutare, la nostra azione sortisce l’effetto contrario. Perché c’è dietro sicuramente la questione del debito, molte di queste nazioni hanno pagato 3-4 volte il debito, cioè i soldi che hanno ricevuto li hanno ridati indietro almeno 3-4 volte, però siccome non hanno rispettato la tabella di marcia stanno continuando a pagare gli interessi. Da un recente studio pubblicato da un gruppo di consulenti che lavora per la Banca Mondiale è uscito fuori che, se tutto va bene, le Afriche, a meno che non vi siano altre crisi dei mercati come adesso, tra 500 anni potrebbero farcela a restituire i soldi. Ma in alcuni casi gli hanno già restituiti 3-4 volte, e quindi non si ha il coraggio di stigmatizzare l’inganno. Non c’è solo il terrorismo di Bin Laden ma c’è anche il terrorismo economico. Monsignor Michael Concessao, Vescovo di Nuova Delhi, nel suo intervento al Sinodo dell’Asia avvenuto 6-7 anni fa, stigmatizzò all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle, gli effetti devastanti del terrorismo economico, prima che ci fosse questa crisi, e lui, con grande lucidità, aveva già denunciato apertamente l’inganno. Ancora, chi è che spiega attraverso la comunicazione solidale, efficace, le ragioni dell’impoverimento delle Afriche? Ragionando per luoghi comuni si dice che le Afriche sono povere. Ma non sono povere, semmai sono impoverite. Le Afriche non chiedono beneficenza, la beneficenza ha una valenza negativa è carità pelosa, le Afriche chiedono giustizia, hanno una loro dignità. Meno di un mese fa sono stato in Etiopia dove ci sono le miniere di tantalite che è un minerale contenente una percentuale elevata di tantalio il quale serve per confezionare i nostri telefonini e, nella tecnologia militare viene usato in sostituzione dell’uranio impoverito perché ha una forte capacità di penetrazione. Potete immaginare che business. I ragazzini lavorano in queste miniere a cielo aperto dalla mattina alla sera, col secchiello, e grattano questa roba radioattiva nerastra guadagnando 14 biir al giorno, circa 0,80 centesimi di euro. Questo minerale poi quando lo si vende a New York, a Wall Streeet, a Londra, in queste piazze finanziarie dove ci sono i sacerdoti del dio quattrino, altro che speculazioni, altro che operazioni criminali: questi prodotti raggiungono 300-400 e anche 500 euro al chilo. Il problema è un altro: c’è una divaricazione tra quello che viene dato ai poveri e quello che poi si fregano i ricchi. Il sistema economico è iniquo, allora la nostra attività solidaristica nei confronti del sud del mondo deve essere attenta oltre che alla solidarietà, alla sussidiarietà. Noi tante volte scadiamo nella beneficenza perché enfatizziamo l’aspetto della solidarietà dimenticando la sussidiarietà. Vivere la sussidiarietà significa sentirsi corresponsabili. Non si può mettere mano al portafoglio e sentirsi con la coscienza a posto. Vivere la sussidiarietà significa vivere una sorta di empatia esistenziale, spirituale, col cuore e con la mente, con quelle che sono le vicende di popoli geograficamente lontani ma a noi vicini nel mondo villaggio globale. Martin Luther King, che di comunicazione se ne intendeva, diceva ai suoi amici: “non dobbiamo avere paura delle parole dei malvagi, dei satrapi del nostro tempo, dobbiamo avere paura del silenzio degli onesti”.
Sempre riguardo al debito estero, c’è stato il governo algerino che 4 anni fa fece una domanda formale alle grandi istituzioni (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale). Siccome il business petrolifero stava andando bene avevano chiesto se potevano accelerare la procedura di restituzione degli interessi, e la cosa curiosa è che la risposta è stata no, dovevano rispettare la tabella di marcia. Ciò sta a significare che c’è una volontà politica che ha determinato questo stato di cose. E non si tratta di essere di destra o di sinistra, si tratta di stare coi piedi per terra e avere tanto buon senso. E poi c’è la questione del deprezzamento delle materie prime che è sconcertante.
Interventi
Domanda: In tutto questo che posto ha la logica, la gratuità, e che posto ha il sottosviluppo delle nostre menti, dei nostri atteggiamenti?
