Il volto di una chiesa missionaria
Il volto di una Chiesa missionaria
di Gianni Colzani
Eccellenze, confratelli nel sacerdozio, fratelli e sorelle nel Signore, queste giornate di Montesilvano sono state veramente belle per il clima registrato tra noi, per la qualità del dibattito, per l’ampiezza dei consensi; arrivati al termine, è però necessario arrischiare una qualche sintesi perché la realtà che abbiamo sotto gli occhi è talmente variegata e composita da lasciare perplessi.
Comincerò con il dire che questo Convegno mi ha confermato in una impressione che, da qualche tempo ormai, mi accompagna: quella cioè che il movimento missionario italiano sia non solo una realtà grande e bella ma che sia anche giunto a formulare una sua proposta di vita cristiana, una sua proposta globale. Voglio dire che questo movimento, quello qui rappresentato, è portatore non solo di una serie di iniziative di appoggio alla missione ad gentes ma anche di una maniera di interpretare la fede e, quindi, di comprendere la persona di Gesù e l’esperienza della Chiesa, di una maniera di leggere la storia e, quindi, di valutarne le dinamiche e le prospettive, di una maniera di intendere la vita e, quindi, di coglierne i valori e il significato. Il movimento missionario italiano non è più solo il volto della Chiesa italiana verso l’estero, non è più solo un settore dell’attività di questa Chiesa ma è un soggetto ecclesiale con una sua nitida identità.
Da Verona a Bellaria a Montesilvano ha percorso velocemente molte tappe. Verona era stata la conferma di quanto molti intuivano, la conferma cioè della ricchezza multiforme dei doni dello Spirito e della gioia per la loro sorprendente originalità; Bellaria è stata la consapevolezza della loro sincera ecclesialità, la convinzione cioè della realtà di una Chiesa chiamata – come dono e come compito – ad aprire il libro della missione. Montesilvano è una nuova tappa: rappresenta la coscienza di un movimento che ritiene di poter e di dover contribuire in modo tutto particolare, con i suoi doni cioè, al cammino della Chiesa italiana. Queste pagine vorrebbero essere un primo contributo alla lettura di questo evento ma mi auguro che altre letture, più meditate e autorevoli, possano seguire.
All’origine di questo cammino sta la realtà di discepoli partiti per evangelizzare, in obbedienza al comando del Signore. Evangelizzatori, siamo stati a nostra volta evangelizzati dalla gente dell’Africa, dell’America e dell’Asia; la nostra fede è stata potenziata e rinnovata, la nostra umanità toccata e cambiata. Molto abbiamo dato e di più, forse, abbiamo ricevuto.
È con questo volto nuovo e maturo che abbiamo accolto le parole dei nostri vescovi quando – nella Nota pastorale sulla parrocchia – scrivono che «comunicare il Vangelo in un mondo che cambia è la questione cruciale della Chiesa in Italia oggi. L’impegno che nasce dal comando del Signore: “Andate e rendete discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19) è quello di sempre; ma in un’epoca di cambiamento come la nostra, diventa nuovo» (n. 1). O quando – nel documento programmatico per il primo decennio del terzo millennio – scrivono che «la missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo dell’impegno pastorale ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza» (n. 32).
Queste parole toccano corde profonde della nostra esperienza perché il movimento missionario italiano si sente il volto di una Chiesa, nella quale è nato, arricchito però dalle esperienze ad gentes: in una parola, si sente molto vicino a quella identità che la Chiesa italiana va ricercando. Per questo chiediamo alla Chiesa di poter fare la nostra parte, di essere accolti e valorizzati; ai nostri vescovi chiediamo di capire ciò che la nostra esperienza ci ha permesso di maturare e di aprirci gli spazi per metterlo a servizio di tutti.
Il popolo della missione è pronto a dare il suo contributo ed a mettere le sue ricchezze al servizio dei fratelli. Vorremmo poter parlare di ciò che per noi è diventato il vangelo del regno e l’annuncio del regno, di quanto abbiamo imparato a livello di legame tra fede e vita e di metodi apostolici, di come la fiducia in Dio diventi centrale fino al dono totale di sé, fino al martirio, del rispetto delle persone e dell’accoglienza delle loro diversità, del cammino con tutti. Chiediamo di poter parlare di quanto, a livello culturale, sociale e politico, siamo andati maturando come espressione di quella passione per la persona umana che il vangelo ha suscitato in noi.
