Storia di Israele da Abramo ai giorni nostri – Parte 5
5. 1945-48: nascita d’Israele, la costruzione dello stato. La guerra del 1967 e la guerra del Kippur
(20 gennaio 2009)
L’arco temporale che va dalla nascita dello stato alla guerra del Kippur è molto frenetico; molti eventi sono noti, quindi ci soffermeremo soprattutto su quelli che, pur essendo altrettanto importanti, sono meno conosciuti.
Il 14 maggio 1948 a mezzanotte viene proclamato lo stato di Israele da parte di Ben Gurion, che diventa automaticamente primo ministro. E’ un paese già in guerra, con il tentativo degli ebrei di allargare le zone assegnate dal piano dell’ONU e degli arabi di impedirglielo. La prima è una guerra eccezionale, anche nel nome: gli israeliani la chiamano guerra di indipendenza, come se fosse stato grazie ad essa che gli inglesi se ne erano andati, mentre ciò era avvenuto per disposizione dell’ONU (si costruisce su questa guerra una specie di mitologia nazionalista: tutti gli stati ottocenteschi erano nati grazie a guerre di indipendenza, e anche il sionismo, che è un movimento nazionalista, vuole la sua).
La cosa più strana avvenne alle tre di notte del 15 maggio, appena dopo la proclamazione dello stato, quando Stati Uniti e Unione Sovietica (paesi già in piena guerra fredda tra loro), in quasi sincronia si affrettano a riconoscere lo Stato di Israele. E’ un passo anomalo, fatto perché entrambi vedono nello Stato di Israele l’opportunità di allargare le proprie zone di influenza. E’ un riconoscimento anomalo perché nel diritto internazionale non si riconosce uno stato che non abbia dei confini certi, e in quel momento lo Stato di Israele dei veri confini ancora non li ha. Questo perciò è un potentissimo atto di riconoscimento, al quale poi segue quello dei vari paesi allineati, senza il quale probabilmente Israele non ce l’avrebbe fatta ad andare avanti.
Israele apre le frontiere: arrivano uomini ma soprattutto armi. La guerra è contro libanesi, siriani, giordani, egiziani, anche se i vari nemici sono motivati diversamente tra loro. I libanesi in realtà fanno una guerra blanda: in quanto a maggioranza cristiana, il Libano è contento di avere al proprio confine un paese non musulmano; anche la Siria combatte più perché deve farlo che per convinzione; la Giordania è in guerra per avere la Cisgiordania (West Bank), ma in realtà c’era già stato un accordo segreto al riguardo e quindi l’avrebbe avuta comunque; non si erano però messi d’accordo su Gerusalemme, quindi la guerra vera contro i giordani è sulla città, e da questo punto di vista Israele perde (l’esercito giordano è addestrato dagli inglesi, e mantiene il presidio su Gerusalemme).
E’ molto importante, psicologicamente, la guerra contro l’Egitto, nemico atavico degli ebrei, che fa “gonfiare” le dimensioni della guerra stessa: Israele piccolo stato contro il gigante arabo. Ciò non corrisponde a verità: Israele aveva 60.000 uomini, la coalizione araba altrettanti, quindi c’era equilibrio, ma soprattutto gli arabi non hanno un comando unificato. Inoltre hanno interessi diversi se non contrastanti; non è vero che combattono Israele per soccorrere i palestinesi, in realtà dei palestinesi non è mai importato niente a nessuno: ciascuno va in guerra per impedire agli altri di allargarsi, quindi gli arabi sono in realtà in guerra anche tra di loro.
La divisione araba e l’assoluta determinazione degli israeliani porta Israele a conquistare confini più ampi di quelli definiti dall’ONU. La guerra ha tre tappe, con tre armistizi, ed è una guerra molto complicata: a un certo punto il mediatore dell’ONU, il conte svedese Bernadotte, viene ucciso dalla Banda Stern; ci sono conflitti interni tra gli ebrei, tra Ben Gurion e l’Irgun di Begin, tanto che Ben Gurion arriva a far bombardare una postazione navale dell’Irgun ad opera di Itzak Rabin (ebrei che uccidono altri ebrei, e questo episodio avrà ripercussioni pesanti 40 anni dopo, spiegherà in parte l’odio dell’estrema destra per Rabin).
