Unione Europea. Una nuova forma di potere o un nuovo modo di cooperare con i Paesi del Sud
Corso di formazione alla Mondialità e Missionarietà
12 aprile 1997
UNIONE EUROPEA.
Una nuova forma di potere o un nuovo modo di cooperare con i Paesi del Sud?
Aluisi Tosolini
Il tema oggetto del nostro approfondimento è abbastanza inconsueto rispetto ad altri corsi alla mondialità o alla missionarietà. E’ evidentemente una scelta coraggiosa da parte di chi ha organizzato questo corso. Di solito all’Unione Europea non si dedica molto spazio di riflessione; ci si riduce a parlarne solo perché, in questi mesi, chi fa un lavoro dipendente trova sui moduli degli stipendi una voce strana in cui si dice che in base ad una certa legge ognuno di noi paga una tassa per l’Europa.
Presentare l’Europa come qualcosa per cui si deve prima di tutto pagare una tassa non è il modo migliore per avvicinare i cittadini a questa nuova realtà; dal punto di vista del marketing siamo partiti nel peggiore dei modi.
L’approfondimento che mi viene richiesto riguarda l’Unione Europea come forma di potere oppure come nuovo modo di cooperare con il Sud del mondo.
Per svolgere questa analisi dividerei il mio intervento in tre momenti:
- informazioni tecniche sullo stato dell’Europa e dell’Unione Europea;
- rapporto tra Europa, così come questa viene a costituirsi, e il Sud del mondo;
- analisi di alcuni aspetti di questo rapporto, in modo particolare dei cosiddetti ACP e del sistema delle preferenze generalizzate ovvero di tutto il dibattito attualmente esistente intorno alle problematiche delle clausole sociali.
Parliamo di Unione Europea e non di Comunità Europea in seguito ad un trattato che è stato firmato a Maastricht (piccola città olandese divenuta celebre per questo) il 17 febbraio 1992. Questo trattato ha dato il via ad alcuni significativi processi.
Se tutto funziona, alcuni obiettivi fissati dal trattato dovrebbero essere raggiunti entro il 1998 per quanto riguarda politica estera e sicurezza e il 1.1.1999 per l’attuazione della moneta unica. Ed è ciò che in questi giorni si dibatte anche in Italia: se e come entrare in Europa e nella moneta unica. Anche dagli altri paesi europei vengono dichiarazioni da parte di chi dice “l’Italia non la vogliamo” e di chi dice “sì la vogliamo”.
Il Trattato di Maastricht contiene alcune, poche, novità significative, le altre o sono pseudo novità o non sono novità.
Unione economica e moneta unica è la prima grande novità.
Il cuore del trattato è costituito dalle disposizioni economiche, cioè da quelle necessarie per la creazione dell’unione economica e monetaria. Nasce l’Unione Europea, soprattutto a base economica. Alcuni paesi europei, che hanno firmato il trattato, dicono “noi scegliamo di entrare nel processo di costruzione dell’Unione Europea percorrendo, tra quelle possibili, la strada dell’unione economica e monetaria”.
Dal 1° Gennaio 1999 – se tutto funzionasse e avesse un senso – avremmo in tasca non più delle lire ma degli euro (sono già stati stampati litigando oltre che sul nome anche sui disegni, se mettere il Colosseo invece del Partenone, ecc. in modo che ognuno dei 15 paese sia rappresentato tramite i diversi tagli di carta moneta).
La seconda grande novità – art.8 del trattato – è l’istituzione della cittadinanza europea.
Sulla copertina dei passaporti recenti c’è stampato un cerchio composto da 12 o da 15 stelle a seconda che sia stato fatto prima o dopo l’ingresso degli ultimi tre paesi. Noi siamo cittadini europei e questo ci dà alcuni diritti per quando riguarda lo stabilirsi in uno dei 15 paesi, la circolazione, il soggiorno, fino al diritto di voto , attivo e passivo, per gli Enti Locali. Per es. sindaco di Firenze potrebbe essere un tedesco e di Parigi un italiano.
Ci sono poi delle novità sottoposte a condizioni e a verifiche. In particolare:
La politica sociale ovvero la protezione dei lavoratori in caso di licenziamento, i sindacati, l’impiego dei cittadini extracomunitari, entrata e uscita dei medesimi, controllo dei medesimi, ecc.
Queste disposizioni avranno valore solo se adottate all’unanimità dal Consiglio dei ministri europei. In pratica ogni governo ha diritto di veto e ciò determina una posizione assolutamente debole.
Da questo tipo di politiche il trattato fa una deroga per il Regno Unito che può o no aderire alle decisioni prese.
Inoltre i poteri del parlamento europeo continuano ad essere consultivi.
Chi conosce come funziona il parlamento europeo sa bene che è la palestra politica più bella e significativa esistente oggi in natura. Per quale motivo? Perché la sua attività non ha nessuna ricaduta pratica e ciò induce a non confrontarsi mai con la realtà. Spesso vengono citate prese di posizione del parlamento europeo estremamente avanzate, ma che non sono attuate e forse non sono attuabili. E’ come fare discorsi su come sarebbe bello vivere “nel migliore dei mondi possibili”. E’ come proporre leggi adeguate al migliore dei mondi possibili, ben sapendo che rimarranno delle perorazioni, delle preghiere, degli esercizi di laboratorio per laureandi e laureati in scienze politiche. Il parlamento europeo non ha la possibilità di votare la fiducia al governo europeo che è costituito dai Commissari Europei che sono sostanzialmente eletti o nominati dai governi dei 15 paesi.
L’Italia ha due Commissari: la commissaria al PESCE e agli aiuti umanitari che è Emma Bonino e il commissario per le questioni economiche che è Monti , ex rettore della Bocconi e grande economista. I due commissari sono stati eletti dal governo Berlusconi e sono ancora lì anche se il governo in Italia è cambiato; questo per capirne l’importanza relativa.
Dal trattato di Maastricht è riconosciuto al parlamento europeo il diritto di veto sulle deliberazioni del Consiglio secondo una proceduta complessissima contenuta nell’art. 189/b fino ad oggi mai utilizzato.
La politica estera e di sicurezza (il PESCE) non ha la stessa forza della politica monetaria indirizzata alla costituzione della moneta unica.
Ci sono poi delle disposizioni – contenute nel titolo 17° art. 130/U – che riguardano la cooperazione e lo sviluppo e sono quelle che riguardano più da vicino questo nostro incontro.
Vi leggo alcuni passi delle disposizioni comuni che sono i principi fondamentali del trattato. Sono gli articoli A – B – C – D – E – F, i quali dovrebbero tenere in piedi l’Unione Europea. Quando ci si unisce per realizzare qualcosa insieme ci si prefiggono degli obiettivi, il raggiungimento dei quali realizza l’unione.
Chiediamoci se sono questi gli obiettivi che faranno l’Europa unita. Chiediamoci se l’unione monetaria, da sola, farà l’Europa unita o se è uno dei mezzi per unire l’Europa. Oggi, però, discutiamo solo se fare o no l’unione monetaria. L’unione monetaria è il mezzo che ci porterà di per sé a raggiungere gli obiettivi indicati nel trattato? Oppure è una scorciatoia che non porta da nessuna parte?
Leggo dalle disposizioni comuni:
art. B: … “L’Europa promuove un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile (parola alla moda nel 1992, oggi forse avrebbero aggiunto “umano” perché questo termine è molto di moda adesso) segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l’instaurazione di una unione economica in conformità delle disposizione del trattato.”
Già questo primo comma dice che sono tre le cose da raggiungere:
- uno spazio senza frontiere interne
- progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile
- coesione economica e sociale con instaurazione di un’unione che comporti la moneta unica.
art. C: … “Affermare la sua identità sulla scena internazionale segnatamente mediante l’attuazione di politica estera e di sicurezza comuni ivi compresa la definizione, o termine, di una politica di difesa comune che potrebbe, successivamente, condurre ad una difesa comune.”
Prima abbiamo detto uno spazio fisico comune per cui se volete andare in Austria a Tarvisio nessuno vi ferma, poi una moneta unica e terzo l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune che potrebbe, successivamente, condurre ad una difesa comune. E’ diverso dire il 1° gennaio 1999 ci dovrà essere l’euro per tutti e dire: lavoriamo nell’ottica di una politica estera e di sicurezza comune che forse potrebbe condurre non si sa quando perfino ad una difesa comune!
3 – “Rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi stati membri mediante l’istituzione della cittadinanza dell’unione”. Questa è già attiva.
4 – “Sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni”.