Risposta: Siamo in un contesto ecclesiale, l’iniziativa è promossa da un Centro Missionario Diocesano, non possiamo fare a meno di avere tra le mani il Vangelo e di confrontarci con l’insegnamento di Gesù. Basterebbe riflettere sulla parabola del ricco epulone. Il messaggio evangelico è forte. Lazzaro è in paradiso e il ricco epulone all’inferno. Questo si sentiva con la coscienza a posto perché lasciava cadere delle briciole, che è una condivisione, diciamo, del superfluo. Ma dal punto di vista evangelico ci viene chiesto di più. L’azione solidale va accompagnata indubbiamente da un’attenzione ai propri stili di vita. I Vescovi italiani negli anni ’80 lanciarono una campagna illuminata: “Contro la fame cambia la vita”. Nell’ambito di questa campagna furono inventate le così dette “adozioni a distanza”. Questo comitato per la fame, che riuniva varie componenti del mondo ecclesiale della cooperazione allo sviluppo ecc., maturò l’esigenza di coniugare l’azione solidale, il gesto di condivisione, con l’informazione, con l’adozione di nuovi stili di vita. In sostanza non basta fare la carità. Nella Bibbia il temine carità vuol dire amore, Dio stesso è Carità, è un termine che non va assolutamente bistrattato. Dovremmo evitare questo senso di autosufficienza per cui ci poniamo di fronte all’altro come se fossimo dei benefattori. Se ci sono situazioni di miseria e povertà è perché ci sono situazioni di ingiustizia che vanno, da credente, da religioso, da missionario, dalle rette coscienze, conosciuti, dobbiamo prendere coscienza di questi problemi, averne consapevolezza. In questo senso il cammino credo sia ancora molto lungo, lo dico soprattutto in riferimento alle masse, perché la nostra gente continua ancora ad essere bombardata da questo tipo di messaggi e, volente o nolente, ha questo tipo di percezione cioè molto paternalistica, intimistica a tratti. Le responsabilità riguardano anche il mondo dell’informazione, i nostri notiziari sono provinciali come ho già detto. Per esempio riguardo alla crisi si mette sempre in evidenza la sofferenza della povera gente, del ceto medio qui in Europa, ma nessuno sta parlando degli effetti devastanti della crisi sul sud del mondo, quelli che stanno pagando in prima persona tutto questo sono i poveri del sud del mondo. E le ragioni sono presto dette: innanzitutto c’è stata un contrazione, un taglio radicale degli aiuti, dei fondi per la cooperazione; ci sono paesi come il Kenya che nella loro legge finanziaria, il 40% lo coprivano con gli aiuti alla cooperazione, dopo questo taglio se l’anno scorso prendevano 40 adesso prendono 10; l’altra questione è che, comunque, questi paesi sono quelli che hanno pagato per primi le iniquità di questo sistema che ha determinato sempre di più la divaricazione tra le masse impoverite e un oligarchia che detta le regole del gioco, una concentrazione di denaro nelle mani di pochi. Noi ci lamentiamo per questa globalizzazione selvaggia, per gli effetti dei titoli tossici di derivati. Di questa porcheria su piazza affari siamo arrivati a 680.000 miliardi di dollari vale a dire 12,5 volte il pil del mondo; il pil dell’Africa subsahariana è 990 miliardi di dollari, è evidente l’ingiustizia di un sistema che fino a ieri è stato legittimato. Il contributo della società civile, attenta al terzo settore, è importante, ma noi dobbiamo avere il coraggio di metterci in discussione, perché non è detto che quello che sta facendo il mondo missionario, il mondo della cooperazione, ecc, non abbia bisogno di una certa revisione, questo anche nelle formule espressive, nel linguaggio. Per esempio nel mondo della cooperazione è usato un linguaggio al negativo e questo non va bene; parliamo di terzo settore, di organizzazioni non governative, no profit, spesso il nostro linguaggio nell’affermare valori che hanno la valenza positiva si ritaglia invece questi spicchi di comunicazione che sono incentrati sul negativo. Questi prefissi negativi non giovano su una comunicazione che dovrebbe avere una valenza positiva, parenetica, esortativa. Dunque dobbiamo riflettere sul nostro modo di comunicare.