L’aspetto più interessante è rappresentato dalla terza tappa della guerra, nell’ottobre-novembre. A questo punto Israele si è allargato, soprattutto in Galilea (che era destinata allo stato palestinese, mai proclamato), ma vuole espandersi anche a sud, nel Neghev. L’ultima tregua viene infranta da Israele quando Ben Gurion ordina di conquistare il Neghev, e lo annettono; la guerra finisce a dicembre. Quelli stabiliti dalla guerra non sono veri confini perché non vengono riconosciuti; comunque rimangono stabili fino al 1967. Fino al 1967 Israele vive relativamente in pace, anche se con qualche attrito con i vicini, e a parte gli ultraortodossi, tutti sono piuttosto entusiasti dell’esistenza dello stato.
Vengono immediatamente aperte le frontiere all’immigrazione, e arrivano le centinaia di migliaia di persone finora “congelate” a Cipro, in Europa, in Russia. Arrivano anche coloro che in teoria non erano attesi: oltre agli aschenaziti dalla Germania e dall’Europa orientale, entrano anche i sefarditi e gli orientali dei paesi arabi, perché inevitabilmente la guerra del ’48 rompe tutti gli equilibri delle comunità esistenti nei paesi arabi, quindi anche quelle più antiche si trovano in condizioni di pericolo. In Israele si ritrovano quindi rapidamente ebrei provenienti da tutte le parti. L’immigrazione degli anni ’50 è caotica e si può dire “miracolosa”, perché è incredibile come uno stato così piccolo e tutto sommato povero riesca a dare casa e lavoro a così tante persone in tempi rapidissimi, insegnando anche a tutti una lingua nuova e complicata.
Israele è un enorme laboratorio sociale, che ha come cardine la dichiarazione di indipendenza di Ben Gurion ma non ha (e non avrà mai) una costituzione, perché Ben Gurion, che pure all’epoca controllava perfettamente il parlamento, decise di non scrivere un documento che avrebbe vincolato i suoi successori. La costituzione non fu quindi redatta al momento della nascita dello stato e non fu poi redatta mai, perché poi Israele ha subìto divisioni sempre più profonde. La legge più importante dello stato è quella del ritorno, che concede automaticamente la cittadinanza a qualunque ebreo, usando una definizione di ebreo che è volutamente copiata dalle leggi di Norimberga (naziste). Secondo la definizione religiosa, è ebreo chi ha una madre ebrea; chi ha solo il padre o un antenato qualsiasi non è tecnicamente ebreo. Invece per la legge del ritorno è sufficiente avere un qualsiasi livello di parentela, e inoltre arrivando da ebreo in Israele si ottiene immediatamente la cittadinanza (cosa che complicherà molto la situazione con il massiccio arrivo di ebrei dalla Russia negli anni ottanta).
Il parlamento, Knesset (= assemblea) ha una sola camera e 127 seggi; il sistema politico è rigorosamente proporzionale (cosa che provocherà molti problemi negli anni più recenti). C’è praticamente un solo partito, il Mapai di Ben Gurion, che per molti anni ha la maggioranza assoluta anche se spesso associa al governo partiti minori; è una sorta di “partito-mamma”, affiancato da un sindacato (anch’esso unico), e partito e sindacato tengono le redini dell’intera società, che è molto puritana. Fino a tutti gli anni ’60 Israele è praticamente uno dei pochi paesi realmente socialisti al mondo. E’ poverissimo, sia per le altissime spese dell’immigrazione che per quelle militari, e molto moralistico: la forbice tra lo stipendio più alto e quello più basso è soltanto di uno a sei. I beni di importazione sono sottoposti a dazi pesantissimi, quindi circolano solo i beni di reale necessità; pochi sono coloro che possiedono un’automobile, la televisione arriva alla fine degli anni ’60 e solo in bianco e nero. Si legge molto, si risparmia, e ci si dedica alla costruzione del paese. Negli anni ’50 Israele potrebbe tentare di fare la pace con gli arabi, ma allora purtroppo questa strada non fu percorsa: si era ancora in una fase di fervore e mitologia, lo stato era giovane, e non si aveva voglia di fare concessioni agli altri, nonostante i tentativi delle grandi potenze.