Non abbiamo altro da dare che quello che siamo ed è proprio questo che vorremmo offrire. Siamo certi che, anche stavolta, si ripeterà il miracolo dell’evangelizzatore che dona quello che è suo ma lo riceve di ritorno trasformato, così da venir a sua volta evangelizzato. Per questo consideriamo questo Convegno come l’inizio di un dialogo fruttuoso e di una sincera partecipazione alle ricerche e alle trasformazioni della Chiesa italiana.
1. Alle radici della nostra identità missionaria
Per ritrovare le radici della missione, vorrei ritornare al pomeriggio di lunedì quando questo Convegno è cominciato. In quel pomeriggio abbiamo fatto tre cose: abbiamo fatto memoria del nostro battesimo, abbiamo intronizzato il vangelo ed abbiamo richiamato a noi stessi la coscienza dei profondi cambiamenti oggi in atto. A mio parere vi sono qui le tre radici di ogni missione.
Il primo gesto – la memoria del battesimo – ci ha richiamato chi siamo, ci ha riportato al cuore della nostra identità di credenti. La nostra consapevolezza di ad gentes ci ha portato a collocare il nostro battesimo in un quadro ampio, il quadro dell’agire di Dio. Abbiamo così ricordato che la terra è piena dello Spirito di Dio e che lo Spirito – acqua di vita – opera nei cuori di tutte le persone. Le cinque brocche con i colori dei continenti ci hanno parlato dell’opera universale di Dio e ci hanno ricordato che noi e la nostra Chiesa non siamo padroni dello Spirito ma che lo dobbiamo accogliere. Lo stesso Tommaso d’Aquino ha lasciato scritto che «la verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito santo». Noi abbiamo incontrato e riconosciuto quest’acqua di vita proprio nel ministero ad gentes, l’abbiamo lasciata scorrere in noi e la nostra fede, la nostra preghiera, la nostra spiritualità, le nostre priorità sono state trasformate.
Con queste ricchezze facciamo memoria del nostro battesimo e guardiamo alla Chiesa in cui l’abbiamo ricevuto. Siamo vecchi missionari che hanno scoperto di possedere incredibili riserve di energia, uomini e donne che possono raccontare le opere di Dio e suscitare «grande gioia in tutti i fratelli» (At 15,3). Potendo parlare di ciò che lo Spirito ha fatto e sta facendo nelle Chiese del mondo, ci sentiamo come lo scriba che sa cavare dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove; siamo a disposizione della Chiesa italiana per questa difficile integrazione tra vecchio e nuovo.
Il secondo gesto – la intronizzazione del vangelo – ci ha messo di fronte alla nostra responsabilità. L’intronizzazione del vangelo ci ha richiamato quella vocazione che ha raccolto la nostra vita attorno al Verbo fatto Servo; fu infatti contemplando quel Verbo che ognuno di noi si è sentito mandato, inviato ad gentes. In questo servizio abbiamo incontrato molti drammi: la fame e la guerra, la corruzione e l’ingiustizia, la dittatura e la violenza, la malattia e l’analfabetismo; abbiamo incontrato anche molti valori: la gioia della vita e la profondità dei legami, il senso religioso dell’esistenza e la misteriosa dignità che risplende in ogni persona. Abbiamo così imparato che il cuore del vangelo è il passaggio dalla morte alla vita e che questa buona notizia è il segreto ultimo di una storia animata dall’amore del Padre.