L’elemento caratteristico di questa società liquida è l’esperienza della contingenza, è inutile pensare al futuro cerchiamo di vivere l’oggi, tutto è in continuo divenire e imprevedibile, e questa è la percezione che hanno molti giovani che vivono in un stato di provvisorietà. Per chi crede c’è sempre l’ago della speranza, Dio scrive sulle righe storte, Dio è provvidente e dà senso e significato anche alle situazioni difficili. San Paolo dice “tutto coopera al bene di coloro che amano Dio”, ma per chi vuole affrontare il discorso in termini più laici ci sono due atteggiamenti che andrebbero valorizzati: quello solidaristico che è molto concreto (i romani dicevano di pagare il solidum) e quello sussidiario (senso di corresponsabilità) rispetto a un bene comune. Per questo la sfida è anche culturale. Purtroppo in Italia la cultura al bene comune lascia molto a desiderare. Prima di dare la colpa dovremmo guardarci noi, e spesso il nostro è un orizzonte provinciale, non è cattolico-universale. Il cattolicesimo è la globalizzazione intelligente di Dio che non ha a che vedere con quella del mercato dove questi signori hanno causato disastri finanziari. La cosa curiosa è che quegli stessi signori sono quelli che adesso vogliono trovare le ricette e ci dicono cosa dobbiamo fare; non si vuole ammettere che il mondo è in bancarotta, altro che la bancarotta dell’Italia e degli Usa, il sistema è in bancarotta. Ci sono 680.000 miliardi di dollari in derivati OTC che, come valore nominale sono 12,5 il pil del mondo…qualcuno dice che abbiamo bisogno di una nuova Bretton Woods, (incontro svoltosi nel luglio 1944 dove nacque la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) che ha funzionato per alcuni anni anche grazie a grandi economisti. Tra questi Dexter che diceva che c’era bisogno di un sistema di riferimento che, allora, fu identificato nel gold exchange standard cioè la parità oro-dollaro. Tutto ciò era un modo per stabilizzare il mercato ed evitare fenomeni di speculazioni. Nel 1971 Nixon, prima decide di sospendere, per poi cancellarlo nel 1973, il gold exchange standard; la vera globalizzazione nasce nel ’73 quando saltano le regole ed il mercato prende il sopravvento alla grande sulla politica, al punto tale che, in tutto il mondo, le classi dirigenti diventano le ancelle delle multinazionali, ecc. Io dico sempre che il mondo dell’economia ha bisogno di evangelizzazione. E‘ molto bello il messaggio di Benedetto XXVI in occasione della giornata mondiale della pace che affronta questo tema dell’evangelizzazione della globalizzazione, dell’economia. Il Magistero della Chiesa su questi temi c’è, e tutto è riassunto in quel compendio della dottrina sociale della Chiesa. Noi cristiani siamo i primi che non prendiamo coscienza di questo Magistero perché è una parola scomoda per i nostri interessi. La Parola di Dio quando l’ascoltiamo, dice Paolo, diventa una spada a doppio taglio.
Sono anni che si parla di una terza via. Il sistema statalista che veniva identificato dal punto di vista della prassi nella politica dell’ex Unione Sovietica si è dimostrato, alla prova dei fatti, fallimentare anche perché in quel caso aveva assunto una valenza oligarchica. Sull’altro versante c’è stata questa logica liberista. Io sono il primo a credere nell’iniziativa privata a condizione che questa venga regolata. Adam Smith (ideatore della dottrina capitalistica), parlando della borsa, diceva che la regola fondamentale è la stabilizzazione dei prezzi. I prezzi devono essere determinati dai compratori e dai venditori ed è importante che tanti siano i compratori e tanti i venditori. Ciò che si è generato oggi è che la cerchia dei compratori e dei venditori si è ridotta in modo impressionante per cui un manipolo di multinazionali, di società è divenuta padrona del mondo e questo è terrorismo economico. L’anno scorso (2008) sono stato in Etiopia 3 volte, la prima volta ho assistito alla conferenza stampa del premier Meles Zenawi che lanciò per l’ennesima volta l’emergenza alimentare (fame e altre pandemie). Io mi ero documentato e avevo visto che effettivamente le piogge erano state abbondanti e avevo avuto modo di visitare l’altopiano di Bale, uno dei granai dell’Etiopia, con abbondanza di grano e orzo, allora ho provato a chiedere spiegazioni ad esperti i quali mi hanno detto: il problema di fondo è questo, siccome il nostro governo deve pagare il debito estero, non ha liquidità, allora lo paga con il grano, ma sono costretti a venderlo a quattro soldi alle compagnie di agrobusiness le quali utilizzano parte di quel denaro per restituirlo ai Donors Internazionali. Questo determina situazioni di sperequazione e di ingiustizia perché oltre 3/4 del raccolto è utilizzato per pagare il debito estero. A quel punto scatta l’emergenza umanitaria per cui le agenzie dell’ONU devono acquistare le derrate alimentari e acquistano delle piccole percentuali di quel grano dalle compagnie di agrobusiness per far fronte all’emergenza alimentare in Etiopia o altrove. Questa è una logica perversa.