Negli anni ’50 l’immigrazione da Europa del nord e dell’est e dal Medio Oriente è molto forte, mentre sono pochi gli ebrei che arrivano dall’America o dalla Gran Bretagna. Nel paese ci sono però anche quegli arabi che non se ne sono andati al momento della costituzione dello stato. C’è molto dibattito sulla questione se in quel periodo Israele abbia o meno operato una politica di vera e propria pulizia etnica, oppure se abbia semplicemente “incoraggiato” gli arabi ad andarsene (anche il mondo arabo spingeva in questa direzione): comunque almeno 150.000 persone rimasero, concentrate in parte in alcune aree del Neghev (i beduini, che non sono mai stati nemici di Israele in quanto non amici degli altri arabi), e soprattutto in Galilea, dove fino al 1964 restarono in un regime di occupazione militare. Inoltre nei primi anni ’50 Israele aveva promulgato una legge di cittadinanza discriminatoria nei confronti degli arabi che avevano lasciato le proprie case durante la guerra: questi non hanno più diritto a tornare, e d’altra parte i profughi non furono accolti e integrati dai paesi vicini (Siria, Libano); l’Egitto li “intrappolò” nella striscia di Gaza, da cui non permise loro di muoversi. Il solo paese che ebbe una politica diversa fu la Giordania, ma solo perché non aveva scelta. Teoricamente gli arabi di Israele vivono in una condizione ottimale, in quanto cittadini come gli altri, ma in realtà sono cittadini non ebrei di uno stato ebraico, israeliani ma non ebrei, quindi sempre con una marcia in meno rispetto agli altri.
E’ interessante in questo periodo la politica estera di Israele, che fino agli anni ’60 si considera uno stato anticoloniale e terzomondista, tanto da chiedere di far parte del movimento dei non-allineati, quindi né con la Russia né con gli Stati Uniti: un giovane stato emergente al fianco degli altri. Però alla conferenza dei paesi non allineati di Bandung del 1955, a cui partecipavano anche molti stati arabi, Israele non fu ammesso, e da quel momento Israele scopre che non può fare altro che entrare nel campo occidentale.
Nel ’56 si ha un’altra guerra, di stampo puramente coloniale: Francia e Inghilterra vogliono dare una lezione a Nasser che in quell’anno ha nazionalizzato il Canale di Suez togliendolo agli azionisti. Israele si inserisce in questa contesa, decide di partecipare al complotto franco-britannico contro l’Egitto e inizia l’attacco; inglesi e francesi intervengono al suo fianco ma gli americani, non informati, insieme ai sovietici fermano la guerra, punendo gli alleati europei ma (curiosamente) non gli israeliani. Israele esce quindi vittorioso, oltre che dalla prima guerra, anche dalla sua fetta di questa seconda guerra, ma ciò, sul lungo periodo, non costituisce un elemento positivo: si comincia a creare il mito dell’efficienza militare e invincibilità israeliana (e parallelamente quello della debolezza araba), ma questo mito, come si vedrà poi, può anche avere delle conseguenze negative.
Tra gli anni ‘50 e ‘60 Israele ha una politica estera sfaccettata e interessante. Sono gli anni del raggiungimento dell’indipendenza da parte di molti stati asiatici e africani (indipendenza raggiunta spesso con azioni anticolonialiste nei confronti delle grandi potenze europee), i quali vengono immediatamente ammessi all’ONU e in altri organismi internazionali. Israele ha bisogno di alleati per contrastare i paesi arabi, e con astuzia e pochi mezzi sfrutta tutti i pochi spazi che si aprono grazie alla presenza di questi nuovi stati, offrendo assistenza tecnica, agricola, militare (ad esempio addestrano l’esercito ugandese, cosa che risulterà utilissima nel 1976 con l’episodio di Entebbe). Quindi offrono abilmente quel poco che hanno, sperando che questa politica paghi; in realtà, nella maggior parte dei casi, non andrà così: questa politica suscita inizialmente grandi speranze ma anche poi cocenti delusioni.
Però tra gli amici di Israele c’è il Marocco, sia perché non coinvolto nelle alleanze mediorientali sia perché ha forti legami con gli Stati Uniti, e in Marocco si svolgeranno molti incontri segreti della politica internazionale successiva. Gli altri stati arabi invece sono tutti ostili a Israele, più o meno direttamente. Nel mondo musulmano (non arabo) alleati di Israele sono anche la Turchia e la Persia: fino all’avvento di Khomeini l’Iran è uno stato amico di Israele, a cui vende il petrolio a prezzi di favore (ancora Israele acquista il petrolio dall’Iran) attraverso il porto di Eilat (questa è la ragione per cui quell’accesso al mare è importantissimo per Israele).