Questo vangelo è stato il tutto della nostra missione. Il vangelo del regno comprende per noi il mistero dell’amore dell’Abbá, la riformulazione dei rapporti tra le persone su basi nuove ed il misterioso legame che la croce di Gesù ha reso possibile tra la sofferenza e l’amore salvifico. Per questo il vangelo del regno non ci ha allontanato da Dio ma ci ha avvicinato alle persone; il vangelo del regno ci ha impedito di trascurare sofferenze altrimenti ingiustificabili e di passare oltre le attese e le speranze della gente. Insieme alla gente abbiamo contemplato Cristo e vi abbiamo attinto forza, ci siamo convertiti a Lui e abbiamo aderito al suo messaggio. Certo abbiamo utilizzato analisi culturali e sociali, abbiamo anche assunto posizioni politiche ma solo perché fosse pieno e senza ombre il servizio a quel Gesù che è venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
Il terzo momento ci ha richiamato la realtà di un mondo in profondo cambiamento; per noi, il battesimo ed il vangelo non possono essere vissuti se non in questo cambiamento. Abbiamo ascoltato con interesse il dott. Sina Diatta e la sua ricostruzione dei cambiamenti in atto, cambiamenti legati alla scienza, alla globalizzazione e ai tanti aspetti di questa civiltà complessa. Sono temi impressionanti. Per noi, però, il dramma dei cambiamenti e la debolezza nel guidarli hanno il volto di milioni di persone, hanno il volto delle gentes, dei popoli e delle loro migrazioni, del loro bisogno di pace, di salvezza, di vita. Per questo ci ha fatto piacere sentire S. Ecc. Mons. Carraro, S. Em. Card. Sepe, S. Ecc. Mons. Betori parlare del dono di Dio, degli eventi cristiani di salvezza, del servizio apostolico che la Chiesa è impegnata a svolgere.
Il battesimo, il vangelo e la storia sono le nostre radici, sono i punti a cui continuamente ritorniamo e da cui continuamente attingiamo energie; ci hanno insegnato che la missione è un’azione divina testimoniata da uomini e donne che la servono.
2. La giornata dell’ascolto
Per noi ogni missione comincia dall’ascolto e dalla accoglienza ed è all’ascolto che abbiamo dedicato il martedì, il primo giorno del nostro cammino. L’ascolto non è un gesto isolato ma è l’espressione di una concezione della vita che mette al centro le relazioni tra le persone; è un momento alto di civiltà che insegna a non considerare il diverso come un nemico. Per questo la missione privilegia l’accoglienza.
Non ci sfugge il fatto che, nella nostra Italia, è largamente scomparsa una cultura dell’accoglienza mentre si va imponendo un atteggiamento di diffidenza universalizzata e di ostilità preconcetta. Non di rado, invece, noi abbiamo sperimentato accoglienza e condivisione presso i popoli a cui siamo stati inviati; con loro abbiamo imparato ad ascoltare vedendovi una forma di rispetto per tutti. Appropriandoci questo modo di vivere, ci siamo convinti che la accoglienza sia un valore cristiano, un valore di quel regno che Gesù ha paragonato a un banchetto, a una festa a cui invitare storpi, zoppi e ciechi.
Vediamo l’icona di questa accoglienza nella scena di Abramo che – secondo Gen 18,1-15 – ospita tre misteriosi personaggi che si sveleranno come Dio stesso; per questo abbiamo voluto tra noi l’icona della Trinità di Rublev che presenta un Dio ospite e ospitale. Il racconto di Gen 18 utilizza l’antica cerimonia dell’ospitalità e la descrive con le sue tradizionali cinque regole: una dimora aperta e accogliente come segno dell’apertura del cuore, la lavanda dei piedi come primo gesto di rispetto, la cerimonia dell’incontro che con le sue mille attenzioni mira a mettere l’ospite a suo agio, il cibo e le bevande che rallegrano, un sostegno per la continuazione del viaggio. In questa tradizione il rispetto delle persone si intreccia con una generosa ospitalità.
Il vangelo di Gesù ci ha permesso di approfondire la bellezza di questo incontrarsi e di questo accogliersi; al tempo stesso, ci ha mostrato il dramma della sua mancanza. Gesù sperimenterà la gioia dell’accoglienza ed il dramma della sua mancanza; alla sua nascita non c’è posto per lui alla locanda e nella sua vita pubblica non ha dove posare il capo. In Lc 2,7 l’albergo in cui Gesù non trova posto è indicato come katáluma ed il medesimo termine ritorna in Lc 22,11 per parlare del cenacolo, della sala dell’ultima cena; nel sacramento dell’Eucaristia, quel Gesù che ha abbattuto il muro dell’inimicizia (Ef 2,14-16) trasforma le nostre chiusure e fa della comunità dei suoi discepoli il luogo accogliente di un amore che abbraccia tutti, uomini e donne, sani e malati, istruiti e ignoranti, giusti e peccatori, senza distinzione di razza e di censo. A immagine dell’amore di Cristo, le nostre comunità eucaristiche devono diventare comunità accoglienti ma noi possiamo imparare a diventarlo solo assumendo una cultura dell’accoglienza, solo imparandola da altri. Questo valore appartiene strutturalmente allo ad gentes.