5 -“Mantenere integralmente la consapevolezza comunitaria. Svilupparla ai fini di valutare attraverso la procedura prevista in quale misura si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate dal presente trattato al fine di garantire l’efficacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie”.
Leggo ancora un altro passo dell’ art. F:
“L’unione rispetta l’identità nazionale dei suoi stati membri i cui sistemi di governo si fondano sui principi democratici.”
“Rispetta i principi fondamentali quali sono garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950, i quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri in quanto principi generali del diritto comunitario.”
Da una rapidissima analisi dell’art. B che fissa gli obiettivi, noi vediamo che gli obiettivi sono molteplici: spazio unico, moneta unica, politica estera, sicurezza e difesa unica, tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini, cooperazione nella giustizia e negli affari interni. C’è una pluralità di obiettivi, però l’attenzione in questi ultimi anni è stata rivolta unicamente all’unione monetaria rispetto alla quale tutti i paesi sono tenuti a rispettare alcuni parametri che sono quelli che si leggono quotidianamente sulla stampa. Per es. inflazione inferiore al 3%, percentuale del debito sul PIL inferiore al 3%, ecc. Secondo le ultime manovre del Governo l’Italia è vicina a questi parametri: tuttavia è in corso un grande dibattito fra chi dice che li abbiamo raggiunti in maniera strutturale e chi dice che li abbiamo raggiunti solo in maniera momentanea, grazie ed un esborso di risorse mediante tasse che non incidono sul lungo periodo.
La Confindustria, in una significativa manifestazione virtuale con alcuni presenti a Roma e gli altri nelle varie sedi della Confindustria collegati in video conferenza (sono le nuove forme di lotta che non avvengono più in Piazza San Giovanni ma tramite i potenti mezzi della Telecom), ha detto chiaramente che l’ultima manovra del governo italiano non essendo strutturale non incide sui processi di spesa e quindi adesso abbiamo dato e dopo dovremo ridare perché non riusciremo a stare nel parametro del 3%.
L’attenzione solo sulla moneta unica può essere compresa secondo la teoria dei cosiddetti “funzionalisti”. Ci sono alcuni che sostengono “prima la moneta e il resto seguirà”, cioè se noi facciamo la moneta unica tutto il resto che è stato firmato seguirà.
Altri sostengono invece che questa posizione che viene definita “funzionalista” è scientificamente infondata, illogica, perché il “resto che dovrebbe seguire” non ha niente a che fare con la moneta, ma a che fare con le scelte politiche.
C’è un libro molto bello su questo argomento scritto da Ralf Dahrendorf intitolato “Perché l’Europa – riflessioni di un europeista scettico” da questo libro cito: “Il resto che dovrebbe seguire, non essendo per niente omogeneo alla questione della moneta unica, non può seguire”. Nel resto che dovrebbe seguire ci sono per esempio i meccanismi decisionali nelle istituzioni europee. Non si vede come dal raggiungimento della moneta europea unica si riesca ad avere come conseguenza una precisa definizione dei meccanismi decisionali nelle istituzioni europee.
Ad es. se il veto funziona o no. Anche se tutti i rappresentanti dei 15 paesi acquistano per es. un caffè con la stessa moneta non è detto che per questo, necessariamente, eliminino il diritto di veto su determinate decisioni.
Ancora, nel resto che dovrebbe seguire, ci sono i mandati sulla negoziazione per l’allargamento dell’UE verso est e verso sud. Dal fatto di avere una moneta unica non ne deriva una presa di posizione comune sul fatto che l’UE si debba allargare verso est, per es. la Polonia, l’Ungheria o la Boemia o verso sud cioè verso i paesi della sponda africana del Mediterraneo, che non avrebbero a che fare geograficamente con l’Europa, ma l’Europa non è più una questione di mari e fiumi, ma qualcosa di più complesso, o verso la Turchia, che ha chiesto di entrare in Europa e che come Israele partecipa ai tornei europei di pallacanestro, di pallavolo e di calcio; sembra niente ma che nelle coppe europee ci siano paesi del Medio Oriente è già qualcosa, c’è già un’Europa dello sport diversa da quella geografica.
Finanziamento dell’Europa e bilancio. Il fatto di avere una moneta unica non ci dice come viene costituito il bilancio europeo o come si reperisce il finanziamento. Quanto ogni paese deve dare? come? con tassazione fissa od altro?
Inoltre, il fatto di avere una moneta unica non è collegabile direttamente alle regole comunitarie da seguire nella politica interna o nell’amministrare la giustizia o nella politica estera o in quella di sicurezza.
Ma ci sono anche gli euro non scettici o non diffidenti, i quali dicono: noi vogliamo l’Europa tanto che non crediamo che l’Europa si possa costruire attraverso solo l’unione monetaria; questa non fa tutta l’Europa ma solo un pezzo.
Ci sono poi altri tre nodi da sciogliere, la cui soluzione non è conseguente alla moneta unica. Sono quelli della disoccupazione, della competitività economica e della riforma dello stato sociale.
Coloro che criticano i “funzionalisti”, sostengono che queste problematiche non saranno risolte in maniera automatica dal solo fatto di mettere in campo l’unione monetaria. Anzi, sostengono che la ricerca dell’unione monetaria ad ogni costo può portare alla disintegrazione europea.
Il Trattato di Maastricht prevede che se non tutti i paesi ce la faranno al primo colpo a rispettare i parametri voluti, si farà un nocciolo duro tra quelli in grado di rispettarli e gli altri seguiranno. Si verrebbe così a distinguere un centro e una periferia, gli in e out, come vengono chiamati. E’ chiaro però che in questo modo i 15 paesi verrebbero divisi in due gruppi e che dal momento della divisione il gruppo degli in metterà in campo una politica economica, commerciale, ecc. che creerà conflitto con gli out. Si genererà tutta una serie di luoghi di conflitti tra i due gruppi.
Se la Banca Europea – l’unione monetaria prevede il superamento delle banche nazionali, (d’Italia, di Germania, ecc.) e la creazione di un’unica banca centrale – prenderà dei provvedimenti essi saranno validi solo per chi fa parte dell’unione monetaria o per tutti i paesi membri dell’unione europea? C’è rischio nell’attuare due gruppi. Quando un gruppo che si è unito per fare un pezzo di strada insieme si divide tra quelli che corrono di più e quelli che corrono di meno nasce fra di loro una competizione tale da sancire una rottura definitiva.
La metafora valida a cui ispirarsi sarebbe quella del convoglio secondo cui le navi più veloci assumono la velocità della nave più lenta per proteggerla. L’idea del convoglio è fatta apposta per aiutare i più deboli, invece l’idea del nocciolo duro è quella di mollare il più debole e dire: noi andiamo avanti e tu quando arrivi, arrivi, se ….. arrivi. E’ chiaro che il più debole abbandonato in mezzo al mare facilmente affonderà mentre gli altri arrivano.
Per questo non è del tutto errata l’idea che se puntiamo solo sull’unione monetaria, con la riserva perfino di fare due gruppi, sia facile andare alla disintegrazione dell’ Europa e non all’unione.
La teoria oggi più diffusa è quella che pensa all’unione politica come a un qualcosa che entra per la porta di servizio dell’economia.
E’ significativa la definizione: “la politica entra dalla porta di servizio”, è una definizione oggi particolarmente diffusa e riflette il seguente fenomeno: a livello planetario oggi ci troviamo di fronte ad una situazione nella quale la politica è stata superata dall’economia; la politica non detta più le regole all’economia al punto tale che la politica a volte é ritenuta un ostacolo, quando si è gentili si chiama inutile orpello, quando si è cattivi si pensa alla necessità di eliminarla.
Questo sorpasso è avvenuto negli ultimi decenni in maniera molto decisa e veloce portando alla creazione di una economia planetaria, di una finanza planetaria, di una problematica ambientale planetaria, di un problema dell’informazione planetaria, ma non alla creazione di un modello omogeneo di politica planetaria.
Oggi stiamo, per così dire, seduti su un cavallo credendo di tirare le redini, di guidarlo per farlo andare dove vogliamo noi e invece in realtà è lui a portarci dove vuole. Noi, al massimo, possiamo dire a posteriori: è proprio qui che volevamo andare!
L’idea della inutilità della politica è un’idea assolutamente pericolosa che ha generato l’idea che i tecnici siano migliori dei politici. Inoltre si pensa che il governo del pianeta, in tutti i suoi aspetti, sia un problema tecnico e basta. Che la politica non possa fare a meno della tecnica siamo tutti d’accordo, ma che la tecnica si sostituisca alla politica mi sembra una bestemmia, proprio perché la politica opera, a partire da obiettivi, i quali possono essere condivisi o sui quali ci si scontra apertamente. La politica opera a partire da valori, da opzioni , da idee di società e di uomo sulle quali si costruisce o si tende a costruire la società. L’idea della tecnica, invece, è quella che sostiene che in fin dei conti non ci sia assolutamente nulla da raggiungere, non ci siano obiettivi, ma si debba andare solamente ad una gestione dell’esistente senza mettere in discussione se l’esistente è equo o iniquo, giusto o ingiusto, ecc.