La politica estera è quindi complessa, soprattutto con il blocco sovietico (anche dopo la morte di Stalin); Israele è molto prudente nei confronti dell’Unione Sovietica, storicamente antisemita, per timore dei contraccolpi negativi che una politica ostile potrebbe avere sui moltissimi ebrei rimasti in Russia.
Arrivando agli anni ’60 l’ondata di immigrazione si attenua, ma iniziano dei momenti di crisi interna. La Germania Federale, già dagli anni ’50, affronta il problema delle riparazioni nei confronti di Israele, sostenendolo economicamente. In Israele c’è uno schieramento pragmatico (quello di Ben Gurion), che, pur riconoscendo che la nuova Germania non è poi tanto migliore della vecchia, ne accetta gli aiuti; e c’è uno schieramento più rigido (quello di Begin e della destra sionista, che non è al governo), che sostiene che dai tedeschi non si deve accettare nulla, sarebbe accettare il prezzo del sangue. I negoziati tra Israele e Germania sono spettrali: tutti sanno il tedesco ma i colloqui si svolgono in inglese; Adenauer dà mandato di non porre alcuna condizione e di pagare tutto ciò che viene richiesto; Israele accetta gli aiuti ma sempre con la feroce opposizione della destra. Tutto ciò crea enormi tensioni all’interno del paese, fino ad arrivare all’assassinio di un israeliano accusato di essere un traditore durante il nazismo.
Un altro evento, sempre legato alla Shoah, che fa esplodere gli umori peggiori interni, è il processo Heichmann. Heichmann, colonnello delle SS che nel 1944 (a guerra praticamente finita) aveva fatto di tutto per deportare gli ebrei ungheresi, viene catturato in Argentina nel 1961 in modo fortunoso (rapito), portato in Israele e processato. Questo evento ebbe un effetto analogo allo scoperchiamento del tombino di una fogna, portando alla luce tutto ciò che finora era stato volutamente rimosso. In questi suoi primi anni di esistenza Israele ha coltivato un’immagine di sé molto positiva, forte, vincente (con un’iconografia studiata in contrasto con quella tradizionalmente diffusa nell’Europa del periodo precedente). Non si parlava della guerra né delle persecuzioni, che erano dei veri e propri tabù; addirittura si arrivava ad accusare gli ebrei che erano rimasti vittima dello sterminio di essere in qualche misura corresponsabili del proprio destino (per non essersi ribellati). Con questo processo tornano alla memoria tutti gli episodi di sofferenza e persecuzione, di sconfitta e umiliazione, che erano stati letteralmente rimossi: il tabù viene rimosso, si parla di quanto è accaduto. Il processo si conclude con la prima e unica condanna a morte eseguita nello stato di Israele.
Per quanto riguarda l’esercito, questo rappresenta una componente fondamentale dello stato. Quello israeliano è un esercito eccezionale: innanzitutto è la prova che gli ebrei hanno davvero un loro stato, ma è anche una potente macchina sociale: gli immigrati vengono messi tutti insieme nell’esercito, e lì imparano la lingua e il senso dello stato; inoltre è un esercito di sinistra, non solo per la posizione politica del paese, ma anche perché, tra gli ufficiali di carriera, sono molto numerosi coloro che provengono dai kibbutz. Anche le regole di ingaggio sono inconsuete: la logica è che gli ufficiali muoiono in battaglia come i soldati, non mandano i sottoposti a combattere ma ci vanno loro stessi.
Negli anni ’60 è ancora al comando Ben Gurion, che spesso è sia primo ministro che ministro della difesa. E’ un vero e proprio padre della patria, sta alla guida del paese quasi ininterrottamente per oltre trent’anni. Ma con il cambiare della società la situazione politica cambia: cresce la destra e si moltiplicano i religiosi, anche perché sono esonerati dal servizio militare. Questa disposizione risale al ’48, quando ancora i religiosi erano pochissimi e inoltre rappresentavano un punto di riferimento importante (è tra di loro che nascono i rabbini, quindi non si poteva mandarli a morire in guerra), e non è mai stata revocata. I religiosi hanno più figli, e quindi pian piano aumentano numericamente: nelle scuole elementari di Gerusalemme ormai ci sono più bambini ultraortodossi che laici o ortodossi “semplici”.