Una ulteriore precisazione viene dal testo di Lc 10,33-35 dove l’albergo a cui si dirige il samaritano è chiamato pandochéion, un termine che – per l’uso del verbo déchomai o accogliere – significa “tutti accoglie”. Non a caso, i padri hanno interpretato questa locanda come un simbolo di Cristo. Possiamo allora dire che l’accoglienza e l’ascolto appartengono alla esperienza cristiana e sono il segno della profonda trasformazione che l’amore di Dio ha operato in noi.
Appartengono in modo profondo anche alla missione che non si presenta come un dare ma come un condividere rispettoso e accogliente. Questo implica l’abbandono di quella concezione coloniale e post-coloniale di missione che la pensava sullo sfondo della espansione culturale e religiosa dell’occidente, sulla base della sua egemonia mondiale, come conquista di spazi e ampliamento della propria zona di influenza; per noi la missione è condivisione del vangelo in una condivisione di vita. Anche la conversione ci appare sempre di più come conversione a Dio, «allontanandosi dagli idoli per servire al Dio vivo e vero» (1Ts 1,9); in quanto tale, la conversione non rinnega ciò che di buono e nobile una persona ha maturato in sé su Dio e sulla vita ma, se mai, lo potenzia (Nostra Aetate 2). Se Dio ha voluto essere ospite umile, mite e povero, in una umanità che pure era sua, anche noi dobbiamo accettare di essere ospiti a casa d’altri.
Per questo abbiamo tradotto le cinque leggi della tenda in uno sforzo che è umano e cristiano insieme: quello di essere ospiti ed ospitali; le tavole rotonde di martedì mattina ed i laboratori del pomeriggio avevano questo significato: testimoniare il valore dell’accoglienza e tradurla nella concretezza del tempo e dei gesti.
Le tavole rotonde sui cinque continenti
Non posso dar voce a cinque impegnative tavole rotonde e ad alcune decine di laboratori ma la loro ricchezza non andrà perduta perché il loro contenuto apparirà negli Atti del Convegno.
Le tavole rotonde ci hanno richiamato al dovere di conoscere di più e meglio la realtà delle altre Chiese; l’autorevolezza dei testimoni e la forza delle esperienze ci hanno affascinato. Il dato fondamentale emerso è stato però la percezione della estrema attualità della evangelizzazione, la percezione della maniera singolare e profonda con cui il vangelo sa entrare nella vita dei popoli e sa rispondere alle loro esigenze. L’evangelizzazione ci è apparsa il coraggio dell’annuncio e la semplicità radicale e disarmante della testimonianza della vita, fino al martirio.
L’annuncio è l’espressione della figura affascinante di Gesù e nasce dalla consapevolezza del suo continuare ad agire anche oggi: è annuncio di una salvezza e di un Salvatore. L’annuncio va fatto anche a popoli che hanno un profondo senso religioso ma va fatto in modo attento alla sensibilità culturale di quei popoli; viene così recuperata la convinzione che in ogni cultura sono presenti dei semina Verbi, degli elementi di verità e di santità da recuperare e da valorizzare. La testimonianza della vita, poi, è la necessaria conclusione della fede; questa non esiste se non incarnata nella vita familiare e nella educazione, nell’amicizia e nell’amore, nella economia e nella vita sociale. Per questo la fede deve diventare vita.