L’economia detta le sue regole secondo la logica della competizione, secondo la logica della deregulation, secondo la logica di chi sostiene, per non si sa quale miracolo, che alla fine di questo processo noi avremo, grazie all’economia planetaria, una maggiore ricchezza per tutti; anche se per il momento c’è una maggiore diseguaglianza per tutti.
L’idea di costruire una Unione Europea che nella sostanza assume come paradigma il concetto che la politica viene dopo l’economia mi sembra un gravissimo errore.
Sono un europeista convinto però convinto che è bene realizzare un’Europa politica o meglio un’Europa che a partire dalla politica determini l’Europa dell’economia, della finanza, ecc.
Gestita nel modo che abbiamo detto prima l’Unione Europea diventa una forma di potere, diventa come alcuni sostengono una forma di nazionalismo allargato, e, quindi, un soggetto, che in una realtà planetaria come quella che ho cercato sommariamente di descrivere, cerca di costruire, mettendo insieme i punti di forza, un gruppo di paesi che si dispone a competere con altri gruppi di paesi come l’asian oppure il trattato nafta, ecc., sullo scenario del cosiddetto mercato planetario.
Quindi Unione Europea vuol dire gruppo di paesi che dicono siccome da soli non possiamo competere uniamoci, perché, forse così possiamo gareggiare con gli Stati Uniti e loro alleati cioè Canada e Messico oppure con il Giappone e il suo gruppo. Pertanto, vengono lasciati fuori, visti come la peste, i paesi poveri e disgraziati. Nessuno è andato a chiedere a qualche paese africano se vuol far parte dell’Unione Europea, dell’Asian o del Nafta: chi è nel gruppo forte non si cura del debole.
E’ sicuro però che l’Unione Europea sia un utile passo verso l’ordine mondiale.
L’Unione Europea vista come punto di arrivo da cui non ci si schioda è un errore. Se invece è vista come un passaggio intermedio rispetto alla creazione di un ordine democratico planetario allora ha un suo significato. Significato che assume se è piena di politica e non solo di pacchi di euro.
C’è un motivo molto semplice che ci costringe ancora una volta a riflettere sul fatto che è l’economia oggi a dettare le regole della convivenza umana. Il motivo semplice può essere espresso con l’analisi di tre o quattro numeretti.
Alcuni, tra i quali Ignazio Ramonet direttore di Le Monde Diplomatique, parlano della presenza nel mondo di regimi globalitari, non di regimi totalitari, che oggi non sono più di moda proprio perché il totalitarismo è politica. Oggi va molto più di moda il globalitarismo perché la sua radice è economica.
Le dittature, perfino quella di Mobutu, non stanno più in piedi; quelle economiche invece hanno più capacità di reggere perché viene detto che sono naturali e che poi alla fine qualcosa ci sarà per tutti.
Oggi abbiamo alcune imprese transnazionali (anni fa si chiamavano multinazionali) che attraversano i paesi e ne fanno quello che vogliono. Esse hanno una grande rilevanza nel mondo.
Per es. se facciamo una graduatoria e prendiamo le prime maggiori 200 imprese transnazionali ci accorgiamo che il loro fatturato complessivo rappresenta un quarto dell’attività economica a livello mondiale. Duecento non è un numero sconvolgente, ma basta per fare un raffronto fra attività svolta e numero di occupati. Tenendo conto che sono aziende sviluppate ad alta tecnologia si può pensare che ad un quarto di attività mondiale corrisponda l’impiego del 10% di mano d’opera, invece, occupano lo 0,75% della mano d’opera planetaria. Questo dato è significativo.
Ripeto il fatturato delle 200 più grosse aziende a livello mondiale equivale ad un quarto della produzione planetaria ed all’occupazione, in queste 200 aziende, di 18.800.000 persone, cioè lo 0,75% della forza lavoro esistente sul pianeta. E’ una cosa sconvolgente.
C’è poi da sapere che il fatturato di una di queste 200 aziende, diciamo per es. la General Motors, è più elevato del PIL di un paese come la Danimarca. La Danimarca ha 143 miliardi di dollari di PIL annuo; se la GM ha un fatturato superiore vuol dire che il suo direttore generale ha possibilità maggiori di incidere sulla vita di migliaia di persone di quelle di un super ministro della Danimarca, con la differenza che il direttore generale della GM risponde ai suoi azionisti e il ministro dell’economia della Danimarca, essendo questo un paese democratico, risponde ai suoi elettori. La differenza è enorme perché, è ovvio, la gestione di una Spa è tutta indirizzata alla massimizzazione degli utili, altrimenti l’azionista vende le azioni della GM e compra quelle di un’altra Spa.
Ancora un esempio: la Microsoft di Bill Gates ha un fatturato di 22 miliardi di dollari che equivale a circa 10 – 12 Burundi. Il Burundi aveva nel ‘92 un PIL di 1 miliardo e 400 milioni.
E’ evidente che c’è una grande diversità tra rispondere ai propri azionisti e rispondere ai cittadini che ti hanno eletto. Nel primo caso si tratta il mondo come il luogo dove si investe per far profitti per alcuni, gli azionisti, nel secondo si cerca di gestire il bene comune.
Fra parentesi, stiamo attenti ad ingiuriare gli azionisti delle varie Spa perché in certi casi noi stessi potremmo essere uguali a loro.
Negli Stati Uniti non avviene come in Italia (ma fra poco anche in Italia si farà come già avviene negli Stati Uniti) dove le pensioni le paga l’INPS, le pensioni sono la capitalizzazione singola di ogni versamento fatto dal dipendente al fondo pensioni, il quale gestisce il denaro e alla fine quando chi ha fatto versamenti va in pensione paga una certa cifra tutta di un colpo o un po’ al mese.
I più grandi attori a livello finanziario sono i fondi pensione. Un dipendente della GM che ha versato ogni mese i soldi per il fondo pensione arrivato a 60 anni vuole la sua pensione; il fondo per poterla corrispondere ha investito in qualche azienda, è un grosso azionista. L’interesse del pensionato quale è? E’ che il fondo abbia investito in modo tale da garantirgli la pensione.
Se il fondo dicesse: noi ci siamo dati, a tua insaputa, lo stile equo e solidale, abbiamo investito in grandi operazioni di solidarietà in tutto il mondo, tutto questo non ha reso molto e la tua pensione non c’è, non so quale sarebbe la reazione del dipendente.
O sparate a chi dirige il fondo o vi suicidate tanto è solo anticipare una fine vicina! Al di là delle amenità si può dire che chiunque da azionista non chiede comportamenti particolarmente equi e solidali, ma chiede che in un momento come quello della pensione all’età prevista gli sia concessa una vecchiaia serena.
Facciamo presto a condannare le aziende, ma queste fanno quello che vogliono i loro azionisti e gli azionisti non sono delle persone particolarmente malvagie, ma spesso sono gli stessi dipendenti della Società; al punto tale che un qualunque dipendente – ed è l’assurdo degli assurdi – posto di fronte alla seguente situazione, non sa che cosa fare: se al dipendente di una certa impresa dicono che l’impresa stessa deve ristrutturarsi licenziando 5000 operai altrimenti non fa più profitti e i suoi versamenti al fondo pensioni lì investiti non rendono e non gli garantiscono la pensione, l’operaio che fa? dice si licenziatemi così il fondo avrà i soldi per le pensioni? E come fa a prendere la pensione se non è più dipendente di quella azienda o comunque non ha più lavoro? E’ un bel dilemma. Non è facilmente risolvibile.
Il dilemma c’è se siamo direttamente interessati, ma se è un altro ad avere il dilemma?
L’animo umano non è fatto solo di bontà.
Il fatturato della Ford è maggiore del PIL del Sud Africa; quello della Toyota supera quello della Norvegia. Il Sud Africa e la Norvegia non sono paesetti, sono paesi forti. Questo significa che queste grosse entità economiche hanno grandi possibilità di incidere sulle scelte pagate quotidianamente dalla gente del pianeta. E’ mostruoso.
Ma come avviene questo? Avviene tramite alcuni processi molto semplici che sono:
il processo di delocalizzazione delle imprese,
il processo della competizione,
il processo di rivoluzione sociale internazionale che si fonda su una incontrollata divisione del lavoro e che viene pagata completamente dal sud del pianeta.