Domanda: In che modo ci si può informare giustamente noi che viviamo in Italia? Ci vuole una forte motivazione per volersi informare, dunque un processo educativo che porti ad informarsi.
Risposta: La prima cosa che dovremmo fare è leggere. Gli Italiani non leggono. Basta ascoltare il linguaggio della nostra classe dirigente, linguaggio fondamentalista, volgare, presuntuoso, che non ha cognizione di causa per quelle che sono le regole della politica. Tutto ciò è dovuto al fatto che la nostra gente non legge, l’Italia è il fanalino di coda nella lettura dei giornali e dei libri; il giornale più venduto è Gazzetta dello Sport edizione del lunedì, il settimanale più venduto TV Sorrisi e Canzoni. Leggere su intenet è un approccio del tutto diverso. Informarsi è un dovere, essere informati un diritto, la negazione di queste due cose è dittatura, se da una parte ci può essere coercizione esterna dall’altra c’è la nostra adesione a questo piano diabolico della disinformazione. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, anche nell’azione educativa. Per esempio i genitori. Che stimoli diamo ai ragazzi per leggere? Si vedono bambini piccoli già col videogioco. Al di là di una responsabilità personale c’è una disciplina di vita all’insegna dell’informazione, questa tensione deve esserci, se vuoi essere cittadino del mondo, cristiano, cattolico, l’informazione è la prima forma di solidarietà.
Allora dove si devono attingere notizie? Zavoli dice che solo il 20% dei grandi accadimenti viene regolato dai grandi network , però oggi proprio attraverso il digitale e un ventaglio di pubblicazioni illuminate, possiamo sapere tante cose.
L’Internazionale è una rassegna stampa in lingua italiana di tutto quello che viene scritto sui giornali stranieri, sia in riferimento all’Italia sia in riferimento ad accadimenti nel mondo. Se solo prendessimo l’impegno di leggere l’Internazionale sarebbe un passo avanti per comprendere quello che sta succedendo. Poi ci sono tutte le pubblicazioni missionarie, la Fesmi (Italia) è la Federazione della Stampa Missionaria più forte nel mondo, oltre 40 testate. Sono riviste che servono per l’approfondimento, per andare oltre la notizia. Molti di questi materiali sono anche in rete: Misna, Fides, Unimondo, ecc.
Il mondo missionario da tanti anni promuove l’Educazione alla Mondialità. Arno Peters (storico tedesco), compose la carta ortomorfica (Carta di Peters) il cui concetto è quello di capire che i continenti sono più grandi di come vengono rappresentati nella classica carta di Mercatore. L’Educazione alla Mondialità ci aiuta a capire che dobbiamo andare al di là di certi pregiudizi, che non siamo noi al centro del mondo. Guardando la Carta di Peters, c’è una sproporzione enorme tra l’Europa e le Afriche. La sfida delle relazioni Nord-Sud prima ancora di essere politica, economica, sociale, è una sfida culturale. Qui gli educatori sono chiamati a svolgere un ruolo strategico. Le nuove generazioni sono la cartina tornasole di quello che sono stati i loro genitori e si rischia di porsi nei loro confronti con un atteggiamento paternalistico. Ci sono stati tutta una serie di bisogni indotti, quando sentiamo dire che “comunque bisogna consumare”, c’è qualcosa che non funziona. Serge Latouche dice “l’unica vera recessione che dobbiamo temere è quella dei valori”. Le giovani generazioni sono le vittime di questo sistema economico iniquo che ha fatto sì che ciò che conta è il successo, il look, ecc. Latouche dice che questo sistema deve essere cambiato, non si può pensare di continuare a crescere perché il mondo ha le risorse limitate, ma queste valutazioni non devono essere ideologiche. Helder Camara diceva: “quando vengo in Italia, in Europa, tutti mi dicono che sono bravo, quando presento le necessità dei miei poveri, mi battono le mani, ma appena mi azzardo a denunciare le ragioni e le cause della miseria, dicono che sono un comunista”. Questa è una pregiudiziale ideologica. Se tu affronti i temi sociali sei di sinistra, se parli del dio quattrino e della borsa sei di destra, e continuiamo ad andare avanti con questi schematismi, retaggio del passato, mentre è solo una questione di buon senso come dice Latouche. Le valutazioni ideologiche creano solo condizionamenti. Mussolini, che abbiamo messo a destra, era un socialista e il modello politico dittatoriale era comunque un modello socialista incentrato sul socialismo. Ci sono state istituzioni importanti nate nel fascismo, se uno riflette senza il paraocchi, come le pensioni. Latouche dice che dobbiamo innescare dei meccanismi di decrescita per crescere in altro modo. Ci sono dei potentati (lobby, organizzazioni segrete) che temono questi ragionamenti perché significano perdita di potere. Obama, il giorno del suo insediamento, ha puntato il dito contro quei criminali che a Wall Street hanno determinato l’inquinamento del mercato con i titoli tossici che determinano milioni di morti. Andrebbero giudicati dai tribunali internazionali come chi compie i crimini contro l’umanità.