L’evangelizzazione conclude così ad una fede e ad una testimonianza che danno origine a delle comunità che incarnano la speranza che il vangelo ha seminato nei cuori; le Chiese sono così quel popolo messianico di cui parla Lumen Gentium 9. Questo volto messianico delle Chiese ci è stato descritto nell’impegno e nella testimonianza delle libertà civili, di cui la libertà religiosa è parte fondamentale; poiché la libertà è una e indivisa, essa va proclamata e servita nella sua totalità e nella sua universalità. Oggi, poi, esige una particolare attenzione al mondo delle donne e dei bambini, le categorie più a rischio insieme con i malati. Questo volto messianico ci è apparso ancora nell’impegno di carità, là dove vi sono urgenze che non possono essere rimandate; ci è apparso anche nella capacità di trasformare le relazioni tra i diversi membri della Chiesa: non solo nella Chiesa-famiglia ma nella Chiesa tout court si esprime una fraternità che evangelizza i rapporti tra le persone e che modifica anche il modo di esercitare l’autorità.
Ma è soprattutto sulla figura del laico che si è insistito; sul laico come annunciatore che diffonde con semplicità e coraggio il vangelo che ama, sul laico come operaio del regno che ne diffonde i valori, sul laico come christifidelis che diventa testimone di quanto gli ha riempito il cuore. Per questa via l’evangelizzazione, cioè la comunicazione del vangelo e la sua accoglienza nella fede e nelle diverse figure a cui ha dato origine, ci è apparsa di estrema attualità: ci è apparsa il modo “cristiano” di stare dentro i profondi cambiamenti oggi in atto. La fiducia e l’abbandono in Dio non ci rinchiudono, non ci allontanano dalla responsabilità verso la storia ed i fratelli.
I laboratori dell’accoglienza
Sarà però soprattutto nei laboratori che l’ascolto e l’accoglienza delle altre Chiese avrebbe dovuto realizzarsi. Raccolti attorno a tre aree – Pace e giustizia, Evangelizzazione, Globalizzazione e comunicazione – hanno visto alcune convinzioni imporsi e registrare un notevole consenso.
La prima area – Pace e giustizia – ha visto emergere la convinzione che manca presso di noi una vera cultura di pace e che, di conseguenza, è quanto mai urgente sia una educazione alla pace sia praticare scelte di pace. La pura condanna della guerra, necessaria, non è però sufficiente a costruire la pace. In questo lavoro formativo, bisogna mantenere al centro la persona e privilegiare la formazione della coscienza; in tutto questo, l’uso dei libri sacri dovrà verificare e rifiutare una loro interpretazione in linea con la violenza e l’aggressività e dovrà verificare l’uso nazionalistico di nozioni come popolo eletto, popolo di Dio, comunità.
Il profondo legame della pace con la giustizia ha portato in primo piano una serie di questioni internazionali, dal commercio al debito estero, dalla discriminazione razziale al ruolo delle donne ed alla problematica dell’ambiente. Ha inoltre fatto venire a galla una visione della missione della Chiesa come missione di riconciliazione, di pacificazione e di perdono da calare nel tessuto concreto delle culture. Queste prospettive hanno imposto il tema degli stili di vita e della qualità etica dei comportamenti – dall’equo e solidale ai bilanci di giustizia alla banca etica – come modi precisi per testimoniare la scelta della pace e diffonderla.
La seconda area riguardava l’evangelizzazione ed ha innanzitutto segnalato il contrasto tra il vangelo della vita ed il clima cupo e preoccupato di molte persone della Chiesa italiana. L’insistenza maggiore è caduta sulla necessità di una lettura delle scritture alla luce della situazione, sulla necessità di una catechesi all’altezza dei problemi odierni. Occorrono itinerari formativi in grado di reggere la sfida con i cambiamenti oggi in atto.
È però soprattutto il nodo della comunione nella corresponsabilità a preoccupare ed interessare. Sviluppato fino in fondo, questo esige che, nella Chiesa, si ritrovi maggiore ministerialità: in una parola, che si valorizzino maggiormente i carismi presenti, che si dia maggiore spazio al dialogo e che si valorizzino meglio i rientrati sia diocesani sia di istituti o congregazioni missionarie. Non sono poi mancati gli inviti a prestare maggiore attenzione ai poveri, al farsi carico delle situazioni difficili, al superare ostacoli e barriere che esistono in ogni società ed in ogni cultura.