Questo vuol dire che le merci e i prodotti usati nel nord del mondo vengono lavorati nel nord del mondo solo se hanno implementato un livello alto di tecnologia; se, invece, implementano un livello alto di costo di lavoro, cioè di mano d’opera, le lavorazioni vengono spostate là dove la mano d’opera costo meno. E’ evidente il motivo.
Per es. il Ministero delle Finanze italiano ha appaltato anni fa ad una imprese pugliese un certo lavoro, l’impresa pugliese di informatica ha pensato bene di spostare i suoi uffici a Tirana dove un tecnico informatico costa 200 – 250 mila lire al mese.
Tra l’altro non importa essere vicini fisicamente perché basta un buon cavo a fibra ottica e i dati si ricevono in tempo reale.
In questi giorni c’è una grande discussione in Italia per decidere se si possono vendere o no gli elenchi dei telefoni su CD. Gli elenchi telefonici italiani sono stati digitalizzati in Cina ed ogni elenco è stato battuto venti volte da tastieriste per poi poter più facilmente eliminare gli errori. Questo significa che il costo di venti persone in Cina è inferiore al costo di una persona in Italia.
E’ chiaro che la delocalizzazione, cioè lo spostamento delle imprese in territori che siano più competitivi dal punto di vista del costo del lavoro, comporta il fatto che in quei paesi il costo del lavoro sia molto basso. Per esempio: i salari, in quanto tali, sono bassissimi in Albania ma sono alti, secondo standard planetari, in confronto ad altri paesi.
Delocalizzando può essere sfruttato meglio il lavoratore specialmente se è bambino: non occorre pagare sindacati, scuole, sanità, oneri sociali, ecc.
Normalmente è possibile esportare gli utili senza nessuna tassazione.
Per di più oltre al downing sociale, puoi fare downing ambientale. Se una impresa ha una conceria in Bangladesh nessuno reclama depuratori o dice di non inquinare; quando sarà inquinato a tal punto che se vai a far visita alla tua fabbrica muori, la chiudi e la riapri da un’altra parte.
Tutto questo rende facilmente esportabile la produzione di tantissimi prodotti in particolare vestiario, scarpe, ecc., nel sud est asiatico.
Molti nostri abiti hanno la targhetta con scritto “create in Italy” che vuol dire pensato in Italia, non fatto.
Vicino al mio paese, Tarcento, in Friuli, c’è la fabbrica dei Trudy simpaticissimi peluches di alta qualità e anche costosi fatti in Cina. A Tarcento ci sono solo dei grandi computers che progettano: il prototipo viene portato in Cina dove viene prodotto da operai del luogo.
La cosa carina è che i Trudy che non passano al controllo qualità vengono regalati per le fiere di beneficenza o per le lotterie parrocchiali per gli aiuti al sud del mondo e così il cerchio si chiude e chi si è visto si è visto!
Ogni singolo paese europeo, ma anche l’Europa come Unione, non ha nessuna capacità di incidere su queste dinamiche. Detto con una frase famosa dopo il 1917 e applicata altrove si può dire che “non esiste la lotta alla disoccupazione di un solo paese”. Cioè tu non puoi fare lotta alla disoccupazione in un solo paese o in un solo gruppo di paesi. Da qui l’assurdo di alcune politiche anche in Italia .
Anche delle politiche kenesiane non varrebbero perché hanno la strana caratteristica di funzionare una sola volta nell’arco della storia. In questo caso non potrebbe essere che lo stato ad assumere persone, perché non è possibile convincere nessuno a tenere aperta una fabbrica con un costo del lavoro superiore a quello di un concorrente che produce a Taiwan, né gli acquirenti a comprare il prodotto che costa di più. Anche se io fossi il santo della produzione delle scarpe e mi preoccupassi solo dell’occupazione e non degli utili non potrei andare avanti per molto. Se nella mia fabbrica un paio di scarpe costa 30.000 e in quella di uno che produce in Bangladesh 3.000 basta che quest’ultimo le venda non a 5.000 lire ma a 29.000 perché mi abbia spiazzato. Non solo mi ha fregato ma il maggior guadagno se lo è intascato perché non ha motivo di venderle a 5.000 o a 12.000 quando chi produce in Italia non può vendere a meno di 30.000, è così ci sono alcune imprese che fanno dei guadagni mostruosi e si capisce perché non si può fare la lotta alla disoccupazione in un solo paese o anche in un solo gruppo di paesi.
Ora possiamo entrare nell’analisi delle problematiche dello sviluppo.
L’art. 130/U del Trattato di Maastricht è completamente dedicato alla cooperazione e allo sviluppo. Leggo alcuni passaggi: “la politica della Comunità nel settore della cooperazione e dello sviluppo integra quelle svolte dagli Stati membri”. “Integra” significa che noi abbiamo 16 politiche diverse e fra loro concorrenziali: 15 politiche più quella europea: A queste si aggiungono altre 16 politiche che sono quelle dell’emergenza (quelle della Bonino con il suo pesce) L’emergenza è una cosa la cooperazione e lo sviluppo un’altra. Oggi si può dire che si è smesso di pensare alla cooperazione e allo sviluppo, non ci sono più fondi, specialmente in Italia, e al massimo c’è l’emergenza, la quale è molto utile perché torna in immagine. Un conto è impegnare, per esempio, tre miliardi in un processo di sviluppo dell’economia agricola di un certo paese (lavoro lungo, visibilità zero), un conto è spenderli in aiuti di emergenza umanitaria.
La Caritas internazionale, Medici senza Frontiere ed altre organizzazioni dicono che il loro problema è che in questo periodo “l’umanitario” è cresciuto tantissimo al punto tale che vi è una relazione stretta fra la crescita dell’umanitario e la diminuzione della politica. Qualcuno sostiene che l’assenza di politica sia parallela alla crescita degli interventi umanitari e che questi siano il parametro dietro al quale si nascondo l’assenza di politica internazionale: del resto una politica internazionale in una situazione planetaria come quella che ho descritto ha scarso senso se non è politica non internazionale ma planetaria.
Riprendo la lettura dell’art.130/U: “la comunità favorisce lo sviluppo economico e sociale sostenibile nei paesi in via di sviluppo e in particolare in quelli più svantaggiati.”
“Più svantaggiati” è un termine tecnico per dire paesi meno avanzati: sono 42 paesi in tutto il mondo e risultano tali dal confronto con alcuni parametri: meno del 10% il PIL prodotto da industrializzazione, analfabeti più dell’80% e rendita pro-capite media inferiore a 350 dollari annui. I paesi che rientrano in queste misure sono 42 e corrispondono ad un miliardo e duecento milioni di persone.
Leggo: “La comunità favorisce l’inserimento armonioso e progressivo dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale…
La politica della Comunità in questo settore contribuisce all’obiettivo di sviluppo generale e di consolidamento della democrazia dello stato di diritto, del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
Quando ci si butta sui grandi principi vuol dire che nella pratica qualcosa non funziona.
“La comunità e gli stati membri rispettano e tengono conto degli obiettivi riconosciuti nel quadro delle Nazioni Unite e nel quadro delle altre organizzazioni internazionali competenti”.
Poi l’art. 130/V: “La comunità tiene conto degli obiettivi di cui all’art. 130/U nelle politiche da essa svolte che potrebbero avere un’incidenza sui paesi in via di sviluppo.” Cioè dice: noi dobbiamo, o dovremmo, tener conto delle ricadute negative o positive delle nostre scelte politiche ed economiche. Se l’Europa sceglie X deve chiedersi prima di attuarle se questo X viene pagato dal Ciad e da un altro paese e se ciò fosse non potremmo farlo. Questo non accade mai ed è pura petizione di principi.
All’art. 130/W punto III si legge: “le disposizioni del presente articolo non pregiudicano (con riferimento all’articolo precedente che dice che vengono fatti dei programmi pluriennali con i paesi in via di sviluppo) la cooperazione con i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico nell’ambito delle Convenzioni ACP-CEE “ (che non ci sono più). Queste sono le Convenzioni di Lomè. Questo è l’aspetto che più mostra il rischio che l’Europa sia incapace di mettere in campo un nuovo modo di cooperare con i paesi del sud se non predispone insieme ad essi un progetto planetario, un contratto sociale planetario. Attualmente esiste una specie di parlamento, costituito da una cinquantina di rappresentati del parlamento europeo e da altrettanti rappresentanti dei paesi ACP, che si riunisce due volte all’anno, una volta in Europa e un’altra in uno dei paesi ACP (ciò consente ai parlamentari europei di fare viaggi di poco significato nei paesi del sud del mondo ed agli alberghi in cui si svolgono di fare dei buoni introiti).