Divago un momento sul Darfur: ho sentito che la Corte Penale Internazionale ha lanciato un mandato di arresto nei confronti del presidente Bashir, essendo il paese in guerra, questo pregiudica tutta la trattativa negoziale e la pace si allontana. Cosa c’è dietro? Tra l’altro chi dovrebbe consegnare alla Corte dell’Aia Bashir? La polizia sudanese. Ma cosa aveva in testa il procuratore del Tribunale Internazionale Luis Moreno Ocampo? Io non lo capisco, il tribunale di Norimberga c’è stato alla fine della guerra. La nostra prima preoccupazione è salvare le vite umane. Se questo provvedimento inceppa la macchina negoziale ci saranno gravi conseguenze. Tornando alle “parole”, i giornali hanno esaltato questa scelta, ma quale giornale ha avuto l’ardire di scrivere che la vera incongruenza stava nel fatto che, proprio gli Usa che avevano detto che Bashir era bene fosse consegnato alla giustizia internazionale, proprio loro erano sono stati i primi a non ratificare lo Statuto di Roma per la creazione del Tribunale Penale Internazionale! Loro che hanno portato avanti tutte le proprie attività politiche all’insegna del bilateralismo. E un’altra contraddizione: ma vogliamo ammettere che Bashir, come altri presidenti, sono delle marionette? Dietro vi sono poteri stranieri, come nel caso del Sudan c’è la Cina, è criminale Bashir o è ancora più criminale il governo di Pechino?
Domanda: Vorrei parlare della comunicazione da parte della Chiesa, Gesù nel Vangelo comunica in modo particolare e anziché dettare leggi interroga le persone che gli vengono incontro. La Chiesa spesso invece dice chi sono i buoni e chi sono i cattivi e fa delle distinzioni molto mirate e personalizzate. Vorrei una riflessione su questo.
Risposta: La riflessione l’ha fatta lei così bene. Aggiungo solo la riflessione di Josè Comblin: “il modo di parlare di nostro Signore Gesù Cristo aveva un taglio giornalistico, Gesù partiva sempre dalla notizia”, per esempio pensate a qualche parabola: Gesù stava davanti al tempio di Gerusalemme ed era arrivata quel giorno la notizia che un poveretto a piedi da Gerusalemme stava andando a Gerico ed era incappato nei briganti (fatto di cronaca nera). Gesù prendendo lo spunto da un fatto di cronaca ricava una straordinaria lezione di vita. Nostro Signore non è venuto a darci un compendio di leggi e leggine ma è venuto a comunicarci una Buona Notizia e quindi un approccio con la dimensione religiosa positiva. Una frase attribuita ad Agostino di Ippona, diceva: “Ama e fa quello che vuoi”. Nella misura in cui tu sai amare, sai vivere il precetto evangelico della caritas. Questo approccio positivo anche nella comunicazione ci manca perché viviamo in una società che si muove velocemente, negli ultimi 50 anni sono avvenuti grandi cambiamenti. La rivoluzione digitale noi la stiamo subendo, non la stiamo governando. Il problema è che siamo stati sottoposti ad un mare magnum di sollecitazioni, i nostri anziani hanno visto di tutto, da una società rurale si sono trovati a vivere in una società post moderna caratterizzata dai fenomeni della società liquida (Bauman). Queste accelerazioni (vedi internet) producono dei gap tra una generazione e l’altra da un punto di vista esistenziale, di percezione della realtà. Ci sono quelli nati nel pre-digitale (io) e quelli nati nella rivoluzione digitale (i giovani). Le religioni, rispetto a tutta questa situazione, si sono spaventate. Il fenomeno del fondamentalismo