Quanto alla terza area – globalizzazione e comunicazione – è emerso il bisogno di recuperare e di sviluppare la propria identità; accettare il cambiamento in atto ed il vertiginoso progresso mediatico non può essere una scelta acritica. L’insistenza sulla professionalità ha poi portato a chiedere ai media di ispirazione cattolica maggiore sinergia e maggiore sensibilità educativa: l’informazione è anche formazione della mente e del cuore. Solo tenendo conto di una effettiva corresponsabilità e di una reale missionarietà, la Chiesa sarà veramente casa e scuola di comunione.
3. La giornata del discernimento e della conversione
La seconda giornata è stata dedicata al discernimento ed alla riflessione sul modello ecclesiale italiano. In questa giornata, S.Em. card. Tettamanzi ha indicato i criteri teologici di una Chiesa in cerca di missionarietà; una tavola rotonda ci ha messo di fronte ad alcuni soggetti di questa ricerca mentre i laboratori del pomeriggio hanno provato ad approfondire la realtà di questa nostra Chiesa in termini di discernimento e di conversione.
Si trattava in pratica di sviluppare il tema del battesimo e della dignità battesimale fino alla maturità del servizio; si può utilmente presentare questo movimento nei termini biblici del racconto di Cana (Gv 2,1-11) e vederlo come un passaggio dalla dignità degli invitati alla grandezza dei servi. Poiché, a ben vedere, l’invitato ed il servo, sono immagine dell’unico discepolo, si può ritenere che il christifidelis sia presentato prima nella figura di invitato (v. 2) alla festa delle nozze di Dio con l’umanità e poi in quella di servi (v. 5) o diacónoi. Questo passaggio, questa trasformazione è quello che ci riguarda.
Il ruolo dei servi non riguarda il miracolo ma il “fare quello che Gesù dice” e, quindi, il riempire d’acqua le giare, l’attingerne ed il portarlo al maestro di tavola ed ai commensali. Fuor di metafora, il miracolo del “vino buono” appartiene a Dio e a Dio solo; al servo spetta applicare la propria libertà e la propria intelligenza per comunicare il vino buono dell’agire di Dio. In ogni caso l’agire di Dio va accolto con gratitudine, in tutta la sua forza di novità senza pretendere di accomodarlo a modo nostro: per questo esige un cuore disponibile e senza compromessi. Quando questo non avviene, la forza e la novità dell’agire di Dio sarà contro di noi: «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri» (Mc 2,22).
La grandezza dei servi sta quindi nel fare la Parola e nel servire il vino buono: la beatitudine della fede attiva ed operosa (Lc 11,28) è la beatitudine del servizio (Gv 13,17). Questa vocazione non porta a perdere la coscienza dei propri limiti ma ad integrarli nell’orizzonte di quel progetto che ci chiama ad un orizzonte di speranza: si tratta di accettare la responsabilità di un servizio che chiede di recuperare il coraggio del bene possibile.
Ci è comunque ben chiaro che il servizio non è solo l’esecuzione puntigliosa di un compito ma è lo sforzo per modellare la nostra vita sull’immagine di Cristo servo. Non vi è allora nessun servizio, nessuna missione senza un cammino di assimilazione al Signore. In una parola, non si può separare missione e spiritualità: questa ne è il segreto e l’anima interiore. Non si può nemmeno chiudere la spiritualità nel privato della propria persona per vivere la missione nel pubblico della vita sociale ed ecclesiale; la spiritualità investe ogni cosa perché è, insieme, fedeltà a Dio e all’uomo.
La lezione magistrale del card. Tettamanzi
È quanto ci ha richiamato S.Em. card. Dionigi Tettamanzi; poiché la sua voce rappresentava la voce dei nostri vescovi è con attenzione che la dobbiamo considerare. Al di là della efficienza, il card. Tettamanzi ci ha invitato a mantenere lo sguardo fisso su Cristo Signore e ci ha indicato nella signoria del Risorto l’essenziale a cui dobbiamo continuamente ritornare. Con gioia ne prendiamo atto. Non ci sfugge che il Risorto è, secondo Mt 25,40.45, colui che si identifica con i più piccoli e bisognosi così che è l’atteggiamento verso costoro la discriminante dell’accoglienza o meno della sua signoria.