Prima della guerra dei sei giorni, nel 1963, Ben Gurion lascia il potere ritirandosi in un kibbutz del Neghev. Quella del 1967 è un’altra guerra straordinaria. In quel periodo l’Egitto è alla ricerca di una conferma della propria leadership all’interno del mondo arabo; Nasser quindi decide di inviare truppe sul Mar Rosso, nella zona di Shar-el-Sheikh, dove ci sono delle milizie dell’ONU. U-Thant (allora a capo dell’ONU) lascia fare, ma le postazioni che vengono armate dall’Egitto sono vicinissime al porto israeliano di Eilat; a un certo punto, nel maggio del ’67, l’Egitto minaccia di chiudere l’accesso d’acqua a Israele: un fatto del genere, nel diritto internazionale, rappresenta letteralmente un “casus belli”; cioè, Israele è legalmente autorizzato a reagire con le armi di fronte a una minaccia simile.
Dal punto di vista giuridico, quindi, quella del ’67 è una guerra legittima. A fine maggio viene ordinata la mobilitazione generale, chiamando alle armi anche i riservisti fino ai 50 anni di età, bloccando quindi la vita economica del paese. Ciò significa che la guerra deve necessariamente durare poco, altrimenti il paese va alla paralisi e alla bancarotta: per Israele una guerra è davvero vinta solo se dura poco, una guerra lunga, anche se vinta militarmente, è un disastro. E’ con questa logica quindi che si va a combattere. Lo scenario è complicato; Israele dispone di un servizio segreto molto efficiente, il Mossad, grazie al quale studia una strategia bellica straordinaria che non ha uguali nella storia moderna. La guerra viene fatta con un governo di unità nazionale, che comprende anche la destra; addirittura nei primi giorni di guerra si vede Begin andare a chiamare Ben Gurion nel kibbutz dove si era ritirato affinché torni anche lui al governo. Tra la fine di Maggio e i primi di Giugno i paesi arabi formano un fronte unico: la Siria si allea con l’Egitto, e soprattutto entra nel fronte anche la Giordania (mossa poco saggia. Una monarchia che si allea con due repubbliche).
La guerra scoppia alle 7 del mattino del 5 giugno, e tutto si gioca nell’arco di 3 ore. Gli israeliani attaccano alle sette perché sanno che è l’ora del cambio della guardia degli eserciti nemici; l’aviazione israeliana calcola i tempi al secondo, e bombarda contemporaneamente gli aerei al suolo dei tre eserciti. Distruggono gli aerei a terra (aerei russi nel caso di Egitto e Siria, circa 400) e le piste di atterraggio; a questo punto gli eserciti di Siria, Giordania ed Egitto non hanno copertura aerea, e quindi parte l’attacco di terra. Israele a nord conquista il Golan, a sud il Sinai, e soprattutto il West Bank giordano. Anche la guerra di terra è vinta rapidamente, e in sei giorni gli israeliani arrivano a Gerusalemme. La guerra, dal punto di vista militare, è un capolavoro, ma politicamente è una catastrofe (le conseguenze si vedono ancora oggi). E’ significativo anche il nome: guerra dei sei giorni (nel settimo si riposarono): per l’importanza dell’obiettivo (Gerusalemme), per la rapidità, per la conquista della Giudea e Samaria (cuore dell’antico Israele) fu percepita come una vera e propria guerra messianica. Finalmente gli ebrei hanno a disposizione tutta Gerusalemme, possono toccare il Muro del Pianto: Israele si convince di essere invincibile e di godere davvero del sostegno divino. L’annuncio della fine della guerra fu dato in questi termini: “l’area del tempio è nelle nostre mani”; questo fu il segno per tutto il paese che davvero Israele aveva vinto.
Da ora in poi Israele vive una dinamica completamente nuova. Due dei territori occupati cambiano rapidamente status. A Israele non interessano molto né il Sinai né Gaza, stanno invece a cuore il nord (il Golan interessa per le riserve di acqua) e soprattutto il West Bank con Gerusalemme. In poco tempo, con una legge poi riconfermata negli anni ’80, Israele annette il Golan e unifica Gerusalemme, la dichiara capitale indivisibile, e ne allarga (a est, dove vivono gli arabi) i confini municipali. Questo atto ha una enorme importanza, perché cambia la demografia della città e dà spazio a una serie di azioni che poi acquistano il peso dei fatti compiuti. A Gerusalemme vivono moltissimi arabi, ai quali non viene concessa la cittadinanza: gli arabi conservano la cittadinanza giordana, e infatti possono votare solo alle elezioni municipali. In pratica si annettono le terre ma non le persone. Sul Golan invece non ci sono problemi: non solo perché il nord è poco abitato, ma anche perché gli arabi che ci vivono sono drusi, quindi di un’etnia che è sempre stata abbastanza filoisraeliana. Non annettono né Gaza né il Sinai.