non è tipico dell’islam, è trasversale a tutte le grandi religioni (induismo, musulmanesimo, sette protestanti e anche nelle nostre chiese). Il fondamentalismo è un chiudersi a riccio e avere paura di non trovare le risposte adeguate a tutta una serie di quesiti che si propongono all’improvviso e fino a ieri erano sconosciuti. Si diventa rigidi. Dobbiamo essere benevoli nei confronti di queste esperienze religiose perché poi in fondo questo ci dimostra che coloro che sono uomini di Chiesa, di religione, alla fine sono pur sempre uomini. Riuscire a coniugare spirito e vita è sempre un’operazione molto difficile, la Chiesa ci insegna che tutto questo è possibile attraverso la grazia santificata. Si può riuscire a coniugare gli estremi, spirito e vita, valori e istanze del tempo in cui viviamo, nella fede, attraverso la preghiera, la contemplazione e un sano discernimento. Il fondamentalismo c’è anche, paradossalmente, nella cultura laica (politici che utilizzano la religione per fini politici). Ho incontrato ad un raduno a Fiuggi 6.000 giovani di tutta Italia, provenienti dalle nostre parrocchie, dallo scoutismo, dall’Azione Cattolica. Siccome non siamo riusciti a dare ragione della speranza che è nei nostri cuori, questi hanno cercato altre esperienze religiose, ed io mi sono arrabbiato coi miei parrocchiani quando mi hanno detto “ma sai questi hanno tradito il Vangelo e la Chiesa”, non sarà vero l’esatto contrario? Non siamo stati capaci di trasmettere in modo intelligente il deposito della fede fatto di testimonianza fattiva. Una metafora che ha a che fare con la filosofia religiosa buddista a proposito del rapporto tra carisma e istituzione di cui si trattava a quel convegno, è una storia che racconta di Buddha che incontrò un discepolo che gli chiese che cosa fosse la religione e Buddha rispose in maniera sapienziale dicendo che nella storia, nella vita dell’uomo ci sono 4 stagioni, la prima è quella del fuoco (della passione, innamoramento, entusiasmo), la seconda è quella della memoria (tradizione, si vive di rendita, memoria, la coppia è sposata da tempo ma vive ancora il rapporto nell’affiatamento), la terza è quella della legge (si va a Messa perché lo dice il codice, sono fedele a mia moglie perché lo dice il codice di diritto canonico e non perché amo mia moglie, esperienza religiosa=legalismo), e la quarta stagione che è quella del tutto è lecito (non ci sono più coordinate). Storicamente siamo tra la terza e la quarta stagione. Buddha dice che questo processo di deterioramento è fisiologico ma bisogna saperlo governare, dobbiamo avere il coraggio, attraverso l’ascesi personale, il confronto con gli altri, di ritornare all’origine. Quello che dice la Chiesa, il tuo sì al Signore lo devi rinnovare nella ferialità della vita. Questa storia evidenzia il carisma nella fase iniziale e l’aspetto istituzionale che gradualmente prende il sopravvento. La Chiesa ha sempre avuto grande rispetto del dato istituzionale (S. Pietro e S. Paolo vengono festeggiati lo stesso giorno insieme perché Pietro è l’istituzione e Paolo è il carisma). Un monaco mi diceva sempre, se la Chiesa è troppo paolina scade nel protestantesimo, se è troppo petrina si pietrifica. C’è una dialettica tra carisma e istituzione. Sullo stolone del Papa c’è sia Pietro che Paolo quindi nel suo ministero queste due dimensioni sono importanti.
Domanda: Tutta la campagna sul debito estero come è andata a finire?