Con forza, il cardinale ci ha ricordato che questa comunione con il Risorto è “dono per noi” ed è “compito da trasmettere agli altri”. Come dono e come dono che diventa fondamento di un compito, l’energia e l’exousía del Risorto attraversano come realtà viva e personale l’intera Chiesa, la trasformano e la rinnovano. Noi riteniamo che la missione sia l’esplosione di questa energia, di questo dono: per questo continuamente ringraziamo Dio. Sappiamo anche che la fatica nel legare fede e vita, nel comprendere evangelicamente i grandi avvenimenti della storia ci fanno capire quanto poco e quanto male viviamo di questa missione.
Richiamando il discernimento della storia, il card. Tettamanzi ci ha messo in guardia dal “consegnarsi” alla storia. Poiché il discernimento non cancella la fatica del capire, il dubbio come reazione emotiva a certi drammi, il cardinale ci chiede di assumere queste dimensioni e di purificarle in “termini di fedeltà e di creatività”. Questo ci sembra veramente importante. La realtà drammatica e pesante della storia pare a noi assimilare la nostra epoca a quella richiamata da Amos quando parla di «giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore» (Am 8,11). Il nostro tempo ci sembra così: più fragile che orgoglioso, più bisognoso che prepotente; per questo sentiamo rivolta a noi la parola di Gesù: «voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37).
Infine il cardinale ci ha invitato a concretezza e coerenza chiedendo un esame della qualità dell’annuncio e delle sue forme; in questa direzione ci ha richiamato il volto missionario da conferire alle comunità parrocchiali e la radicalità di una universalità che è sempre concretezza di impegno locale. Del pari ci ha invitato a contare sulla forza di Dio più che sul prestigio umano. Concordiamo profondamente con lui perché abbiamo nel cuore lo stesso sogno di una «Chiesa che accompagna gli uomini, s’appassiona e soffre con la loro storia, prega con e per loro perché diventino vangelo vissuto». Credo, però, che l’accoglienza più grande di queste indicazioni sia venuta dai laboratori del pomeriggio.
I laboratori del discernimento
La trentina di laboratori del pomeriggio era organizzata attorno a tre aree: i soggetti, gli ambiti di impegno ed i modelli di riferimento; va ricordata, pure qui, l’ampiezza di un dibattito ricco e appassionato. Per questo, mentre provo a riassumere alcuni aspetti che ritengo fondamentali, rimando agli Atti per una documentazione piena.
La prima area riguardava i soggetti della missionarietà della Chiesa italiana, cioè l’analisi di quelle figure nelle quali si esprime la volontà di rinnovamento di questa Chiesa. I laboratori hanno concordato nel ricordare che la missione non si aggiunge ad una identità cristiana già completa e definita indipendentemente da essa come un impegno in più ma che ne rappresenta la formalità specifica; lungi dall’essere solo un impegno, la missione rappresenta il volto odierno del discepolo di Gesù. Provando a qualificare questa identità, la si può forse riassumere nella radicalità evangelica, cioè nell’impegno per vivere il vangelo senza alcun compromesso, e nella capacità di andare al di là di ogni barriera, di ogni separazione. In un mondo globalizzato, l’«andare» non è tanto un partire geografico quanto un muoversi al di là di ogni frontiera e molte frontiere attraversano la realtà della società e della cultura italiana. L’andare, il superare ogni barriera è insomma una sorta di fraternità universale.
Molte sono le espressioni di questa nuova soggettività cristiana ed i laboratori ne hanno puntualizzati molti dagli Istituti missionari alle famiglie, dal laicato ai Fidei donum ma si sono fermati soprattutto sul laicato, sul mondo femminile e sul volontariato. Il laicato chiede ormai non parole di incoraggiamento ma spazi veri di responsabilità mentre il mondo femminile, ed in particolare le religiose, chiedono di mettere al servizio della missione – compreso il primo annuncio – le loro particolari doti. Inteso come scelta di vita e non solo come impegno a tempo, il volontariato chiede infine di essere meglio considerato nella sua specifica ecclesialità. La ricchezza e la multiformità di queste realtà spiega la concorde domanda: è tempo di passare dalla collaborazione alla corresponsabilità. È questa la domanda, la richiesta fondamentale rivolta alla Chiesa.