La Comunità Europea per aiutare lo sviluppo di quei paesi ha costituito una “corsia preferenziale” o “corsia specifica per alcuni prodotti”. Per esempio un prodotto come le banane interessa il paese che le produce, la Somalia, e l’Europa che le importa. Attualmente sulle banane è in corso una grande lite tra francesi inglesi e tedeschi.
Comunque il ragionamento alla base del rapporto commerciale tra Europa e ACP è questo: noi riconosciamo in te un paese in via di sviluppo che ha bisogno di cooperazione, invece di fare dei progetti di cooperazione compriamo le tue banane ad un prezzo più alto di quello di mercato: tu guadagni di più e la differenza in più la utilizzi per il tuo sviluppo. Se un chilo di banane sul mercato libero e concorrenziale costa 500 lire, in base a dei parametri complicati che non è il caso di esaminare, io le pago a te paese ACP, Africa, Caraibi, Pacifico, 600 lire al chilo. Il che significa che tu guadagni 100 lire al chilo che dovresti utilizzare per lo sviluppo del tuo paese. Un’idea non stupida ma che ha fatto correre dei rischi. Intanto i liberisti hanno visto in questo un freno al libero mercato ed è questo il motivo che mette Francia e Inghilterra contro Germania. Le prime due hanno paesi ex colonie che producono banane e a loro sta bene l’accordo ACP, la Germania, che è il maggior consumatore europeo di banane, dice: perché le devo pagare di più quando potrei comprarle da paesi che non fanno parte dell’ACP ad un prezzo inferiore? Il libero mercato o vale sempre o non vale mai.
Rimanendo nell’esempio delle banane il caso terrificante è quello della Somalia. In Somalia – tralasciamo ogni commento sugli ultimi anni – attualmente esistono due fazioni, con due eserciti, con anche due pseudo esponenti politici, che si combattono e che sono riassumibili in due potentati bananiferi: la Doole, nota a tutti, e la Somal-fruit.
Perché tanto interesse per i campi di banane in Somalia? Per un semplice motivo. La Doole tende a conquistare e a vincere, mettendo un sacco di soldi per questa guerra, perché se lei produce banane in Somalia entra nel giro ACP e le banane somale prodotte dalla Doole rientrano nel mucchio di banane che l’Europa compra a soprapprezzo. Pensate, in questo caso, noi paghiamo 100 lire in più non per aiutare la Somalia ma per rimpinguare il portafoglio della Dole che già ne ha fino sopra i capelli. Per ottenere questo soprapprezzo, la Dole, ha interesse a mantenere viva una guerra e a vincerla per poter produrre lei in tutta la Somalia le banane e non la Somal fruit (anche se non è pulitissima neppure lei). Qui si vede come un meccanismo economico pensato come meccanismo di solidarietà non funzioni.
Voglio sottolineare anche quelle che vengono chiamate ipotesi di clausole sociali perché ci mostrano ancora una volta il limite dell’idea solo economica a governo dell’Europa o del pianeta intero, come già accade.
Abbiamo detto prima che esistono due tipi di downing, quello ambientale e quello sociale.
Se un’azienda riesce produrre a meno perché paga meno gli operai, perché sfrutta l’ambiente, perché inquina, ecc. fa una concorrenza sleale che secondo alcuni liberisti puri e duri si può ridurre in due modi:
1 – riducendo il costo del lavoro nei nostri paesi.
Se un’ora di lavoro nei paesi asiatici si può pagare 1000 lire facciamo in modo di arrivare a questa cifra per es. anche in Italia attraverso tagli alle spese per la sanità, per la scuola, per i sindacati, ecc. fino ad arrivare alle stesse 1000 lire. Siccome questo non è facile da digerire, per il momento, ci danno in pasto dibattiti sull’occupazione, sullo stato sociale, ecc. in attesa che qualcuno spieghi come si potrà fare.
2. Altri, invece, dicono che conviene tirare su il prezzo nei paesi asiatici.
Altri ancora, i più furbacchioni che stanno in mezzo, sostengono che per evitare la competizione scorretta bisognerebbe rimediare ad alcuni punti, in particolare quello del lavoro minorile perché è quello che fa più effetto: se viene sfruttato un adulto insomma, ma se è un bambino crea più facilmente problema.
C’è stato un grande senatore statunitense che in campagna elettorale ha proposto – visto che nel suo collegio c’erano molti disoccupati a causa del lavoro minorile in Asia – di porre fine allo scandalo dello sfruttamento dei bambini proponendo di non comprare più i materiali così prodotti in modo da ottenere due risultati: eliminare lo sfruttamento e aumentare la produzione negli Stati Uniti e in particolare nel suo collegio elettorale.
Questa posizione possiamo chiamarla di protezionismo filantropico.
Tenuto conto che il lavoro di quei bambini costituisce il 75% del reddito delle loro famiglie. Non sono favorevole allo sfruttamento dei bambini ma dire chiudiamo quelle imprese per occupare di più negli Stati Uniti è protezionismo filantropico modello ‘800 se non peggio.
Ci sono poi altre due proposte più sensate che sono il sistema delle preferenze generalizzate sia in positivo che in negativo. E’ il sistema che ho esemplificato con gli ACP. Cioè dare la preferenza a quelle merci che sono prodotte rispettando dei minimi sociali.
Normalmente non si parla mai di stipendio minimo. E’ questo il bello. Si parla di clausole sociali: ore di lavoro, anno di età per l’accesso al lavoro da parte del bambino. Non deve essere minore di 12 anni, non deve lavorare più di 10 ore al giorno, deve lavorare in un ambiente salubre, ma non si dice che deve essere pagato con un minimo X. Questo è significativo. Il minimo X lo pagherebbe l’impresa, mentre se non può cominciare fino a 12 anni è il bambino che aspetta e basta.
Dunque le preferenze possono essere positive: incentivare quel prodotto per la cui lavorazione vengono rispettate delle clausole. E’ il cosiddetto marchio di qualità sociale, anche i pellettieri italiani hanno messo fuori recentemente un marchio per garantire che quel prodotto è stato fatto rispettando clausole sociali minime.
Attenzione, però, noi non possiamo metterci a posto la coscienza importando prodotti fatti rispettando alcune clausole sociali minime se non ci sarà una vera lotta per esempio allo sfruttamento economico dei bambini, se la riflessione sulle clausole sociali non si estenderà allo sviluppo umano e più in generale ai rapporti economici nord-sud.
Perché non si rivedono le regole di origine del commercio internazionale? Perché invece di abbassare il costo del lavoro in Italia non si alza quello vietnamita? Perchè invece che togliere le scuole agli europei non le diamo anche agli asiatici? Perché invece di tagliare la sanità qui non la diamo anche là? Questi sono modi per pareggiare i costi del lavoro non solo al ribasso.
Per fare questa operazione però occorre un contratto planetario sociale che si chiama politica. Occorre un nuovo contratto fra umani. Il punto di partenza per questo non può essere che politico nel senso alto della parola politica.
La struttura che oggi governa a livello planetario (quella che Ramonet chiama i regimi globalitari a matrice economica) ha tutto l’interesse che ciò non accada. Ha tutto l’interesse che la politica non riguadagni lo spazio e il tempo persi. Noi oggi siamo davanti a questa sfida che è una sfida che tocca l’Europa che vive le stesse contraddizioni, tocca l’Europa in quanto Unione che non può essere solo economica perché l’economia non è la sola ed unica dimensione e riguarda l’Europa nel rapporto con il mondo. L’Europa in quanto tale potrebbe diventare una Unione Europea fortezza nei confronti del sud del mondo, questo si vede in particolare rispetto agli assurdi regolamenti di entrata e di uscita degli immigrati stranieri, oppure potrebbe diventare – solo se pensa di essere un gradino verso un processo di planetarizzazione del contratto sociale – un momento di cooperazione con il sud del mondo. Che tipo di cooperazione? In fin dei conti l’unico modo per raggiungere gli obiettivi di rispetto dei diritti, di rispetto dello sviluppo, ecc., che ci siamo posti, é un superamento della logica dell’economica sulla politica.
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Tosolini – Il tema oggetto della nostra riflessione e il modo in cui l’ho affrontato non permette grandi elaborazioni ma richiede un tentativo di chiarificazione da fare insieme con domande e richieste di chiarimenti.