Tre anni prima della guerra dei sei giorni, nel 1964, era intanto nato l’OLP (Fatah esisteva già), un movimento laico ma molto variegato al suo interno (comprende sia una destra che una sinistra), e l’OLP sceglie forme di lotta di stampo terroristico per combattere Israele (colpendo anche paesi occidentali, ritenuti corresponsabili della situazione creata dagli ebrei in Palestina). Uno degli eventi più drammatici e clamorosi si ha nel ’72 a Monaco, con il sequestro della squadra olimpica israeliana conclusosi con un massacro.
Dal 1967 al 1973 Israele occupa il Sinai. Sono i cosiddetti “anni della compiacenza”: Israele si sente forte, ha finora vinto tutte le guerre, si sente superiore rispetto ai popoli confinanti. In Egitto intanto c’è stato un cambiamento al potere: dopo la sconfitta Nasser si dimette, torna sul trono il re che era stato destituito che però muore presto, e sale quindi al potere Sadat, un uomo molto capace che cerca di riscattare l’orgoglio egiziano. Sadat innanzitutto manda via i sovietici riavvicinandosi al campo occidentale, e poi nell’ottobre del 1973 combatte una nuova guerra contro Israele per riguadagnare il prestigio perduto.
La guerra del 1973 è una guerra contro due soli nemici: la Giordania, umiliata nel ’67, se ne tiene fuori. In ottobre, nel giorno del Kippur (che quell’anno coincide con il Ramadan) Israele viene attaccato. La marina aveva informato il governo di Golda Meir addirittura il giorno prima che ci sarebbe stato l’attacco, ma Golda Meir (giudicata un pessimo premier) decise di non colpire Egitto e Siria con un attacco preventivo per non rischiare un attrito con gli Stati Uniti. Quindi il governo sapeva, mentre il paese fu preso di sorpresa. Però la reazione fu immediata: quello di Kippur è un giorno di digiuno e preghiera, in cui non si telefona, non si ascolta la radio, non si viaggia; ogni ebreo sa che se per Kippur anche semplicemente suona il telefono significa che è successa una disgrazia grave. Quindi l’esercito poté contare su strade pressoché sgombre per muoversi e si mise in moto molto facilmente (a differenza di quanto sarebbe accaduto in un normale giorno di lavoro). L’attacco viene da nord (Siria) e da sud (Egitto); l’attacco da sud non arriva naturalmente dal Sinai (occupato da Israele) bensì dal mare. La guerra è dura, perché i nemici sono preparati; è relativamente lunga (almeno per gli standard israeliani), tanto che a un certo punto finiscono le munizioni, e Israele viene salvato da un gigantesco ponte aereo americano; è una guerra complicata: a un certo punto Ariel Sharon, un generale estremamente indisciplinato che si trovava nel Sinai, di propria iniziativa e senza informare il governo attraversa il canale e sbarca in Africa, letteralmente invadendo l’Egitto. Contemporaneamente gli egiziani avevano invaso il Sinai, e quindi i due eserciti si trovano in posizioni rovesciate. Alla fine della guerra il primo drammatico compito di Kissinger (che conduce i negoziati) sarà proprio quello di sciogliere questo nodo: come far tornare ciascuno a casa propria (anche perché le armate egiziane nel Sinai sono allo stremo per la mancanza d’acqua).
Quella del Kippur è una guerra che infrange il mito di invincibilità di Israele, perché, a modo loro, anche gli Egiziani “vincono” (per il fatto stesso che non perdono); e inoltre si tratta di una guerra che dura più a lungo delle altre. Da ora in poi Israele non andrà più in guerra contro i paesi arabi. Si ha anche il tramonto della leadership laburista: dallo stallo con cui si conclude la guerra, che viene imputato soprattutto alla cattiva gestione di Golda Meir, acquista sempre più potere la destra, che nel ’77 arriverà a vincere le elezioni.
(testo non rivisto dall’autore)