La seconda area riguardava gli ambiti di impegno. Al riguardo va ricordato il monito di Ad Gentes 6 e di Redemptoris Missio 31 che la missione sia una e unica, senza distinzione tra ad intra e ad extra; le diversità non sono intrinseche alla missione ma legate alle circostanze del suo concreto realizzarsi. Al riguardo vale la pena di rileggere, più che la tranquilla distinzione tra cura pastorale, nuova evangelizzazione e ad gentes di Redemptoris Missio 33, il dettato ampio di Redemptoris Missio 37. Insieme alla nozione di “areopago”, quel numero intreccia dati geografici, sociali e culturali per indicare le odierne priorità della missione: le città, i giovani, i media e la cultura sono ambiti di impegno missionario che, finora, abbiamo toccato solo parzialmente.
I laboratori hanno rilevato la presenza di una inerzia pastorale, di un ripiegamento liturgico-catechistico all’interno delle comunità ed hanno chiesto un superamento di questo cristianesimo ripiegato su se stesso. Il discernimento pastorale, di cui tanto si parla, deve avere il suo criterio nella valorizzazione delle dinamiche concrete ma anche nella apertura ad una autentica cattolicità. Un segno di questa conversione dovrebbe essere la perseguita relativizzazione delle strutture; il loro valore sta nel servizio alle persone ed ai loro cammini e non nel sopravvivere. Tra le molte osservazioni al riguardo, una merita di essere ricordata ed è quella che chiede che siano i consigli pastorali – oggi troppo statici – ad essere in prima fila in questo servizio. A loro lo si può e lo si deve chiedere.
La terza area riguardava infine i modelli di riferimento. Al riguardo, i laboratori hanno segnalato che la fatica a staccarsi da una pastorale di conservazione altro non è che la fatica a passare da una cura pastorale alle linee della nuova evangelizzazione. A maggior ragione si finisce per essere lontani dall’assumere una prospettiva che faccia dello ad gentes il paradigma della azione pastorale. Muovendosi nella linea di una pastorale unitaria e integrata, hanno chiesto di perseguire non solo l’interdipendenza tra liturgia, catechesi e carità ma la loro orientazione in senso decisamente cattolico e missionario.
Collocare la parrocchia in questo insieme di idee non è facile. I laboratori mostrano una certa fatica ad accettare quella valorizzazione piena e incondizionata che si ritrova anche negli ultimi documenti episcopali; per lo più registrano una fatica a rinnovarsi ed una sconcertante ignoranza del mondo della povertà. Con questo non rinunciano ad impegnarvisi ma chiedono di individuare meglio le forze e le dinamiche del cambiamento; in particolare chiedono di sostenere e, se occorre, di dar vita a chi vuole effettivamente portare avanti un rinnovamento.
Conclusione
Mi sembra che i frutti di questo Convegno siano significativi in una duplice direzione. Innanzitutto in ordine al movimento missionario stesso. Se è vero che la missione si compone di tanti aspetti – dalla testimonianza all’annuncio, dal dialogo alla inculturazione, dalla promozione umana alla edificazione della Chiesa – e che il suo nodo è come unificarli e gerarchizzarli, questo Convegno sembra aver posto l’accento sulla testimonianza della vita. Questo non significa negare l’importanza dell’annuncio o del dialogo ma vuol ricordare con forza che, nella concreta situazione italiana, la testimonianza della vita deve essere prioritaria; in una società dalla fede tradizionale, che ha conosciuto una pesante separazione tra fede e vita, riassorbire questa ferita è prioritario e rappresenta la condizione previa per poter presentare il vangelo con qualche credibilità.
Un secondo aspetto si muove da questo vangelo in ordine alla progettualità presentata dall’episcopato italiano alle Chiese. Questo Convegno vuol essere un segnale maturo sul fatto che questo movimento missionario ha ormai una sua identità ed un suo preciso volto e che è pronto a metterlo a disposizione di questa Chiesa: in essa è nato e con essa intende camminare.