Domande:
- Si è parlato molto di questo mondo mosso più dall’economia che dalla politica, mondo nel quale le aziende possono quasi tutto e siccome mi sembra impossibile combatterle chiedo se non si potrebbe piuttosto cercare di coinvolgerle. Mi sembra che la proposta della Banca Etica al solo proporla abbia smosso molto. Questo mi fa pensare che si potrebbe provare anche in altri settori.
- Mi domando se ci siano organizzazione internazionali – a cominciare dall’ONU – in grado di dettare regole e farle rispettare. L’Europa che si andrà a creare potrà incidere per creare la politica piuttosto che l’economia?
- Vorrei sapere se NAFTA e ASIAN hanno le stesse caratteristiche dell’UE cioè se sono accordi di tipo strettamente economico e se dalla loro attività si vedono già risultati positivi o negativi.
- Le motivazioni che spinsero De Gasperi e gli altri a fondare l’Europa sono le stesse di oggi? Hai parlato dell’UE come possibile passaggio ad una nuova democrazia planetaria, c’è qualcuno che crede a questo oppure tutti pensano solo all’economia?
- Quali sono le motivazioni per cui siamo arrivati a questo stato di cose cioè alla prevalenza dell’economia sulla politica? Pensando all’economia reale e al potere finanziario si può parlare di preminenza del potere finanziario? E quale è il potere finanziario della malavita, con il riciclaggio ecc.? Per quanto riguarda i meccanismi proposti per limitare lo sfruttamento, tipo le preferenze generalizzate, come si può inserire il boicottaggio e quali sono le sue ricadute?
Tosolini:
Cercherò di dare qualche indicazione che sia utile anche per le vostre ricerche personali.
C’è un modo per mandare in tilt questo ingranaggio? Questa è la metafora con cui si chiude un libro, molto vecchio, di N. Bobbio “Sulle vie della Pace”.
Condivido l’impostazione della prima domanda.
Rispondo prendendo a metafora un passo del libro del profeta Daniele dove si racconta di un gigante che viene presentato come mostruoso e grandissimo, in ferro, in ghisa, in acciaio, ecc. che fa paura, terrore. Però facendo scorrere lo sguardo si scopre che ha i piedi di argilla e, dice Daniele, se dalla montagna cade un sassolino e batte nei piedi di argilla lo sfascia e viene giù tutto.
Noi spesso sottolineiamo i piedi di argilla del sistema in cui viviamo, i punti deboli che esistono, ma non prestiamo tanta attenzione al fatto che non qualsiasi sassolino che cade dalla montagna farà crollare il gigante e che occorre che il sassolino cada e vada a colpire proprio i piedi di argilla. Occorre sì un pulviscolo, ma che entri in quel certo punto dell’ingranaggio. Tanti sassolini che cadono vicino o nel punto sbagliato non servono a niente. Per esempio se metti nella benzina un po’ di zucchero la macchina si ferma ma se metti quintali di zucchero sul portapacchi la macchina lo porta e basta.
Quando decidiamo un’operazione nell’ambito solidale, dell’impegno, ecc. dobbiamo fare bene i conti con la realtà. Dobbiamo lanciare dei sassolini mirando bene ai piedi di argilla non mirando al petto del gigante con il giubbotto antiproiettile, perché se è anche rimbalzoso il sassolino torna indietro e rovina noi. Quindi bisogna stare molto attenti.
Credo che molte delle bellissime cose che abbiamo messo in piedi in questi ultimi anni rispondano a bellissimi progetti ma non abbiano capacità di incidere sui piedi di argilla.
Questo in particolare a causa di una scarsa analisi, di uno scarso studio della realtà. Non perché abbiamo il libro di Daniele in tasca siamo capaci di colpire giusto.
Quando noi parliamo, se mi è lecito dare un’uscita in campo teologico, di inculturazione o di cose simili dobbiamo anche tener conto che se inculturare vuol dire entrare in una realtà bisogna quella realtà conoscerla e bene. Oggi la realtà è il mercato globale. Molte anzi moltissime delle operazioni messe in campo, con tutte le buone intenzioni, con messa a disposizione di risorse finanziarie, umane, ecc., con dispendio di energie in modo encomiabile e anche eroico, non mirando bene, non solo non colpiscono i piedi ma neppure scalfiscono il gigante. Non avendo preso la mira giusta non solo non hanno colpito il punto debole ma hanno avuto un ritorno negativo su quelli che si sono impegnati mettendo a disposizione risorse, scommesse di vita, ecc. Coloro che hanno sperimentato il ritorno negativo hanno detto basta, hanno mollato tutto e se ne sono andati. Abbiamo perso operai per la nostra messe e reso ancora più forte l’immagine del gigante. Nell’ambito a cui noi apparteniamo avviene di rado che si rifletta sull’economia in maniera scientifica.
Il Card. Martini con una metafora umanistica dice che se si è nani dal punto di vista della conoscenza della realtà non è peccato vedere più lontano stando sulle spalle del gigante. Questa metafora vuol dire: guardate che l’economia non è qualcosa che non c’entra, l’economia fa parte del sistema, fa parte della struttura della società e determina la sovrastruttura. Non viceversa. Se noi continuiamo a lavorare solo a livello di sovrastruttura facciamo un gioco che non incide lì dove è importante. Per poter incidere sul punto giusto occorre la conoscenza e il rifiuto di una concezione dell’economia così come va imponendosi. Ovvero l’economia in sé e per sé non è il male; tutti noi, come ogni azienda, lavoriamo o cerchiamo un lavoro da qualche parte. L’economia in sé non è un male ma è una relazione e le relazioni sono positive quelle che fanno crescere e negative quelle che uccidono.
Non dobbiamo dire come hanno detto alcuni che appartengono al nostro giro che l’economia è un male in sé e per sé. Ci mancherebbe altro; tanto più che i conti con l’economia prima o poi li devi fare e se li fai in segreto combini cose da vergognarsi.
Le Monde nel 1991-92 aveva pubblicato un articolo, un attacco su il non uso dei preservativi per quanto riguarda l’etica delle relazioni sessuali, anche per questioni legate all’AIDS. Diceva l’articolo: ….potete dire tutto quello che volete, ma poi dovete spiegare perché la banca del Vaticano lo IOR ha una partecipazione azionaria in una impresa del Costarica che controlla una azienda di articoli sanitari specializzata nella produzione di preservativi. Dal punto di vista ideale sei libero di pensare ciò che tu ritieni giusto, però se pensi in un certo modo devi poi agire di conseguenza anche sul versante economico.
Quando fu lanciato il boicottaggio contro le banche del Sud Africa un istituto missionario che ha là i suoi missionari non poteva riempire l’Italia di incontri e convegni contro l’apartheid e poi depositare le offerte ricevute, magari dalle vecchiette, alla CARIPLO o alla Banca dell’Agricoltura che investono proprio in Sudafrica.
Pochi mesi fa è uscito il dossier di Nigrizia sulla Banca Etica – che poi sintetizza “Capitali Coraggiosi” edito da Alfazeta – e il direttore di Nigrizia nel suo editoriale diceva: adesso noi tutti religiosi e missionari (lui giustamente parlava per sé) prendiamo i nostri soldi, tanti o pochi che siano, e li mettiamo alla Banca Etica. Non si può dire bellissima la Banca Etica ma la facciano i parrocchiani e non il parroco, i parrocchiani singoli e non i fondi della parrocchia.
Quindi usare l’economia nella maniere giusta. Se pensiamo che l’economia sia solo un fatto negativo partiamo col piede sbagliato. Sarebbe come dire che la mano destra è negativa perché qualcuno può adoprarla per sparare. Io adoprerò la mano destra in relazioni positive. Noi spesso rischiamo di demonizzare l’economia quando invece siamo costretti a fare i conti con essa; a meno che ognuno voglia vivere su di un cocuzzolo di montagna, ma la vita eremitica non è l’ideale per tutti. Noi siamo essere socievoli e ci esprimiamo in relazioni anche economiche.
Un esempio: l’Europa e tutto il nord del mondo hanno dazi o misure protezionistiche nei confronti di alcuni prodotti del sud del mondo. Il terzo rapporto dell’ONU per lo sviluppo umano contava quanto ci rimettono i paesi del sud del mondo a causa di queste barriere. Ci rimettono l’equivalente di cinque miliardi di dollari, che è una bella cifra, ma che è soprattutto 10 volte la cifra totale dell’aiuto allo sviluppo che ricevono. Bisognerebbe lanciare una grande campagna pubblica contro l’ipocrisia. Se noi togliamo i dazi e nel contempo smettiamo anche di dare gli aiuti allo sviluppo quei paesi ci guadagnano, prendono più soldi che non con la cooperazione.
Demonizzare l’economia ci rende impossibile conoscerla, lavorarci sopra e agire.