Risposta: Quella campagna si è conclusa, riguardava lo Zambia e la Guinea Conakry. L’attenzione, durante il Giubileo, era proprio rivolta sulla questione del debito. Nel mondo missionario l’attenzione nei confronti del debito c’è, però con la congiuntura che c’è a livello internazionale, figuriamoci se quelli che dovrebbero cancellare il debito si preoccupano di questo, perché loro stessi stanno andando a fondo. Questa crisi è una grande opportunità, quanto meno ci fa capire le incongruenze del sistema. Se non ci fossero la società civile, il terzo settore e il mondo missionario, del debito non si parlerebbe mai. Le organizzazioni internazionali a fine anni ’80 sono uscite fuori con i piani di aggiustamento strutturale ed hanno detto a questi paesi poveri che dovevano operare dei tagli, facendo due cose: svalutazione della propria moneta (era già carta straccia e in questo modo sono state facilitate le esportazioni perché venivano regalate le materie prime ma sono divenute proibitive le importazioni non valendo niente la moneta), e taglio della spesa pubblica nei settori strategici istruzione e salute. Chi ha proposto questi piani andrebbe giudicato da un Tribunale Internazionale.
Domanda: Ci sono parole che hanno un significato e una connotazione totalmente non ideologica ma che sono proprie di questi paesi (per esempio la parola resistenza è un motivo per vivere, oppure la parola terra) come metterle in comunicazione, in circolo?
Risposta: Il rapporto Nord-Sud, non ha solo una valenza geografica, economica ma è legato anche alla sfera dei linguaggi, le relazioni tra le culture nord occidentali e quelle del sud del mondo hanno codici diversi e molte volte l’utilizzo delle lingue franche può avere un effetto devastante perché sminuisce la verità dei fatti, perché mentre per noi il quadro di riferimento è fortemente ideologico lì parte invece da una dimensione esperienziale (concetto di resistenza nel sud vuol dire resistere alle avversità). La conoscenza è importante, la nostra è una cultura monolitica e giudichiamo le altre realtà secondo i nostri parametri e ciò riguarda anche il nostro mondo ecclesiale. Quando parto dal presupposto che solamente il 20% dei fatti del mondo viene rilanciato dai media internazionali e quando penso che le agenzie di stampa che sono fondamentalmente tre (tra cui Associated Press e Reuters) vedo che in Europa ce ne sono 150-200 e in Africa 5. La redazione di France Press di Nairobi copre Ruanda, Burundi, Uganda, Tanzania, Malawi, Zambia, Kenya, Somalia, Etiopia, Eritrea e Sud Sudan. L’informazione viene percepita dagli editori come business commerciale. Gli editori dicono che è inevitabile questo percorso ma io penso che sia possibile riconciliare la sfera dei valori con le logiche del mercato, si può fare business in modo intelligente. Noi missionari abbiamo dei prodotti di qualità eccellenti che non sappiamo vendere perché le riviste missionarie dal punto di vista degli abbonamenti stanno andando a picco perché ci manca la capacità di saper commercializzare dei prodotti. Quindi abbiamo da una parte un elevato fenomeno di pauperismo e dall’altra un sistema di potere dove c’è la mercificazione di tutto per fare soldi, quindi si deve mettere la notizia scema in apertura perché fa audience, vende. La mia esperienza mi dice che si possono offrire prodotti di qualità e al contempo puoi vendere. Alla fine degli anni ’90 con Silvestro Montanaro lanciammo una serie televisiva dal titolo “C’era una volta” (dalla prima serata finì in terza) ed era una proposta di documentario che raccontava le storie del sud del mondo e si rivelò vincente per gli ascolti (22% di share) perché la gente era interessata. Ma l’azienda decise di mettere prima Baudo ecc. e il risultato è che nel palinsesto questa serie finì all’ultimo posto. Bisogna saper confezionare i prodotti in maniera avvincente e purtroppo quelli che produciamo noi missionari tante volte lasciano a desiderare.
Domanda: La comunicazione tra maschile e femminile nel mondo della missionarietà.
Risposta: Le rispondo con la Genesi: Dio creò l’uomo, maschio e femmina li creò. Nel mondo cattolico è importante promuovere in maniera intelligente e illuminata la relazione tra maschio e femmina. E’ inutile nascondere che un certo maschilismo ha fatto disastri. Riflettevo, vedendo sempre alla Messa tante donne, che in fondo le nostre chiese vanno avanti per le donne di buona volontà, ed essere riconoscenti è dire poco. Mi fa pensare anche un certo atteggiamento, certe pregiudiziali che mi sembrano più teologiche che altro, ci sono belle esperienze di comunione in missione, forse nel contesto missionario siamo molto più avanti di quello che riscontriamo in Italia. La Chiesa è trasversale alla società, in Parlamento quante sono le donne?
La comunicazione fra uomo e donna è fondamentale, è importante, è parte di quel progetto di armonia nel contesto del creato.
(Testo non rivisto dall’autore)