Lo stesso ragionamento vale per le preferenze generalizzate dell’ultima domanda e per il boicottaggio effetti e ricadute. Entra qui in gioco un altro elemento che è quello della società civile cioè delle entità intermedie alle quali non ho accennato durante la relazione. Le regole che andiamo chiedendo, anche quelle come le clausole sociali, al momento difficilmente verranno imposte dagli stati. Più probabilmente verranno imposte da nuovi soggetti, non nuovi ex novo, ma nuovi rispetto a questo problema. Questi nuovi soggetti sono per un lato i consumatori e per un altro lato gli stessi produttori. C’è il rischio di fare il protezionismo filantropico che dicevo prima, però è evidente che il consumatore ha la possibilità di incidere sulle scelte delle aziende. Il modo con cui noi incidiamo sulle scelte delle aziende è il consumo. La metafora più semplice è quella di una merce particolare: l’informazione. Il direttore di ogni quotidiano appena arriva in sede fa due cose:
I° guarda i “buchi” cioè se un giornale concorrente è uscito con notizie che lui non ha (la televisione però ha fatto diminuire l’importanza di questo perché anche attraverso l’ultimo telegiornale si può confrontare e fare in tempo a correggersi);
2° guarda quante copie in più o in meno del giorno precedente ha venduto. Se per caso c’è un calo mettiamo del 20% il direttore sente traballare la sua sedia. Lo stesso vale per qualunque altra merce.
Il consumatore esprime la sua scelta senza neppure parlare mediante l’acquisto e se non compra l’impresa è costretta a ripensare.
I grandi supermercati, le imprese di distribuzione, recentemente regalano delle “carte fedeltà” o cose simili le quali offrono il vantaggio di ottenere alcuni prodotti a minor prezzo e hanno lo scopo di fidalizzare il cliente (fide = fede) e per altri versi di definire in maniera precisa il cliente dal punto di vista del consumo, in modo che si sappia che il tal signore appartiene a una certa tipologia di consumatori e quanti sono i clienti di quel tipo. Può capire l’importanza di questo chi per esempio 10 anni fa si è interessato di macrobiotica o di cibi ecologici e può vedere l’aumento di consumo e quindi di diffusione di questi prodotti. Siccome oggi c’è vendita di questi cibi non esiste super o iper market che non abbia i suoi 50 metri di scaffalatura con riso integrale, cereali, ecc. Se questo tipo di consumo non fosse stato significativo i grandi supermercati non avrebbero aperto delle linee di questo tipo ma sarebbe rimasto in un certo tipo di negozi specializzati. Il riso integrale io l’ho sempre preso in un negozio arabo che serve clientela araba adesso però lo trovo alla Coop o in qualsiasi altro supermercato.
Ogni anno viene pubblicato un rapporto (Nilsen, se ben ricordo) che fa la tipologia dei consumatori, fra le varie tipologie c’è il consumatore alternativo che è la carta di identità di quelli che stanno attenti se il prodotto che comprano rispetta standard ecologici, ecc. Per ogni tipo di consumatore c’è nel supermercato uno spazio proporzionato al suo numero.
E’ necessario approfondire questo discorso e approfondirlo insieme ai produttori. Uno dei limiti che abbiamo notato è che noi abbiamo sempre ragionato solo con i produttori, ad esempio invitando i produttori d’armi a licenziarsi senza pensare che cosa avrebbero fatto dopo. Lanciare l’obiezione alla produzione di armi senza offrire un percorso di fuoriuscita dalla medesima che non comportasse la miseria, non sta in piedi. Mettere in campo una legge sulla riconversione industriale da bellica a civile è un percorso che interessa, di nuovo, la politica.
Ci si può chiedere come mai il nostro stato può sopportare 2.000 cassaintegrati FIAT e non sopportare quelli di una fabbrica d’armi nei due anni che occorrono per riconvertirla.
Ognuno di noi è nel contempo produttore e consumatore e quindi bisogna operare per accordare l’aspetto sindacale, quello del produttore e quello del consumatore.
E’ significativo che il progetto di unità sindacale europeo è scaturito dal progetto di chiusura della Renault in Belgio. Una grossa spinta verso l’unione dei cittadini in Europa l’ha data, nel bene e nel male, il Sig. Schweitzer (nipote di quel dottor Schweitzer premio Nobel per la pace che era citato come esempio di missionario laico) che dirige la Renault per la ristrutturazione della quale ha deciso di chiudere la fabbrica in Belgio che occupava 3.000 operai ora tutti licenziati. Da questo è nato il sindacato unitario degli operai Renault ovunque ci sia una fabbrica Renault. C’è stato uno sciopero europeo, anche in Italia un’ora di sciopero degli operai metalmeccanici per la Renaul.
Non esiste finora un sindacato europeo, se non per riciclare alcuni sindacalisti ormai logori, né, tanto meno esiste un sindacato planetario.
Anni fa si tentava di dire agli operai della Piaggio che se non si collegavano con gli operai della Piaggio in Brasile, non solo non facevano un’azione degna, ma avrebbero perso il posto di lavoro perché gli operai della Piaggio in Brasile, se continuavano ad essere oppressi avrebbero prodotto a costi inferiori. Ed è quello che è successo.
C’è da mettere in piedi anche quel sano utilitarismo che dice se non stiamo bene in due starò peggio anch’io.
Non c’è in Italia la world car che è prodotta in Brasile e per la quale aprono ora un mega stabilimento in India. E’ la prima auto mondiale fatta per essere venduta, senza grosse modifiche, in qualunque parte del mondo. Vanno molto ora le world card per il semplice motivo che così si ottimizzano gli investimenti. E’ evidente che c’è la necessità di connettersi in rete fra questi soggetti e se a questi soggetti connetti anche il consumatore c’è la possibilità di incidere.
In questa chiave anche i boicottaggi hanno un significato, ma ultimamente hanno anche una loro complessità determinata dal fatto che le grandi imprese transnazionali hanno costituito dei blocchi, delle conglomerate con delle partecipazioni azionarie incrociate talmente diffuse che alla fine dei conti vai a boicottare anche te stesso.
E’ il caso della Nestlè. Se uno guarda le partecipazioni maggioritarie della Nestlè e se solo va a prendere l’autobus è già rovinato. Loro hanno gente che studia dalla mattina alla sera per capire come rispondere ai problemi, i loro oppositori no. Questo è il problema: se uno non studia, se non capisce in che mondo vive, mette in campo operazioni che sono perdenti in partenza.
Per il boicottaggio viene spesso citato anche il rischio delle ricadute. Le ricadute non ci devono interessare più di tanto perché se valesse il ragionamento che il boicottaggio crea problemi a qualche produttore noi avremmo ancora lo schiavismo. Quando fu messo fuori legge la tratta degli schiavi chi produceva velieri, vele, corde, ecc. si venne a trovare disoccupato. Deve essere impegno di tutti trovare il modo di creare altri tipi di occupazione ma la paura di eventuali disoccupati non è una buona scusa per non combattere, per esempio, la produzione di armi.
Per quanto riguarda la domanda sull’ONU devo dire che questa organizzazione non è in grado di dettare regole: 1° per la sua costituzione, per le modalità con cui è stata costituita; 2° perché per dettare regole occorre avere consenso, un vincolo obbligatorio si fonda sul consenso che dà la forza per farlo rispettare.
A chi parcheggia in zona vietata non solo fanno la multa ma gli portano via la macchina e per riaverla deve pagare. Ciò è possibile perché è un vincolo obbligatorio, c’è la regola e chi la fa rispettare e c’è una sanzione.
L’ONU non ha nessuna di queste possibilità perché non ha una costituzione politica che gliela accordi.
Ogni giorno il globo è attraversato o meglio irretito da scambi finanziari che avvengono tramite computers, per una cifra che cresce continuamente ma che alcuni mesi fa era di 1.100 miliardi di dollari al giorno.
1.000 dollari, nel 1992, equivalevano al reddito annuo del 49% della popolazione mondiale. Cioè due miliardi e ottocento milioni di persone avevano un reddito complessivo annuo di 800 miliardi di dollari e in un solo giorno giravano più di mille miliardi. Nello stesso anno le spese per armi nel mondo erano di 815 miliardi pari o superiore al reddito di metà della popolazione del mondo (della serie “se vogliamo raddoppiare il reddito di queste persone basta non fare più armi”).
Due anni dopo, una rivista, che di mestiere conta i miliardari in dollari – non in lire italiane che in confronto sono degli straccioni – nel mondo, pubblicò il 7° rapporto UNDP (che è la bibbia di quelli che studiano queste cose). La copia in italiano è edita da Rosenberg and Sellier costa 39.000 lire.
Prima Susan George in un libro che ha un titolo emblematico. “La religione singolare della banca mondiale” (i termini religiosi : fede, ecc. sono sempre più usati in economia) diceva che esistono nel mondo 356 o 358 miliardari in dollari, ognuno di loro supera un miliardo di dollari ma fra loro ci sono quelli che un miliardo lo superano di molto, per una ricchezza complessiva di 770 (più o meno) miliardi di dollari. Il che significa che 358 persone, che se anche avessero ognuna una numerosa famiglia di 1.000 persone, diventerebbero al massimo 358.000, hanno con un capitale complessivo equivalente al reddito annuale di metà della popolazione del mondo.
Mitterand diceva che dobbiamo tassare le speculazioni finanziarie a breve con un 0,25% (cioè niente) e si costituisce un gruzzolo planetario, una specie di capitale del pianeta, da utilizzare in quello che dovrebbe diventare nell’etica planetaria, la cooperazione e lo sviluppo, cioè un welfare planetario. La risposta fu che Mitterand era pazzo, vecchio e vicino alla morte e non hanno accettato.
Queste speculazioni finanziarie diceva ancora Mitterand sono terribili perché hanno la capacità di distruggere il lavoro di intere nazioni in pochi minuti.
Un signore che si chiama Soros, molto amato in Italia, al quale è stata data la laurea honoris causa in economia a Bologna, il quale è un gestore di fondi di investimento (quelli che in questo momento rendono di più) è la stessa persona che ha fatto l’operazione di speculazione sulla lira italiana nei confronti del marco quando da un giorno all’altro siamo passati da 700 lire per 1 marco a 1.000 lire.
Per questo ogni azienda italiana ha l’obbligo di avere un esperto che di mestiere stia attento a quando cambiare i soldi che gli vengono pagati per lavori fatti all’estero. Se ad una azienda arriva il pagamento di 100 milioni di dollari e il 10% di quei soldi sono il guadagno, le paghe, ecc. se li cambio quando il dollaro va giù sono rovinato. Ogni economo è tenuto eticamente a non sprecare i soldi che amministra, non facendo speculazioni ma stando attento a cambiarli nel momento migliore.
Dicevo che la proposta di Mitterand non fu accettata. Si fanno però tante altre proposte di questo tipo che configurano una serie di luoghi di governo planetario dell’economia. L’idea di tassare le imprese transnazionali è un’idea sempre più riproposta dall’ONU. Tassarle per il passaggio interno alla stessa transnazionale, oggi non c’è tanto commercio fra stati quanto passaggio all’interno della stessa azienda (dalla filiale Cina alla filiale Italia per esempio) che equivale a circa il 75% del commercio degli USA. E’ quindi difficile ipotizzare una tassazione eppure un qualche modo di tassazione degli utili va trovato.
Un altro esempio. Noi abbiamo un tribunale per crimini di guerra e contro l’umanità. Attualmente funziona per l’aborto e per il Rwanda. E’ una specie di ministero della giustizia planetario. E ci sarebbero tanti esempi perché l’ONU ha messo in campo tante cose.
Per l’economia la realizzazione di questi percorsi non è piacevole e si fa di tutto per distruggere e per denigrare l’ONU. L’ONU ha tantissimi difetti ma anche tanti percorsi positivi. Sottolineare solo i difetti è un modo per buttare insieme all’acqua sporca anche il bambino, il negativo e anche il positivo.
NAFTA, ASIAN non sono come l’UE. Sono soprattutto associazioni economiche e commerciali. Il Chiapas è un esempio delle conseguenze dell’unificazione del mercato tra Messico, Stati Uniti e Canada. La rovina dell’economia del Chiaps è figlia della logica del liberalismo. Ma non voglio dibattere sul Chiapas che è un caso molto conosciuto.
Vorrei parlare invece del caso della Corea del Sud che riguarda l’ASIAN.
Nella Corea del Sud, negli ultimi mesi, c’è stato un grosso conflitto sociale. Anni fa era già esploso grazie a manifestazioni di studenti, figli di operai che hanno fatto la grandezza della Corea del Sud lavorando dalla mattina alla sera, sottopagati, senza sindacati, ecc.
Lo scontro sociale deriva da una proposta di legge che rende licenziabile una persona da un giorno all’altro per motivi legati alla diminuzione del costo del lavoro. Questa proposta di legge è stata votata dal parlamento la mattina alle sei quando la metà dei parlamentari dormiva. Molti dicono che quella legge sarà il modello di alcune leggi anche italiane o comunque europee sulla diminuzione del costo del lavoro. Deregulation non è solo eliminazione di legami giuridici sulla commerciabilità ma anche deregulation sociale cioè frantumazione dei legami sociali.
Gli operai e gli studenti sud coreani sono scesi in piazza per un forte conflitto (molto diverso da quello del Chiapas per certi aspetti). Alcuni paesi del sud-est asiatico (Le Tigri) grazie all’abnegazione, alla fatica, della popolazione escono dal sottosviluppo e iniziano a raccogliere ricchezza non indifferente. Nel momento in cui i figli degli operai vanno a studiare, chi con grande fatica ha contribuito a mettere insieme quella ricchezza dice vorremmo provare anche a governare la massa di ricchezza che abbiamo prodotto; abbiamo fatto la ricchezza meglio degli industriali di questo paese adesso vorremmo poter governare insieme. Ma questo comporta un aumento del costo del lavoro. Governare insieme vuol dire: apriamo un ospedale, facciamo le scuole, ecc. e ciò comporta tassazioni, aumento del costo del lavoro e uscita della Corea dal numero dei paesi produttori a basso costo del lavoro.
Questa contraddizione sta all’origine del saggio “Quadrare il cerchio” di Ralfh Dahrendorf (tedesco poi inglese, della Camera dei lords, non appartiene al nostro giro e consiglio molto di leggere). Egli dice tre cose: 1° benessere economico, 2° coesione sociale, 3° libertà, sono come il cerchio da quadrare: ciò è impossibile. Sulla cima della torre ci sono queste tre cose, quale butto giù? In Corea dicono: il benessere economico lo abbiamo raggiunto grazie alla coesione sociale, però, non abbiamo la libertà intesa come partecipazione politica e la vorremmo. Ma tutt’e tre insieme non stanno per cui se vuoi maggiore libertà e quindi partecipazione politica finisce il benessere economico. Nel saggio c’è un’analisi interessante sul fatto che alcuni scelgono di buttar giù qualcosa e altri qualcos’altro. Ad es. nel sud est asiatico il modello massimo è Singapore dove si è scelto la rinuncia totale alla libertà preferendo coesione sociale e benessere economico. C’è chi sostiene che in fin dei conti l’autoritarismo non è che una versione morigerata della democrazia.
L’autoritarismo si sta spostando ultimamente dall’universo semantico della dittatura all’universo semantico della democrazia. E’ una cosa pericolosissima.
Le motivazioni originarie di De Gasperi, Adenauer, ecc. erano politiche: fino a 50 anni fa paesi che oggi vogliono o dicono di voler stare insieme si combattevano. Per secoli i paesi europei si sono sparati fra loro. L’ipotesi di unirli fu estremamente coraggiosa. E’ nata come percorso di costruzione di pace. Questa idea fondamentale andrebbe riscoperta mentre si va a costruire la moneta comune. Helmut Kohl ha avuto una battuta per me molto significativa: noi dobbiamo fare l’Europa prima che finisca la generazione che ha visto gli orrori della seconda guerra mondiale. Perché quella è la generazione che ha in sé cromosomi che portano all’unità. Prima che sparisca la generazione che ha visto Auschwitz. L’idea originaria è fondamentale. L’Europa nasce come unione dei cittadini che credono nel percorso di convivialità nelle difficoltà e nelle differenze. Questo è il percorso politico per il quale si può essere disposti a far sacrifici, lo si è meno per l’euro.
Ecco la necessità di riallacciarsi al percorso originario.
Dal punto di vista dell’Unione Europea credo che conti più l’incontro che si terrà a Graz nel giugno prossimo che non l’ipotesi dell’euro. Perché? perché a Graz si incontrerà anche l’Europa delle religioni per dialogare, costruire percorsi didattici,, creare legami. Il legame dovuto alla moneta che si ha in tasca si rompe facilmente perché è un legame mercantile. Il legame vero nasce dal poter parlare insieme di qualcos’altro che non sia quanti euro hai in tasca.
L’originaria intenzione con cui è stata pensata l’Europa come percorso di pace può essere esportata a livello planetario.
(Testo non rivisto dall’autore)